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Miti

Metamorfosi di Rodope

Anche Rodope è una fanciulla dedita alla caccia e alle fiere selvatiche, e anche lei fa giuramento solenne a Artemide di restare sempre vergine, rifuggendo il rapporto con gli uomini e le lusinghe di Afrodite. Ma la dea dell’amore, irritata, le desta una violenta passione per un bel cacciatore. Artemide, adirata per la promessa di verginità infranta, trasforma la fanciulla in una sorgente, chiamata Stige, scaturita dalla grotta dove aveva perduto la parthenia. Da quel momento le fanciulle, che giurano di essere caste, accettano di entrare fino alle gambe nello Stige con una tavoletta al collo in cui è scritto il loro giuramento: se hanno detto il vero tutto va bene, ma se hanno giurato il falso l’acqua si gonfia e ribolle e va a ricoprire la tavoletta1.

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Rea Silvia viene fatta Vestale

Proca aveva lasciato in eredità il regno al figlio Numitore, ma questi ne fu scacciato dal fratello Amulio, il quale eliminò anche la sua discendenza maschile. All’unica figlia del fratello invece, Rea Silvia, l’usurpatore conferì il titolo di Vestale, sottraendole di fatto, con la perpetua verginità che quella carica comportava, la speranza di avere dei figli che un giorno avrebbero potuto reclamare il trono1.

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La vestale Opimia rompe la castità

Mentre i Romani si accingono a intraprendere una guerra contro Veienti e Volsci, una serie di prodigi segnala la collera degli dèi e preannuncia una sciagura imminente. L’origine dei fenomeni viene individuata nel fatto che la Vestale Opimia (Oppia, secondo altre fonti), avendo perduto la verginità, contaminava i rituali. Così, a causa della sua impurità, la sacerdotessa fu condannata a morte1.

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Tentativi di seduzione di Cefalo

Un mattino, l’Aurora vide Cefalo intento a prepararsi alla caccia e lo rapì, benché lui non volesse. Ma per quanto fosse meravigliosa, col suo viso roseo, Cefalo era perdutamente innamorato di sua moglie Procri. Nel suo cuore c’era solo lei, e di lei parlava continuamente. Tanto che la dea, un giorno, si stufò e indispettita lo rimandò da lei. Tornando a casa, Cefalo si chiese se la sua sposa si fosse mantenuta fedele durante la sua assenza. Aurora lo udì e lo mutò d’aspetto, perché potesse verificare. Giunto a casa, Cefalo rimase senza parole: nessuna mai avrebbe potuto essere più bella, anche se triste. Le mancava il suo Cefalo. Lui allora provò a sedurla, ma la castità di lei respinse tutti i tentativi, finché Cefalo non le promise, in cambio di una notte, un intero patrimonio e una miriade di doni, al punto che Procri iniziò a esitare. «Ah!», sbottò Cefalo, «Ero io il finto adultero! Ti ho colto in flagrante, traditrice!». E Procri, vinta dalla vergogna, fuggì. Suo marito si pentì subito: «Perdonami! Confesso che anch’io, se mi fossero stati offerti doni così grandi, avrei ceduto alla colpa». Così, dopo qualche tempo, Procri lo perdonò e tornò a casa e i due trascorsero, d’amore e d’accordo, molti anni meravigliosi1.

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La madre degli dei arriva a Roma

In una delle fasi più drammatiche della seconda guerra punica, infatti, fu richiesto il suo trasferimento a Roma, dove la dea sarebbe stata onorata col nome di Mater magna. In quell’occasione furono consultati gli Oracoli Sibillini, che così recitarono: «La madre manca, o Romani, la madre v’ordino di cercare. Quando verrà con casta mano sia accolta». L’oracolo di Delfi, consultato a sua volta per sciogliere l’ambiguità dell’oracolo, indicò che la “madre” di cui andare in cerca era la Madre degli dèi. Inizialmente Attalo I, il re di Pergamo, si oppose alla richiesta, ma la dea stessa parlò dai penetrali del proprio tempio, invitandolo a lasciarla andare nella città «degna di accogliere qualsiasi divinità». Il nero simulacro della Mater magna venne dunque imbarcato su una nave, costruita per l’occasione, e navigò tranquillo fino alle foci del Tevere, dove trovò ad attenderla cavalieri, senatori e plebe di Roma. A questo punto però la nave si incagliò, e a dispetto di ogni sforzo, non ci fu più modo di farla proseguire. Turbati dal prodigio gli uomini, spossati, abbandonano le funi con cui avevano invano tentato di disincagliare l’imbarcazione. Vi era tra i presenti Claudia Quinta, nobile discendente del vecchio Clauso, donna elegante e onesta, ma sulla cui castità correvano voci maligne. Staccatasi dal gruppo delle matrone, Claudia prima compie un gesto di purificazione, bagnandosi con l’acqua del fiume, dopo di che, inginocchiata e con i capelli sciolti, prega la dea di comprovare davanti a tutti la propria castità. Pronunziate queste parole Claudia tirò senza sforzo la corda e il viaggio della Mater riprese felicemente fino alla destinazione finale1.

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Fedeltà coniugale di Lucrezia

Al tempo del re Tarquinio il Superbo alcuni ufficiali romani impegnati nell’assedio di Ardea decidono di montare a cavallo e di piombare a Roma e a Collazia – il piccolo centro da cui viene uno di essi, Lucio Tarquinio Collatino – per verificare come le loro donne trascorrano il tempo in assenza dei mariti. Ma mentre le altre mogli vengono sorprese nel mezzo di sontuosi banchetti in compagnia delle proprie coetanee, la sola moglie di c, Lucrezia, siede a tarda notte al centro dell’atrio, circondata dalle ancelle e impegnata nella filatura della lana. La bellezza e la castità di Lucrezia accendono però in Sesto Tarquinio, uno dei figli del re, il desiderio di possedere la donna. Trascorso qualche tempo, Sesto si presenta nuovamente a Collazia e viene accolto dall’ignara Lucrezia, cui fa violenza durante la notte vincendo la disperata resistenza della donna. L’indomani Lucrezia convoca i familiari e spiega loro l’accaduto, quindi si trafigge con un pugnale1.

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Fauno e Fauna, marito e moglie

Una diversa versione del mito faceva di Fauna non la figlia, ma la moglie del dio Fauno. Questa versione prevede una differente distribuzione dei medesimi elementi: lungi dall’essere una vergine di specchiata castità, Fauna è dedita al consumo clandestino di vino; per punirla il marito la uccide battendola con rami di mirto, salvo pentirsi successivamente della sua reazione e divinizzare la donna1. Per questo durante i riti della Bona Dea non si utilizza il mirto e il vino non viene chiamato con il suo nome.

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