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Morte collettiva dei Fabi

La guerra contro Veio si trascinava ormai da tre anni, finché non impugnarono le armi le mani di una sola famiglia pronta a sacrificarsi per il bene di Roma. Tutto ebbe inizio quando nell’aula del senato Cesone Fabio avanzò una singolare richiesta: «Delle altre guerre – diceva – fatevi carico voi, questa la vogliamo condurre noi, come una questione di famiglia, a nostre spese»1. La richiesta fu accolta e i circa trecento Fabi, fra i plausi del popolo intero, partirono, minacciando la rovina del popolo veiente con le forze di una sola famiglia2. La battaglia ebbe luogo presso il fiume Cremera, dove il loro valore brillò, ma fu superato con l’inganno: che potevano fare pochi valorosi di fronte a un agguato di tante migliaia di nemici? Come un solo giorno aveva visto partire tutti i Fabi, così un solo giorno li vide perire. Eppure, gli stessi dèi avevano provveduto affinché la stirpe non si estinguesse: sopravviveva un bambino, rimasto in città perché un giorno potesse nascere Massimo il Temporeggiatore3.

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camillo_giunone

Dopo aver preso gli auspici e aver ordinato ai soldati di armarsi, il dittatore Camillo disse: «mi accingo a distruggere Veio per tuo impulso, Apollo Pizio, e a te prometto solennemente (voveo) la decima parte del bottino. E prego te, Giunone Regina, che ora hai in tutela Veio, di seguirci vincitori nella città che accoglierà anche te, in un tempio degno della tua grandezza». I Veienti ignorano che gli dèi li hanno abbandonati e che già aspirano a nuovi templi nella città vincitrice: combattono valorosamente, ma alla fine, in un ulteriore intreccio di prodigi sfavorevoli, la città cade in mano romana. I vincitori si accingono a portar via le prede di cui si sono impadroniti, e giunge il momento di trasportare a Roma anche la statua di Giunone Regina: ma «più alla maniera di chi venera, che non di chi rapisce». Un gruppo di giovani, dopo essersi purificati e con indosso una veste candida, pieni di religioso rispetto si accingono a metter mano al simulacro della dea, che secondo il costume etrusco nessuno aveva il diritto di toccare se non il sacerdote di una certa gens. Uno di essi, non si sa per divina ispirazione o per gioco, chiese: «vuoi venire a Roma, Giunone?». Tutti i presenti esclamarono che a queste parole la dea aveva annuito (adnuisse), altri dissero addirittura che aveva parlato, esprimendo a voce il proprio assenso. Dopo di ciò la statua fu portata via senza bisogno di macchinari particolari, «facile e lieve», per essere condotta sull’Aventino dove il voto di Camillo l’aveva destinata: e dove egli stesso consacrò il tempio a lei dedicato1.

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Vulca e la quadriga di Giove

A Vulca, sommo coroplasta di Veio, a cui Tarquinio il Superbo aveva commissionato una statua di Ercole e, soprattutto, la quadriga fittile che avrebbe decorato il fastigio del grandioso tempio di Giove sul Campidoglio. Vulca e i suoi aiutanti – raccontano i testi antichi – sarebbero riusciti a terminare l’opera solo dopo la cacciata dell’ultimo re, quando Roma era ormai governata da un’aristocrazia composta da acerrimi nemici dei Tarquini – mentre Veio continuava a mantenere buoni rapporti con il Superbo. È in questo contesto che si colloca un evento prodigioso collegato proprio alla produzione di Vulca. Plutarco1racconta infatti che, all’atto di cuocere la quadriga fittile destinata al tempio di Giove a Roma, gli artigiani etruschi osservarono che la statua, invece di restringersi a causa della normale evaporazione dell’acqua presente nell’impasto di argilla, si dilatò e crebbe così tanto da spaccare la fornace in cui si trovava. Gli indovini etruschi videro in tale segno portentoso un presagio di prosperità e potenza per chi avesse posseduto quella quadriga. Per questa ragione gli artigiani veienti guidati da Vulca decisero di non consegnare l’opera a Roma, con la scusa che essa apparteneva ai Tarquini, visto che era stata pagata da loro. Poco tempo dopo, però, in occasione di gare ippiche che si tenevano a Veio avvenne un secondo fatto prodigioso. I cavalli della quadriga vincitrice apparentemente impazzirono e corsero a gran velocità fino a Roma, trascinando con sé l’auriga, incapace di trattenerli, fino a che non lo sbalzarono via una volta giunti al Campidoglio, ai piedi del tempio di Giove che attendeva la sua quadriga in terracotta. Solo a seguito di tale portento gli artigiani veienti, stupefatti e spaventati dall’accaduto, consegnarono la quadriga fittile ai Romani.

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