Un giorno il dio egizio Teuth, che era venerato a Naucrati, sul delta del Nilo, si recò a Tebe, la capitale dell’Egitto, a parlare con il re Thamus. Lo scopo del viaggio di Teuth era quello di mostrare al re tutte le tecniche che aveva inventato, perché le diffondesse tra gli Egiziani. Thamus gli chiese allora di elencargli via via tutte le sue coperte, sottolineando, di ognuna, l’utilità per gli uomini. Teuth cominciò a menzionarle una per una, mentre il re o le lodava o le criticava: le prime furono il numero e i calcoli, cui fecero seguito la geometria e l’astronomia, e poi i giochi (i dadi, ma anche una specie di scacchi), per finire con la scrittura, la cui invenzione Teuth giustificò dicendo che non solo avrebbe reso gli Egiziani più sapienti, ma avrebbe permesso loro di ricordare ogni cosa - perché ai suoi occhi la scrittura era un rimedio per la sapienza e per la memoria. Ma Thamus non lodò affatto quest’ultima scoperta (alla quale Teuth teneva moltissimo): anzi, la biasimò aspramente, assolvendo in parte Teuth (che, come tutti gli inventori, si era mostrato troppo indulgente nei confronti della sua scoperta), ma affermando che l’uso e la diffusione della scrittura avrebbe provocato l’effetto diametralmente opposto a quello che il suo creatore s’era immaginato. L’apprendimento della scrittura avrebbe infatti provocato non il ricordo e la memoria, bensì il suo contrario – l’oblio e la dimenticanza. E questo perché, chi si fosse affidato alla scrittura per ricordare, avrebbe tratto i suoi ricordi dall’esterno (da segni estranei – cioè le lettere) e non dall’interno (da se stesso). Le lettere (aveva concluso Thamus) non erano una medicina per la memoria, bensì una medicina per richiamare alla memoria; la sapienza appresa grazie alle lettere non era sapienza vera, ma solo una parvenza della vera sapienza.