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Miti

Le Danaidi e il rifiuto del matrimonio

Le Danaidi sono le cinquanta figlie del re di Libia Danao. Fuggono dalla loro terra assieme al padre per sfuggire alle nozze con i loro cinquanta cugini, figli del fratello del padre, Egitto. Si rifugiano quindi ad Argo dove ottengono l’ospitalità e la protezione del re Pelasgo. Il matrimonio si configura infatti per loro come un incesto, trattandosi di cugini consanguinei, per di più al di fuori della norma sociale che richiede il consenso del padre. Ma l’aspetto più marcato nelle fonti è che le nozze sono vissute da loro come un insopportabile atto di violenza e di predazione, che esse, come colombe ghermite da sparvieri, rischiano di subire dai maschi assalitori. Alla fine il padre sembra acconsentire alle nozze, che dunque vengono celebrate, ma egli stesso arma la mano delle figlie dando loro la spada per assassinare i mariti. La prima notte di nozze si trasforma quindi in una strage, in quanto le fanciulle uccidono ciascuna il loro marito, tranne una, Ipermestra, che risparmia Linceo, del quale si era innamorata perché aveva rispettato la sua verginità; il suo è l’unico letto nuziale che non si macchia di sangue, né del sangue della deflorazione, né di quello dello sgozzamento. Per punizione del loro crimine, nell’Ade le fanciulle sono condannate a riempire in eterno di acqua un vaso bucato1.

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Eumolpo e i doni della seduzione

Eumolpo, ospite di un tale di Pergamo, diviene precettore del suo bellissimo figlio. Escogita dunque un modo per diventarne l’amante. Una sera i due si addormentano nel triclinio. Verso mezzanotte, Eumolpo si accorge che il ragazzo è sveglio. Così, fingendo di esprimere un voto, sussurra: «Signora Venere, se riuscirò a baciare questo ragazzo senza che lui se ne avveda, domani gli regalerò due colombe». Sentito il prezzo del piacere, il ragazzo finge di russare ed Eumolpo lo riempie di baci; l’indomani, gli porta di buon mattino una coppia di splendide colombe e scioglie così il suo voto. La sera seguente, Eumolpo sussurra: «Se potrò toccare questo fanciullo con mano dissoluta senza che lui se ne avveda, gli regalerò una coppia di galli da combattimento». Udito ciò, il ragazzo si avvicina da sé ed Eumolpo indulge su di lui. E l’indomani, come promesso, il ragazzo ottiene i suoi galli. La terza sera, Eumolpo bisbiglia: «Dèi immortali, se da questo fanciullo, mentre dorme, otterrò un rapporto completo, domani gli regalerò un destriero asturiano». L’efebo non dormì mai di un sonno più profondo, ed Eumolpo ne trasse pieno piacere. Ma l’indomani non c’era ombra del cavallo promesso, cosa che contrariò non poco il ragazzo. Così, quando Eumolpo cercò di far pace con lui, quello si ritrasse: «Se non dormi, lo dico a mio padre», minacciò. Ma Eumolpo insistette fino a farlo cedere, e dopo averne tratto godimento, si addormentò. Il ragazzo però, poiché era nell’età dello sviluppo e desideroso di lasciarsi possedere, continuò a strattonare Eumolpo nel sonno, senza lasciarlo dormire, finché quello, esasperato, esclamò: «Dormi, o lo dico a tuo padre!»1.

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Arte divinatoria di Teoclimeno

Mentre Telemaco è sul punto di imbarcarsi per lasciare Pilo e far ritorno a Itaca, gli si fa incontro il mantis Teoclimeno, discendente di Melampo e figlio di «Polifede magnanimo, che Apollo fece indovino». Teoclimeno è un esule, fuggito da Argo per aver ucciso un uomo della sua stessa tribù. Incalzato dai parenti del morto, che intendono vendicare con le proprie mani il congiunto, Teoclimeno non ha altra via di scampo che supplicare Telemaco di accoglierlo sulla sua nave e di portarlo con sé in salvo. Il saggio figlio di Odisseo acconsente alla richiesta di aiuto. Appena giunti a Itaca, Teoclimeno dà subito prova, al cospetto di Telemaco, delle sue competenze divinatorie: un falco, che ghermisce tra gli artigli una colomba, vola incontro al giovane eroe, da destra; il mantis riconosce nel rapace «un messaggero di Apollo», destinato ad annunciare la restaurazione dell’autorità regale di Odisseo. Udita con piacere e speranza la parola mantica dell’indovino, Telemaco lo affida alle cure di un amico e si reca alla capanna di Eumeo, uno dei pochi uomini rimasti fedeli al padre. Telemaco e Teoclimeno si incontrano di nuovo poco dopo nel corso di un solenne banchetto alla reggia di Itaca. Qui, dopo che Telemaco ha appena finito di rispondere a una delle tante richieste di matrimonio con la madre Penelope, la dea Atena, la protettrice più premurosa della famiglia regale itacese, suscita tra i pretendenti un inestinguibile riso: ormai votati a morte certa per l’imminente ritorno di Odisseo, i principi di Itaca «ridono con mascelle altrui», quasi fossero già scheletri che digrignano i denti, mangiano carni cosperse di sangue e hanno gli occhi pieni di lacrime. Naturalmente, tale spettacolo, che è ancora di là a venire per quanto i proci siano già condannati, non è visibile al momento a nessuno dei presenti, eccetto Teoclimeno. Il mantis percepisce (noeo) la rovina che si sta per abbattere sui pretendenti, riuscendo sia ad ascoltare gemiti e singhiozzi dei principi massacrati sia a scorgere i muri imbrattati di sangue e le ombre dei defunti che scendono all’Erebo avvolte da una tetra oscurità. L’agghiacciante visione è riservata unicamente al mantis, tant’è che, udita la sua profezia, i proci prendono a ridere di lui e invitano i giovani ad accompagnarlo in piazza «se qui gli par notte!». Ma Teoclimeno, ormai consapevole di quello che sta per succedere, esce dal palazzo da sé, prima che la strage abbia inizio1.

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Venere aiuta il figlio Enea

È in particolare l’Eneide virgiliana a concedere a Venere uno spazio di primo piano. Sin dall’inizio del poema è la dea, angosciata per la sorte di Enea, a lamentarsi con Giove per la tempesta che trattiene i Troiani lontani dall’Italia; quando essi fanno naufragio sulla costa africana, Venere si mostra al figlio sotto le vesti di una giovane cacciatrice e gli offre le informazioni essenziali per orientarsi in una situazione potenzialmente rischiosa. Di lì a poco ancora Venere avvolge Enea in una nube che gli consente di muoversi in piena sicurezza nella terra straniera, quindi, per proteggere il figlio dalla doppiezza dei Fenici e dall’ostilità di Giunone, cui Cartagine è consacrata, invia Cupido da Didone perché induca la regina a innamorarsi dell’ospite troiano. Nuovamente tormentata dall’angoscia, prega Nettuno di garantire a Enea, salpato dalla Sicilia, una navigazione propizia; e quando l’eroe avvia la ricerca del ramo d’oro che gli consentirà di accedere al regno dei morti, l’apparizione di due colombe, uccelli sacri a Venere, viene interpretata come un segno dell’incessante vigilanza materna. Assente nelle prime fasi dello sbarco in Italia, Venere torna in scena per chiedere al marito Vulcano di approntare nuove armi per Enea, quindi le consegna personalmente al figlio e gli concede quell’abbraccio cui si era sottratta sulla costa di Cartagine. La dea non si tiene lontana neppure dai campi di battaglia, intervenendo ripetutamente a protezione del figlio fino al duello finale con Turno. Virgilio non rinuncia infine a una vertiginosa apertura sul futuro: tra le scene effigiate sullo scudo di Enea, Venere compare nel quadro dedicato alla battaglia di Azio mentre sostiene Augusto nello scontro con le forze umane e divine dell’Oriente. Sollecita verso Enea, Venere non sarà meno attiva al fianco dei suoi discendenti, che si tratti del futuro principe o dei Romani nel loro complesso.

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