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Preoccupato dall’intensità delle piogge e dall’inconsueta frequenza dei fulmini scagliati sulla terra, Numa riesce a placare la collera di Giove dopo aver catturato, grazie alle indicazioni della ninfa Egeria, le divinità dei boschi Pico e Fauno, i quali fanno in modo di trarre il dio supremo dalle sedi celesti cosicché il re possa conferire con lui, e dopo aver aggirato brillantemente la richiesta di un sacrificio umano da parte del dio, secondo un celebre scambio di battute. Numa chiede al dio di essere edotto circa la modalità di scongiurare i fulmini, e Giove gli richiede di tagliare una testa; il re risponde che lo farà, asserendo che taglierà una cipolla del proprio orto. Il dio specifica allora che il capo da tagliare deve essere di un uomo; il re acconsente, precisando che allora gli avrebbe tagliato la cima dei capelli. Ma Giove chiede una vita; Numa assente, puntualizzando che sarebbe stata la vita di un pesce. Sorridendo, il dio riconosce il re degno del colloquio con gli dèi (O vir colloquio non abigende deum!) e gli promette un dono quale pegno di sovranità. Il giorno dopo il dio mantiene la sua promessa: apertosi il cielo, ne discende uno scudo oscillante che verrà ribattezzato dal re ancile poiché appariva tagliato in tondo da ogni parte, e privo di qualsiasi angolo comunque lo si guardasse. Per evitare che l’oggetto prodigioso potesse essere sottratto, il re ordina di fabbricarne altre undici copie. Il fabbro Mamurio Veturio fu così abile nel portare a termine il suo compito che l’originale non poteva essere distinto dagli scudi appena forgiati. In ricompensa il suo nome era ricordato alla fine del Carmen dei Salii. Tullo Ostilio avrebbe creato una seconda sodalitas, i Salii Collini, con sede sul Quirinale. I dodici ancilia erano custoditi nella Regia, nella parte di essa dedicata a Marte (sacrarium Martis), assieme all’hasta Martis, una lancia particolare che veniva scossa dai generali romani prima di partire per una guerra al grido di Mars vigila1.

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dichiarazione_guerra

La procedura fu fissata da Anco Marzio, che l’avrebbe tratta dagli antichi Equicoli prima della guerra contro i Latini. Essa si articolava in diverse fasi. Anzitutto il messo, col capo bendato da una benda di lana, raggiunge il territorio del popolo al quale si chiedono riparazioni, dicendo: «Ascolta, Giove, ascolta, o territorio», e qui nomina il popolo cui esso appartiene, «io sono l’inviato ufficiale del popolo romano; vengo ambasciatore secondo il diritto umano e divino, e si presti fede alle mie parole». Egli formula quindi le richieste, chiamando a testimone Giove, e accettando di non tornare mai più in patria se tali richieste fossero risultate contrarie al diritto umano e divino; questo egli ripete al momento di varcare il confine, alla prima persona che incontra, poi entrando in città, e infine giungendo nel Foro. Se dopo trentatré giorni non vengono soddisfatte le sue richieste, egli dichiara la guerra chiamando a testimoni Giove, Giano Quirino e tutti gli dèi del cielo, della terra e degli inferi, demandando la decisione finale al senato di Roma. Se la maggioranza dei senatori si esprimeva in tal senso il feziale, tornato al confine, alla presenza di non meno di tre adulti, scagliava un’asta con la punta di ferro o di corniolo rosso, aguzzata nel fuoco, nel territorio dei nemici e dichiarava ufficialmente la guerra1.

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