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Il giudizio del padre e il rigore della memoria familiare

Decimo Silano apparteneva a una famiglia nota a Roma per la sua severità, quella dei Manli Torquati. Quando venne accusato di concussione dei provinciali della Macedonia, sui quali aveva esercitato il proprio mandato di governatore, suo padre Tito, console nel 165, lo sottopose a un vero e proprio processo privato, al termine del quale lo ritenne colpevole e gli intimò di scomparire per sempre dalla sua vista. La notte successiva Silano si impiccò, ma neppure il lutto riuscì a piegare il rigore paterno. Torquato non partecipò ai funerali del figlio e rimase in casa come se nulla fosse, mettendosi a disposizione di chi volesse interpellarlo: sedendo nell’atrio, fissava l’immagine del suo omonimo antenato, che da console, due secoli prima, aveva messo a morte il figlio colpevole di aver disobbedito al suo comando. Da uomo saggio qual era, sapeva infatti che le maschere degli avi sono collocate nella parte anteriore della casa perché i posteri leggano le iscrizioni che rievocano le loro virtù e ne imitino le azioni1.

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