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Miti

Castigo e dono dell'arte mantica per Tiresia

Deposte vesti e ornamenti, la dea Atena sta facendo il bagno alla fonte Ippocrene (presso la vetta del monte Elicona) insieme alla sua compagna più cara, la ninfa Cariclo, madre di Tiresia, il futuro indovino tebano. È l’ora del meriggio e il caldo asfissiante suscita la sete di Tiresia che si aggira per i monti insieme ai suoi cani. Avvicinatosi alla sacra fonte per dissetarsi, il giovane vede Atena nuda e immediatamente perde la vista. Disperata per la tragica sorte del figlio, Cariclo accusa la dea dell’accaduto, rimproverandole di aver tradito la loro amicizia. Benché dispiaciuta per le accuse ingiuste di Cariclo, Atena ha pietà della compagna. Dapprima, le obietta che non è per colpa sua che il figlio ha perso la vista, ma in osservanza alle «leggi di Crono», che vietano ai mortali di osservare un dio, a meno che non sia il dio stesso a volerlo. Quindi, come compenso della cecità ormai irrevocabile, la dea concede a Tiresia grandi doni, facendone un indovino (mantis) di nobile fama, in grado di riconoscere gli uccelli fausti e infausti e di fornire vaticini ai mortali. Gli dona inoltre un lungo bastone, che ne guiderà i passi benché cieco, una vita longeva, e il singolare privilegio, attestato già da Omero1, di conservare intatte le sue facoltà intellettuali, il suo noos, anche una volta morto2. Il noos gioca un ruolo importante anche in un’altra versione del mito, in cui Atena ripaga Tiresia per la perdita della vista «trasferendo al suo noos i guizzi dello sguardo»3. Infine, in una tradizione attestata da Apollodoro4, la cecità di Tiresia è compensata da Atena con un udito eccezionale: la dea «gli purifica le orecchie in modo che possa intendere il linguaggio degli uccelli».

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Integrazione di Esculapio a Roma

Nel 293 a. c. una pestilenza infuriava nel Lazio. Stremati dai lutti i Romani mandarono a consultare l’oracolo di Delfi, che rispose in questo modo: «Ciò che qui cerchi, Romano, avresti dovuto cercarlo in luogo più vicino! E dunque in luogo più vicino cercalo. Per ridurre i tuoi lutti non di Apollo, ma del figlio di Apollo hai bisogno». Il Senato, ottenuto il responso, fece indagare sul luogo in cui viveva il figlio di Apollo, finché inviò i propri messaggeri a Epidauro. In questa città infatti era onorato Esculapio (Asklepios per i Greci, Aesculapius per i Romani), divinità della medicina, il figlio di Apollo e della ninfa Coronide. Giunti a Epidauro gli ambasciatori si presentarono al consiglio e pregarono che fosse loro concesso il dio, affinché con il proprio attivo intervento (praesens) ponesse fine al flagello. La maggioranza era contraria a lasciar partire la divinità, ma durante la notte al Romano apparve Esculapio, in tutto simile alla statua custodita nel tempio. Con la destra tiene un bastone, con la sinistra si liscia la lunga barba: «lascerò il mio simulacro» dice «ma osserva bene il serpente che si attorciglia intorno al mio bastone, così domani potrai riconoscerlo». Ciò detto la visione si dilegua. Il giorno dopo gli anziani di Epidauro, ancora incerti sulla decisione da prendere, si riuniscono nel tempio e chiedono che sia Esculapio stesso a esprimere il proprio volere attraverso un segno divino. Ed ecco che un grande serpente, irto di creste d’oro, si avanza sibilando, suscitando il terrore dei presenti. Ma il sacerdote riconosce la divinità e tutti venerano il numen che ha voluto manifestarsi in questo modo. Il serpente / Esculapio annuisce (adnuit) con le creste e fa vibrare la lingua, confermando in questo modo il proprio “impegno” (rata pignora) a seguire gli ambasciatori: scivolato fuori dal tempio, si imbarca sulla nave romana che lo condurrà fino all’isola Tiberina, là dove sorgerà il suo tempio1. In un’altra versione del racconto è ancora il serpente sacro al dio che, pur senza manifestare proporzioni e attributi visibilmente soprannaturali, sale spontaneamente sulla nave dei Romani2.

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numa_auspici

Le sue qualità però non bastarono, bisognava avere l’approvazione divina. Racconta Livio: «tutti all’unanimità decidono di affidare il regno a Numa Pompilio. Fu dunque fatto chiamare […] e poiché erano stati presi gli auguri (augurato) per Romolo, quando aveva fondato la città, così egli volle che anche per lui si consultassero gli dèi»1. Un augure salì sul colle, si sedette su una pietra e rivolse lo sguardo a mezzogiorno. L’augure stava alla sinistra del futuro re, con il capo velato e con un bastone ricurvo, il lituus, nella destra. Gli dèi furono invocati, lo spazio del cielo individuato: fausto l’auspicio proveniente da oriente (sinistra), infausto quello da occidente (destra). Gli auspici giunsero da destra, Numa fu proclamato re.

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Edipo e Laio: l'esposizione, l'oracolo, il parricidio

Quando Giocasta partorisce, Laio fa prontamente esporre il bambino da un pastore, dopo avergli mutilato i piedi con punte di ferro1. L’uomo decide però di salvarlo affidandolo a un pastore di Corinto, che lo dona a sua volta alla coppia regale della città, Merope e Polibo, che non ha figli propri. Qui Edipo viene allevato fino al giorno in cui, nel corso di un banchetto, un compagno lo apostrofa ingiuriosamente come bastardo. Turbato da questa insinuazione, Edipo decide di cercare la verità recandosi a Delfi, dove riceve un responso ancora più sconvolgente: egli è destinato a divenire assassino del padre e sposo della madre. Edipo fugge allora il più lontano possibile da Corinto, ma finisce per incontrare il suo fato proprio quando si sente ormai al sicuro, sotto le spoglie di un vecchio re su un carro che gli nega il passo al crocicchio sulla strada tra Delfi e Tebe. Il vecchio infatti non è altri che Laio. Ostile e aggressivo verso il giovane sconosciuto, rifiuta di cedergli il passo e lo colpisce violentemente sulla testa con la sferza per i cavalli. Edipo allora è costretto a difendersi e uccide il vecchio con il suo bastone di viandante2.

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Rea Silvia e lo zio Amulio

Dopo essersi impadronito del regno, Amulio impone alla figlia del fratello il sacerdozio di Vesta, che comportava l’obbligo della verginità, e uccide durante una battuta di caccia il figlio di Numitore. Il ruolo di patruus ricoperto da Amulio diventa rilevante allorché la Vestale subisce violenza dal dio Marte e rimane incinta dei futuri fondatori di Roma: mentre infatti Numitore cerca in ogni modo di prendere tempo, suggerendo di attendere il parto per verificare che nascano effettivamente due gemelli, come il dio aveva profetizzato, Amulio è mosso invece da un’ira incontenibile e impone che Ilia venga battuta a morte con le verghe, poiché ha macchiato il suo corpo di sacerdotessa1. Non mancano tuttavia versioni della storia nelle quali proprio ad Amulio era addebitata la violenza contro la donna, che il re avrebbe aggredito assumendo l’aspetto del dio Marte; i due gemelli sarebbero dunque frutto di una relazione incestuosa. Questa variante rientra nella caratterizzazione di Amulio come tiranno, dato che l’ethos del despota trova proprio nell’infrazione delle norme relative alla sessualità il suo campo privilegiato di espressione; d’altro canto, essa rappresenta il totale rovesciamento del ruolo di custode dell’integrità sessuale dei figli del fratello tradizionalmente attribuito allo zio paterno .

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Incesto tra Fauno e Fauna

Tra i molteplici aspetti della sua identità divina Fauno esprime anche quello di una sessualità onnivora e insofferente verso ogni limite; non stupisce dunque che avesse desiderato unirsi anche alla figlia Fauna. Quest’ultima però era nota per la sua ritrosia, al punto da evitare ogni contatto con gli uomini; persino il suo nome era ignoto a tutti, anzi pronunciarlo era vietato, ragione per cui era conosciuta semplicemente attraverso la perifrasi “Buona Dea”; oppone dunque una tenace resistenza alle pressioni paterne, anche quando il dio la colpisce con un bastone di legno di mirto o la costringe a ubriacarsi perché ceda al suo desiderio; Fauno si trasforma allora in serpente e solo così può unirsi con la figlia1.

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Fauno e Fauna, marito e moglie

Una diversa versione del mito faceva di Fauna non la figlia, ma la moglie del dio Fauno. Questa versione prevede una differente distribuzione dei medesimi elementi: lungi dall’essere una vergine di specchiata castità, Fauna è dedita al consumo clandestino di vino; per punirla il marito la uccide battendola con rami di mirto, salvo pentirsi successivamente della sua reazione e divinizzare la donna1. Per questo durante i riti della Bona Dea non si utilizza il mirto e il vino non viene chiamato con il suo nome.

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