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La vestale Opimia rompe la castità

Mentre i Romani si accingono a intraprendere una guerra contro Veienti e Volsci, una serie di prodigi segnala la collera degli dèi e preannuncia una sciagura imminente. L’origine dei fenomeni viene individuata nel fatto che la Vestale Opimia (Oppia, secondo altre fonti), avendo perduto la verginità, contaminava i rituali. Così, a causa della sua impurità, la sacerdotessa fu condannata a morte1.

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camillo_giunone

Dopo aver preso gli auspici e aver ordinato ai soldati di armarsi, il dittatore Camillo disse: «mi accingo a distruggere Veio per tuo impulso, Apollo Pizio, e a te prometto solennemente (voveo) la decima parte del bottino. E prego te, Giunone Regina, che ora hai in tutela Veio, di seguirci vincitori nella città che accoglierà anche te, in un tempio degno della tua grandezza». I Veienti ignorano che gli dèi li hanno abbandonati e che già aspirano a nuovi templi nella città vincitrice: combattono valorosamente, ma alla fine, in un ulteriore intreccio di prodigi sfavorevoli, la città cade in mano romana. I vincitori si accingono a portar via le prede di cui si sono impadroniti, e giunge il momento di trasportare a Roma anche la statua di Giunone Regina: ma «più alla maniera di chi venera, che non di chi rapisce». Un gruppo di giovani, dopo essersi purificati e con indosso una veste candida, pieni di religioso rispetto si accingono a metter mano al simulacro della dea, che secondo il costume etrusco nessuno aveva il diritto di toccare se non il sacerdote di una certa gens. Uno di essi, non si sa per divina ispirazione o per gioco, chiese: «vuoi venire a Roma, Giunone?». Tutti i presenti esclamarono che a queste parole la dea aveva annuito (adnuisse), altri dissero addirittura che aveva parlato, esprimendo a voce il proprio assenso. Dopo di ciò la statua fu portata via senza bisogno di macchinari particolari, «facile e lieve», per essere condotta sull’Aventino dove il voto di Camillo l’aveva destinata: e dove egli stesso consacrò il tempio a lei dedicato1.

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Luoghi e oggetti sacri della città

«Abbiamo una città fondata dopo aver preso gli auguri; non c’è luogo in essa che non sia pieno di culti e di dèi; i giorni in cui si tengono i sacrifici annuali sono stabiliti, così come i luoghi in cui questi devono essere celebrati. Credete forse che nel banchetto di Giove il pulvinar [il guanciale sul quale veniva deposta la statua del dio] possa essere allestito in un luogo diverso dal Campidoglio? E che cosa ne sarebbe del sacro fuoco di Vesta e della sua statua che è custodita in quel tempio come pegno dell’impero? Che ne sarà dei vostri ancili, Marte Gradivo e tu, padre Quirino? Si pensa dunque di abbandonare in un luogo profano tutti questi oggetti sacri, antichi quanto la città, e alcuni ancora più antichi della sua stessa fondazione? E che diremo poi dei sacerdoti? Non vi viene in mente quale grande sacrilegio stiamo per compiere? Una sola è la sede delle vestali, dalla quale nessun motivo le ha mai smosse se non l’occupazione nemica della città; al flamine di Giove è proibito rimanere anche una sola notte fuori dall’Urbe. Siete sul punto di fare di questi sacerdoti dei Veienti anziché dei Romani? Le tue vestali, o Vesta, ti abbandoneranno e il flamine, abitando fuori dalla città ogni notte, compirà un così grande sacrilegio contro se stesso e lo Stato?»1.

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