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Miti

Bruto partecipa alla fondazione della repubblica

Bruto è figlio di una sorella di Tarquinio il Superbo; questi gli uccide il padre e il fratello, ma Bruto riesce a sfuggire alla follia omicida del sovrano fingendosi sciocco ed entra persino in intimità con i figli del re, che lo considerano il proprio zimbello. Più tardi, Bruto vendica lo stupro commesso da Sesto Tarquinio, figlio del Superbo, sulla castissima Lucrezia guidando la rivolta che conduce all’abbattimento della monarchia, per diventare infine membro della prima coppia consolare che guida la neonata repubblica. Quando viene a sapere che una vasta trama, mirante a riportare Tarquinio sul trono di Roma, ha coinvolto anche i suoi figli Tito e Tiberio, Bruto ne dispone l’immediata messa a morte e assiste personalmente all’esecuzione dei due giovani; e mentre tutti i presenti cedono alla commozione, il solo console mantiene un’espressione imperturbabile1.

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Fedeltà coniugale di Lucrezia

Al tempo del re Tarquinio il Superbo alcuni ufficiali romani impegnati nell’assedio di Ardea decidono di montare a cavallo e di piombare a Roma e a Collazia – il piccolo centro da cui viene uno di essi, Lucio Tarquinio Collatino – per verificare come le loro donne trascorrano il tempo in assenza dei mariti. Ma mentre le altre mogli vengono sorprese nel mezzo di sontuosi banchetti in compagnia delle proprie coetanee, la sola moglie di c, Lucrezia, siede a tarda notte al centro dell’atrio, circondata dalle ancelle e impegnata nella filatura della lana. La bellezza e la castità di Lucrezia accendono però in Sesto Tarquinio, uno dei figli del re, il desiderio di possedere la donna. Trascorso qualche tempo, Sesto si presenta nuovamente a Collazia e viene accolto dall’ignara Lucrezia, cui fa violenza durante la notte vincendo la disperata resistenza della donna. L’indomani Lucrezia convoca i familiari e spiega loro l’accaduto, quindi si trafigge con un pugnale1.

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Vulca e la quadriga di Giove

A Vulca, sommo coroplasta di Veio, a cui Tarquinio il Superbo aveva commissionato una statua di Ercole e, soprattutto, la quadriga fittile che avrebbe decorato il fastigio del grandioso tempio di Giove sul Campidoglio. Vulca e i suoi aiutanti – raccontano i testi antichi – sarebbero riusciti a terminare l’opera solo dopo la cacciata dell’ultimo re, quando Roma era ormai governata da un’aristocrazia composta da acerrimi nemici dei Tarquini – mentre Veio continuava a mantenere buoni rapporti con il Superbo. È in questo contesto che si colloca un evento prodigioso collegato proprio alla produzione di Vulca. Plutarco1racconta infatti che, all’atto di cuocere la quadriga fittile destinata al tempio di Giove a Roma, gli artigiani etruschi osservarono che la statua, invece di restringersi a causa della normale evaporazione dell’acqua presente nell’impasto di argilla, si dilatò e crebbe così tanto da spaccare la fornace in cui si trovava. Gli indovini etruschi videro in tale segno portentoso un presagio di prosperità e potenza per chi avesse posseduto quella quadriga. Per questa ragione gli artigiani veienti guidati da Vulca decisero di non consegnare l’opera a Roma, con la scusa che essa apparteneva ai Tarquini, visto che era stata pagata da loro. Poco tempo dopo, però, in occasione di gare ippiche che si tenevano a Veio avvenne un secondo fatto prodigioso. I cavalli della quadriga vincitrice apparentemente impazzirono e corsero a gran velocità fino a Roma, trascinando con sé l’auriga, incapace di trattenerli, fino a che non lo sbalzarono via una volta giunti al Campidoglio, ai piedi del tempio di Giove che attendeva la sua quadriga in terracotta. Solo a seguito di tale portento gli artigiani veienti, stupefatti e spaventati dall’accaduto, consegnarono la quadriga fittile ai Romani.

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La costruzione del tempio di Giove sul Campidoglio

Quando Tarquinio il Superbo avviò la costruzione del grande tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, fu necessario exaugurare – termine che si può rendere approssimativamente con “sconsacrare” – tutti i tempietti e gli altari che affollavano la cima di quel monte. La procedura prevedeva che fosse chiesto a ciascuna divinità se fosse disposta a cambiare sede per lasciare spazio a Giove. La tradizione riferisce che tutti accettarono di buon grado e che solo Terminus, il dio dei confini, non diede il proprio assenso. Tale diniego fu inteso come un auspicio di eternità: se il dio dei confini non aveva voluto spostarsi dalla propria sede, ciò significava che i confini di Roma, sui quali egli vegliava, sarebbero rimasti saldi e fermi in eterno. Mentre poi si scavava per porre le fondamenta del tempio, fu trovata una testa umana dal volto ancora intatto. Questo ritrovamento, secondo gli interpreti, indicava che il Campidoglio sarebbe stato la rocca dell’impero e il capo del mondo1.

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Bruto sostituisce il sacrificio umano con teste simboliche

Quando Tarquinio il Superbo ristabilisce le feste in onore dei Lari e di Mania, poiché l’oracolo di Apollo prescrive di sacrificare teste in cambio di teste, si avvia l’usanza di immolare dei bambini a Mania, madre dei Lari, per la salvezza dei familiari. Dopo la cacciata di Tarquinio, il console Giunio Bruto muta la tradizione e ordina che il sacrificio si compia mediante teste d’aglio e di papavero: così la richiesta di Apollo può essere soddisfatta sul piano nominale, evitando di fatto l’empietà di un sacrificio umano. Per scongiurare i pericoli, le famiglie appendono alle porte immagini consacrate a Mania durante le feste dei Compitalia1.

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Il sogno premonitore di Tarquinio il Superbo

Tarquinio il Superbo sognò che gli venivano portati due splendidi arieti consanguinei: ne aveva appena immolato il più grande, quando il superstite gli si avventò contro e lo abbatté. Steso a terra, il re allora vide il sole invertire il suo corso.

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