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Manlio condanna a morte il figlio

Nel 340 a.C. Tito Manlio, che intanto ha guadagnato il soprannome di Torquato grazie a una collana (torques) strappata in guerra a un campione dei Galli, guida la campagna contro gli ex alleati della Lega latina. Quando un cavaliere nemico sfida a duello il figlio del console, questi sconfigge l’avversario e ne reca al padre le spoglie, convinto di avere ben meritato; ma nell’accettare il duello il giovane Manlio ha dimenticato l’ordine di non combattere fuori dai ranghi che il console aveva impartito a tutto l’esercito: la sua vittoria è stata ottenuta dunque al prezzo di una grave infrazione della disciplina militare. Il console dispone infatti l’immediata esecuzione del figlio, come prevede la prassi in caso di insubordinazione; la locuzione Manliana imperia sarebbe passata poi in proverbio per definire provvedimenti particolarmente severi1.

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Il giudizio del padre e il rigore della memoria familiare

Decimo Silano apparteneva a una famiglia nota a Roma per la sua severità, quella dei Manli Torquati. Quando venne accusato di concussione dei provinciali della Macedonia, sui quali aveva esercitato il proprio mandato di governatore, suo padre Tito, console nel 165, lo sottopose a un vero e proprio processo privato, al termine del quale lo ritenne colpevole e gli intimò di scomparire per sempre dalla sua vista. La notte successiva Silano si impiccò, ma neppure il lutto riuscì a piegare il rigore paterno. Torquato non partecipò ai funerali del figlio e rimase in casa come se nulla fosse, mettendosi a disposizione di chi volesse interpellarlo: sedendo nell’atrio, fissava l’immagine del suo omonimo antenato, che da console, due secoli prima, aveva messo a morte il figlio colpevole di aver disobbedito al suo comando. Da uomo saggio qual era, sapeva infatti che le maschere degli avi sono collocate nella parte anteriore della casa perché i posteri leggano le iscrizioni che rievocano le loro virtù e ne imitino le azioni1.

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L’eredità di Enea e la missione di Roma

Enea, accompagnato dalla Sibilla, è sceso agli Inferi, dove ha incontrato il padre Anchise, che lo conduce su un’altura per mostrargli la sua discendenza. Da qui egli osserva un lungo corteo di anime in attesa di venire al mondo, che sfila ordinatamente di fronte ai suoi occhi. Ad aprire la colonna è Silvio, figlio di Enea e Lavinia, cui seguono gli altri re albani, Romolo, il fondatore di Roma, e i suoi successori Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio, i Tarquini; poi i grandi eroi della storia repubblicana, Bruto che cacciò il tiranno e fu il primo console, i Deci, i Drusi, Torquato che fece giustiziare il figlio, Camillo che riprese Roma ai Galli; e molti altri ancora, Catone, i Gracchi, i due Scipioni, Cesare e Pompeo, lo stesso Augusto, sotto il cui regno tornerà l’età dell’oro, e infine il giovane Marcello, nipote di Augusto, scomparso a soli 19 anni1.

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