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Il dialogo ambiguo tra Numa e Giove Elicio

Il pio Numa ha appena pacificato i bellicosi Romani, donando loro istituzioni civili e religiose, quando Giove scarica sulla terra una spaventosa sequenza di fulmini violentissimi. Il re ne è terrorizzato, insieme a tutto il popolo, e per scongiurare l’ira di Giove, su consiglio della ninfa Egeria, si impegna a scoprire il segreto per espiare i fulmini. Numa cattura con uno stratagemma Pico e Fauno, che in cambio della libertà gli insegnano come attirare (elicere) Giove giù dal cielo: in questo modo il re potrà chiedere direttamente al dio quale sacrificio espiatorio debba essergli tributato. Il momento culminante del racconto consiste in una serrata sequenza dialogica tra il dio e l’uomo. Nella formulazione di Valerio Anziate, Giove ingiunge: «Espierai con una testa (capite)». «Di cipolla (caepicio)», ridefinisce Numa. «Di uomo (humano)», precisa il dio. «Ma con un capello (capillo)», rilancia il re. «Vivente (animali)», insiste l’interlocutore. «Con un’acciuga (maena)», non si scoraggia il negoziatore. Secondo il tipico schema folclorico della triplicazione, in tre mosse Numa vince la resistenza dell’avversario immortale, che accetta la sua proposta di ridefinire la posta in gioco, convertendo il sacrificio umano in un’offerta sostitutiva meno crudele1.

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