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Miti

Elena e Clitemestra, fuori dalle regole del matrimonio

Figlie entrambe di Zeus e di Leda, spose ai due Atridi, Menelao e Agamennone, sono accomunate da un gamos abnorme, al di fuori delle regole sociali del matrimonio. La prima, Elena, è di tale straordinaria bellezza, che tutti i giovani più illustri di Grecia ambiscono alla sua mano. Il padre terreno Tindaro, forse su consiglio di Odisseo, li induce a stipulare un patto di mutuo soccorso, cioè che se lo sposo prescelto si fosse visto strappare con la forza la sposa, essi sarebbero andati in aiuto con una spedizione in armi e avrebbero distrutto la città del rapitore. È su Menelao che ricade la scelta di Elena, il quale accoglie nella sua reggia a Sparta il giovane principe Paride, allevato come mandriano sul monte Ida, dove era stato arbitro nella gara di bellezza tra le tre dee, Era, Atena ed Afrodite. Quest’ultima gli aveva promesso la donna più bella del mondo in cambio della vittoria. Bellissimo, con addosso splendide vesti d’oro, suscita l’amore di Elena di cui anch’egli si innamora immediatamente e, durante l’assenza di Menelao, se la porta con sé sui suoi stazzi sul monte Ida. Menelao come impazzito dalla gelosia, chiama a testimoni i giuramenti di Tindaro e si allestisce dunque una grande spedizione contro Troia dei contingenti greci con lo scopo di riprendersi Elena e vendicare il ratto e l’adulterio1.

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Primo incontro tra Enea e Didone

Dopo il naufragio della flotta troiana sulla costa del Nord Africa, Enea avanza col fido Acate per la città di Cartagine, protetto dalla densa nube con cui Venere lo ha celato a sguardi indiscreti. All’improvviso i due si imbattono nella regina di Cartagine, la bellissima Didone, mentre il troiano Ilioneo e altri dei suoi che Enea credeva perduti stanno impetrando l’ospitalità della sovrana. In quel momento la nube divina si squarcia ed Enea si mostra a Didone con il volto e le spalle simili a un dio: Venere aveva infuso al figlio una scintilla di gioventù e aveva fatto sì che dai suoi occhi sprigionassero letizia e valore, lasciando la regina senza parole1.

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Filesitero, un seduttore esemplare

Oltre a essere bello, Filesitero era un giovane munifico, ardimentoso e ostinato, specie quando si trattava di sedurre. Alla sua attenzione non sfuggì la nobile avvenenza di Arete, una donna di straordinaria bellezza, ma sposata a Barbaro, un tale dai modi aggressivi che in città chiamavano “lo Scorpione” e che la teneva sotto strettissima sorveglianza, benché quella passasse il tempo per lo più in casa, intenta a filare la lana. Eccitato proprio dalla sua castità e infiammato dall’eccezionalità di quella ben nota sorveglianza, Filesitero era pronto a fare qualsiasi cosa pur di averla. Un giorno, Barbaro dovette partire e lasciò Arete sotto la custodia di un fedelissimo servo, Mirmece. Filesitero, convinto della fragilità della fedeltà umana quanto del potere dell’oro, non esitò ad avvicinare lo schiavo e a rivelargli la sua passione. Supplicandolo, lo prega di alleviare il suo tormento e si dichiara deciso a darsi la morte, qualora non ottenga ciò che desidera. Infine, mostra a Mirmece delle monete d’oro, venti per Arete, se accetterà la sua corte, e dieci per lui, in cambio del suo aiuto. Mirmece finisce per cedere, e con lui anche la donna. Ma Barbaro torna a casa prima del previsto e Filesitero, per la fretta di scappare, dimentica le scarpe. Al mattino, lo Scorpione trova sotto il letto dei sandali da uomo a lui ignoti. Ordina allora che Mirmece sia portato in ceppi nel Foro per non aver fatto il suo dovere. Quando vede il servo in catene, Filesitero intuisce tutto e si scaglia contro di lui: «Ti sta bene, furfante maledetto, che ieri, ai bagni, mi hai rubato i sandali!». Sollevato da queste parole e opportunamente ingannato, Barbaro libera Mirmece e gli raccomanda di restituire i sandali1.

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Tentativi di seduzione di Cefalo

Un mattino, l’Aurora vide Cefalo intento a prepararsi alla caccia e lo rapì, benché lui non volesse. Ma per quanto fosse meravigliosa, col suo viso roseo, Cefalo era perdutamente innamorato di sua moglie Procri. Nel suo cuore c’era solo lei, e di lei parlava continuamente. Tanto che la dea, un giorno, si stufò e indispettita lo rimandò da lei. Tornando a casa, Cefalo si chiese se la sua sposa si fosse mantenuta fedele durante la sua assenza. Aurora lo udì e lo mutò d’aspetto, perché potesse verificare. Giunto a casa, Cefalo rimase senza parole: nessuna mai avrebbe potuto essere più bella, anche se triste. Le mancava il suo Cefalo. Lui allora provò a sedurla, ma la castità di lei respinse tutti i tentativi, finché Cefalo non le promise, in cambio di una notte, un intero patrimonio e una miriade di doni, al punto che Procri iniziò a esitare. «Ah!», sbottò Cefalo, «Ero io il finto adultero! Ti ho colto in flagrante, traditrice!». E Procri, vinta dalla vergogna, fuggì. Suo marito si pentì subito: «Perdonami! Confesso che anch’io, se mi fossero stati offerti doni così grandi, avrei ceduto alla colpa». Così, dopo qualche tempo, Procri lo perdonò e tornò a casa e i due trascorsero, d’amore e d’accordo, molti anni meravigliosi1.

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Eumolpo e i doni della seduzione

Eumolpo, ospite di un tale di Pergamo, diviene precettore del suo bellissimo figlio. Escogita dunque un modo per diventarne l’amante. Una sera i due si addormentano nel triclinio. Verso mezzanotte, Eumolpo si accorge che il ragazzo è sveglio. Così, fingendo di esprimere un voto, sussurra: «Signora Venere, se riuscirò a baciare questo ragazzo senza che lui se ne avveda, domani gli regalerò due colombe». Sentito il prezzo del piacere, il ragazzo finge di russare ed Eumolpo lo riempie di baci; l’indomani, gli porta di buon mattino una coppia di splendide colombe e scioglie così il suo voto. La sera seguente, Eumolpo sussurra: «Se potrò toccare questo fanciullo con mano dissoluta senza che lui se ne avveda, gli regalerò una coppia di galli da combattimento». Udito ciò, il ragazzo si avvicina da sé ed Eumolpo indulge su di lui. E l’indomani, come promesso, il ragazzo ottiene i suoi galli. La terza sera, Eumolpo bisbiglia: «Dèi immortali, se da questo fanciullo, mentre dorme, otterrò un rapporto completo, domani gli regalerò un destriero asturiano». L’efebo non dormì mai di un sonno più profondo, ed Eumolpo ne trasse pieno piacere. Ma l’indomani non c’era ombra del cavallo promesso, cosa che contrariò non poco il ragazzo. Così, quando Eumolpo cercò di far pace con lui, quello si ritrasse: «Se non dormi, lo dico a mio padre», minacciò. Ma Eumolpo insistette fino a farlo cedere, e dopo averne tratto godimento, si addormentò. Il ragazzo però, poiché era nell’età dello sviluppo e desideroso di lasciarsi possedere, continuò a strattonare Eumolpo nel sonno, senza lasciarlo dormire, finché quello, esasperato, esclamò: «Dormi, o lo dico a tuo padre!»1.

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Le arti seduttive di Panfile

Quando Birrena, un’amica della madre di Lucio, viene a sapere durante una cena che quest’ultimo è ospite in casa di Milone, lo tira in disparte: «Fa' attenzione. Milone, l’uomo che ti ospita in casa sua ha una moglie, Panfile. Guardati da lei, dalle sue arti occulte e dai suoi iniqui strumenti di seduzione. Dicono sia una maga, maestra in ogni incantesimo. E quando vede un giovane di bell’aspetto, inizia a tessere una rete di lusinghe, si impossessa del suo cuore e lo lega a sé con eterne catene d’amore profondo. Quelli meno condiscendenti, li trasforma in sasso o in pecora, e talvolta li uccide. Quindi, sta attento, e sta' alla larga da lei». Ma Lucio, che da sempre è affascinato dalla magia, pensa: «Tenermi alla larga? Macché! Non vedo semmai l’ora di tuffarmi a capofitto nella rete di una simile maestra!»1.

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Encolpio tra omosessualità ed eterosessualità

Quando Encolpio, che fingeva di essere uno schiavo, sente dall’ancella Criside che la sua padrona spasimava per lui e desiderava incontrarlo, disse: «E sia. Portami da lei». La serva lo conduce nel fitto di un boschetto. Lì appare la padrona: era davvero perfetta, più armoniosa di una statua greca, tanto che Encolpio non avrebbe potuto catturarne a parole la bellezza. Il giovane, per la prima volta, sente di aver dimenticato Doride, il suo primo amore. «Se non ti dispiace una donna che ha sperimentato per la prima volta quest’anno l’amore di un uomo, ti potrò procurare una “sorella”. Tu hai già – mi sono informata – un “fratellino”, ma cosa ti proibisce di adottare anche me? Mi offro con lo stesso grado di parentela. Tu degnati solo di far la conoscenza dei miei baci». «Ma sono io, al contrario», risponde Encolpio, «che ti prego di voler ammettere quest’umile servo nel corteo dei tuoi ammiratori. E riguardo al mio “fratellino”, perché tu non possa pensare ch’io venga a mani vuote al tempio di Amore, ecco, se lo vuoi, è tuo. Te lo regalo». «Ma come», esclama lei, «mi fai dono della persona senza la quale non puoi vivere? Colui dai cui baci dipendi? Che ami nello stesso modo in cui io vorrei che tu amassi me?». E la sua voce, nel dirlo, era così seducente che a Encolpio pare di sentir cantare le Sirene. «Qual è il tuo nome?», le chiede rapito. «Circe», risponde lei. Ed Encolpio pensa che per lei non ci sia nome più adatto1.

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Nascita di Attis

Dal seme del dio frigio del cielo, che Pausania identificava con Zeus, caduto a terra mentre il dio è addormentato, nasce una divinità, Agdisti, dotata di due organi sessuali, maschile e femminile. Gli dèi, pieni di terrore, gli recisero il sesso maschile, dal quale spuntò il mandorlo. Una ragazza, la figlia del fiume Sangario, ne colse il frutto maturo, lo ripose in grembo e il frutto sparì, ma ella ne rimase incinta. Il bambino, nato da questa unione, Attis, venne esposto e una capra si prese cura di lui. La bellezza del ragazzo era ben al di là di ogni bellezza umana e un giorno Agdisti se ne innamorò e cercò di impedire le sue nozze con la figlia del re di Pessinunte facendolo impazzire: Attis si tagliò i genitali e morì. Agdisti si pentì di ciò che aveva fatto e ottenne da Zeus che il corpo di Attis non si corrompesse né imputridisse1.

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Riconoscimento tra Odisseo e Telemaco

Approdato a Itaca sotto le mentite spoglie di un mendicante, Odisseo si rifugia presso il fedele porcaro Eumeo, dove prepara la vendetta sui Proci. Ispirato da Atena, Telemaco si reca dallo stesso Eumeo, che lo accoglie nella sua capanna; Atena consiglia allora a Odisseo di rivelarsi al figlio, lo tocca con una bacchetta d’oro e ne trasforma le vesti, rendendolo più giovane e più bello. Telemaco lo vede e resta senza fiato, intimorito, sicuro che si tratti di un dio, ma Odisseo gli rivela di essere suo padre: i due si abbracciano, scoppiando in singhiozzi e piangendo di un pianto acuto, «più fitto che uccelli»1.

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Riconoscimento tra Odisseo e Penelope

Quando la nutrice Euriclea annuncia che Odisseo è tornato, Penelope non le crede. Di fronte a Odisseo, lacero e sporco dopo la strage, stenta a riconoscerlo e rimane in silenzio, sospettosa. Odisseo si fa allora lavare, indossa vesti preziose e Atena gli versa sul capo bellezza e grazia. Trasformato dalla dea, torna simile a un dio al cospetto della moglie. Ma poiché lei permane in un ostinato silenzio, Odisseo le chiede di preparargli il letto per dormire da solo. Penelope lo mette alla prova, ordinando all’ancella di disporre il letto fuori dalla stanza, ma Odisseo non cade nel tranello: afferma che nessun uomo potrebbe spostare il loro letto. Egli stesso lo fabbricò, ai tempi del loro matrimonio, intagliandolo da un tronco d’olivo rigoglioso attorno a cui costruì la loro camera da letto. Solo allora Penelope lo riconosce, le si sciolgono le ginocchia e gli corre incontro per abbracciarlo e baciarlo: come la terra per il naufrago è lo sposo per la sposa. Atena trattiene sull’orizzonte il carro dell’Aurora e dona così agli sposi ricongiunti una notte lunghissima. Essi parlano a lungo, poi s’avviano al talamo nuziale, dove godono dell’amore e dei racconti, finché il sonno infine li vince uniti1.

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