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Morte di Tullo Ostilio

Sotto il regno di Tullo Ostilio, a Roma, scoppia una grave pestilenza, che finisce per colpire lo stesso sovrano. Così proprio lui, che aveva sempre ritenuto indegne di un re le pratiche religiose, d’un tratto divenne schiavo di ogni genere di superstizione. Tutti sapevano che per ottenere la salvezza di quei corpi malati era opportuno invocare l’aiuto degli dèi seguendo le prescrizioni di Numa. E così il re in persona si mise a consultare i libri di Numa, alla ricerca disperata di un rimedio sicuro al suo male. Dopo attenta lettura, trovò in quei libri la descrizione dei sacrifici in onore di Giove Elicio e si ritirò in solitudine nella reggia sul Celio, per compiere quel rito da solo, di nascosto da tutti. Ma stava sbagliando ogni cosa: non solo celebrava per se stesso riti pattuiti da Giove e Numa per il bene collettivo, ma non rispettava neppure il Coretto svolgimento della pratica rituale. E allora Giove, irato per tanta tracotanza ed esasperato dall’irregolarità del rito, fulminò il re e lo incenerì insieme alla sua casa1.

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Tullo Ostilio e la pestilenza

Sotto il regno di Tullo Ostilio scoppia una pestilenza. Tullo, però, non vuole rinunciare alle sue campagne militari e non dà tregua ai suoi uomini, poiché ritiene che per il corpo sia più salutare stare in guerra che rimanersene a casa in ozio. Quando però è colpito anche lui da una lunga malattia, insieme al corpo viene piegato anche il suo spirito fiero: fino ad allora, infatti, aveva considerato i riti sacri come un’occupazione minore per un re, mentre adesso era succube di ogni piccola superstizione e aveva infuso anche nel popolo ogni scrupolo religioso. Ormai tutti chiedevano di tornare allo stato di cose vigente sotto il re Numa e di implorare dagli dèi la pace e il perdono. Tullo stesso, mentre sfogliava i commentari di Numa, trova che un tempo erano stati celebrati da quel re solenni sacrifici in onore di Giove Elicio e così, volendo fare lo stesso, si ritira in un luogo appartato per eseguirli, ma non riesce né a iniziarli né a condurli secondo il rito. Pertanto, non solo non gli appare nessun dio, ma l’ira di Giove lo colpisce con un fulmine incenerendolo con tutta la sua casa1.

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Numa interroga Giove Elicio sui segni celesti

Livio, ad esempio, si limita a riferire che il re, dedicato un altare a Giove Elicio sull’Aventino, consultò il nume per trarne (elicere, appunto) dalla mente il sapere necessario a distinguere quali prodigi mandati dal cielo, tramite fulmini o altri segni visivi, dovessero essere presi in considerazione e con quali riti purificatori andassero scongiurati1.

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Ercole e la sostituzione simbolica nei sacrifici

Giunto nel Lazio, Ercole persuase i Pelasgi ad offrire a Dite non teste umane, bensì “faccine” (oscilla), ovvero maschere riproducenti fattezze umane e a venerare Saturno non immolando un uomo, bensì accendendo delle lampade. La sostituzione qui è motivata da un’analogia puramente fonica (in greco phota significa sia “un uomo”, sia “lampade”), secondo un procedimento che ricorda la soluzione degli enigmi proposta da Numa nel suo dialogo con Giove Elicio. Fatto sta che da allora è invalso il costume per cui alle feste dei Saturnalia i Romani si donavano vicendevolmente candele1.

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