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Miti

Nascita di Asclepio

La tessala Coronide è incinta di Apollo, ma accetta di unirsi con uno straniero d’Arcadia, Ischi. Apollo, scoperta la tresca, non tollera che nel grembo dell’eroina il puro seme divino si mescoli con quello di un mortale e invoca la sorella Artemide, la quale balza nella stanza di Coronide per colpirla con il micidiale arco. Ma l’eroina è ancora gravida e il dio non può permettere che la sua discendenza perisca; perciò, quando vengono celebrate le esequie di Coronide, si lancia verso la pira funebre e strappa dal ventre della donna il piccolo Asclepio. Il bambino viene poi condotto sul Pelio, dove è affidato alle cure del Centauro Chirone1.

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Morte di Niobe

Niobe, madre di dodici figli, sei maschi e sei femmine, osa mettersi a paragone con Latona, che ha generato soltanto Apollo e Artemide. È un oltraggio molto grave contro la poco prolifica dea e il castigo non tarda ad arrivare: le due divinità assalgono l’eroina armate entrambe del terribile arco; Apollo uccide i figli maschi di Niobe, Artemide le femmine1.

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Morte di Miseno

Prima di accedere al regno dei morti, Enea riceve dalla Sibilla un’importante prescrizione: avrebbe dovuto dare sepoltura al cadavere di un amico che contaminava la flotta; solo allora sarebbe potuto entrare nei domini inaccessibili ai vivi. Si tratta di Miseno, colpito da una morte non degna di lui: egli era figlio del dio Eolo ed esperto nel suono della tromba, con il quale era solito infiammare il valore dei guerrieri. Dopo la morte del suo compagno Ettore, si era unito a Enea. Un giorno, però, mentre con una sola conchiglia faceva risuonare la distesa marina sfidando, folle, le divinità, venne afferrato da Tritone che indispettito lo sommerse tra gli scogli1.

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Suicidio di Evadne sul rogo di Capaneo

Capaneo, uno dei setti eroi andati in armi contro Tebe, nella guerra fratricida tra Eteocle e Polinice, muore fulminato dalla folgore di Zeus. La moglie Evadne sale sulla roccia che sovrasta la casa, in prossimità del rogo funebre del marito, e si slancia ella stessa nel rogo per il desiderio di morire con lui, come dice con foga esaltata: «È morte dolcissima morire assieme a chi amiamo […] unirò il mio corpo allo sposo amato nella fiamma splendente, stringendo la mia carne alla sua. Giungerò al talamo nuziale di Persefone, e non ti tradirò mai»1.

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Odisseo e la caccia

Invitato al palazzo del nonno Autolico sul Parnaso, Odisseo partecipa insieme agli zii ad una battuta di caccia al cinghiale, nel corso della quale fa mostra di tutto il suo coraggio. Benché ferito a un ginocchio, nello scontro con l’animale, riesce ad avere la meglio. Soccorso e curato dagli zii, Odisseo giunge al palazzo con la sua preda che gli vale la consegna di ricchi doni da parte di Autolico e festeggiamenti a palazzo con un banchetto. Approdati sull’isola di Circe, Odisseo e i suoi compagni patiscono la fame per due giorni, fino a quando l’eroe non decide di andare in esplorazione e, per intervento divino, si imbatte in un grande cervo, la cui uccisione viene, ancora una volta, celebrata con un banchetto. Meno fortunata è la caccia dei compagni di Odisseo sull’isola di Scilla quando, perseguitati dalla fame e benché vincolati da un giuramento, si risolvono a cacciare le vacche sacre al Sole. Il banchetto che segue, con animali solitamente destinati al sacrificio, provoca la reazione degli dèi che si abbatte violenta sulle navi1.

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Callisto: perdita della verginità e castigo di Artemide

Al seguito della dea Artemide e, per questo, tenuta alla verginità, Callisto viene sedotta da Zeus che, per avere rapporti sessuali con la giovane, si trasforma nella stessa Artemide, cosa che rivela che soltanto sotto le sembianze della dea il dio sa di potere esaudire il suo desiderio d’amore per la giovane. In seguito Artemide, durante un bagno nei boschi, vede Callisto nuda, che mostra, nel corpo, i segni evidenti di una gravidanza incipiente. La dea punisce la ninfa, per avere disatteso il patto di verginità, tramutandola in un'orsa. In seguito essa troverà la morte colpita dalle frecce di Artemide stessa, ma verrà tramutata da Zeus nella costellazione dell'orsa maggiore1.

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Ippolito muore travolto dai propri cavalli

Ippolito, figlio di Teseo e di un’Amazzone, benché oramai in età da matrimonio, preferisce starsene in disparte dalle femmine e continuare a cacciare nei boschi in compagnia degli amici di scorribande, di cavalli e di cani1. Per Ippolito il rifiuto di ogni esperienza erotica è una scelta consapevole e un motivo di vanto. Offesa per il disprezzo che il ragazzo manifesta nei confronti della sua sfera di potere, Afrodite destina il ragazzo a essere oggetto di una passione incontenibile da parte di chi meno avrebbe dovuto desiderarlo, ossia Fedra, giovane moglie di Teseo. Inorridito da questa passione, Ippolito rifiuta le avances della matrigna che, per vendicarsi, lo denuncia al padre accusandolo di averla violentata. Teseo maledice il figlio, invocando Poseidone, che in questo modo realizza la preghiera del padre: mentre Ippolito corre in riva al mare sul suo carro, un toro esce dalle onde terrorizzando i cavalli. Alle giumente rese ingovernabili dalla paura, Ippolito rivolge poche disperate parole, cercando di calmarle «Fermatevi, non mi uccidete, creature allevate alla mia mangiatoia!»2. Ma il carro esce di strada e Ippolito, intrappolato nelle briglie, è fatto a pezzi.

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Atteone muore sbranato dai propri cani

Atteone è figlio di Autonoe e di Aristeo ma era stato allevato Centauro Chirone, dal quale aveva imparato tutti i segreti della caccia, che praticava sul monte Citerone in Beozia. Le fonti più antiche raccontano che le sue disgrazie erano iniziate quando aveva fatto arrabbiare Zeus, insidiando Semele; ma la versione più diffusa lo vuole invece in contrasto con Artemide, dea dei boschi, degli animali selvatici, e delle fasi giovanili (pre-matrimoniali) della vita umana. Secondi alcuni Artemide lo prende di mira perché si era vantato di saper cacciare meglio di lei1; secondo altri, invece, perché – volente o per sbaglio – l’aveva vista mentre nuda faceva il bagno2, violando con il suo sguardo la proverbiale refrattarietà della dea (eternamente vergine) al desiderio maschile. Per punire il ragazzo Artemide decide allora di agire sui suoi cani: li fa improvvisamente impazzire, inviando loro un attacco di rabbia per cui non riconoscono il ragazzo e lo attaccano3; ovvero trasforma Atteone in un cervo, ingannando così i cani che lo azzannano pensando di sbranare la preda. Ma la storia non finisce con la morte dello sfortunato giovane. Dei numerosi segugi che formavano la sua muta, sappiamo che, riavutisi dall’allucinazione provocata dalla dea, avevano cercato disperatamente il loro compagno, riempiendo le selve di ululati strazianti. Giunti finalmente presso l’antro del Centauro Chirone, ne suscitarono la compassione al punto che egli costruì un’immagine del ragazzo per lenire così la loro struggente nostalgia4.

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Morte dei figli di Niobe e metamorfosi in pietra

La figlia di Tantalo si vantava di aver generato molti più figli della dea Leto. La punizione fu tremenda. I gemelli arcieri figli della dea, Apollo e Artemide, uccisero con le proprie frecce i figli di Niobe. Per molti giorni i corpi rimasero privi dei riti funebri, poi furono seppelliti dagli dèi. Quanto a Niobe, sopraffatta da un dolore incommensurabile, fu tramutata in pietra, e sotto questa nuova forma continuò a covare le sue kedea «luttuose pene»1.

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L'ambra

Il figlio del Sole, Fetonte, ottenne dal padre di poter condurre il carro che trasportava l’astro diurno da oriente a occidente1. L’impresa, però, si rivelò disastrosa. Il ragazzo non fu capace di governare i cavalli alati e il carro si diresse troppo vicino alla terra. Le montagne si incendiarono, le acque si prosciugarono e Zeus, per porre fine al caos, folgorò l’auriga. Fetonte morì precipitando nel fiume Eridano. La sua morte fu pianta dalle sorelle, le inconsolabili Eliadi: esse furono tramutate in pioppi neri e le loro lacrime, asciugate dal calore dell’astro, divennero ambra.23.

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Apollo uccide la dragonessa di Delfi

Quando fondò il tempio di Delfi e creò un culto che si sarebbe distinto per l’enorme affluenza di pellegrini e la ricchezza di offerte sacrificali, Apollo dovette fare i conti con un mostro serpentiforme, la dragonessa (drakaina), alle cui cure Era aveva affidato il mostruoso Tifone. La dragonessa uccideva spietatamente quanti incontrava ed era un potenziale pericolo per le folle di pellegrini che sarebbero confluite nel tempio. Apollo la uccise con una freccia e la lasciò imputridire al suolo. Il luogo in cui la dragonessa morì venne chiamato Pito dal verbo pytho ("imputridisco") e tutti da quel momento chiamarono Apollo "Pizio"1.

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Purificazione di Apollo dopo l'uccisione di Pitone

Dopo aver ucciso il serpente Pitone, custode di un oracolo preesistente, quello di Themis/ Apollo dovette scappare e andare supplice in Tessaglia, dove si purificò nelle acque del fiume Peneo. Cintosi di un ramoscello di lauro nella valle di Tempe, il dio tornò a Delfi a prendere pieno possesso del tempio. Secondo un’altra tradizione, dopo aver ucciso Pitone, Apollo, in compagnia di Artemide, arrivò a Egialea, antico nome di Sicione, per essere purificato; spaventati in una località che da quel momento si chiamò Phobos («paura»), deviarono per andare a Creta, da Carmanore, un purificatore1.

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ino_roma

La storia inizia nella città greca di Tebe, dove si trova la giovane donna Ino, sposa del re Adamante. Inoè anche sorella di Semele, dalla cui relazione amorosa con Zeus nasce Dioniso. A causa dell’ira di Giunone, però, Semele è stata fulminata. Dalle ceneri del suo corpo viene estratto il feto di Dioniso, che viene cucito nella coscia di Zeus per completarne la gestazione. Una volta nato (o rinato dalla coscia del padre), Dioniso viene affidato a Ino, che se ne occupa in qualità di zia materna. A questo punto la collera di Giunone per il tradimento di Zeus si rivolge contro di lei e la sua famiglia. Giunone fa in modo che Inovenga a sapere che Adamante, il marito, aveva una concubina. Resa folle dalla gelosia, Inobrucia i semi con cui si sarebbe dovuto ottenere il futuro raccolto. Quest’atto sconsiderato, che può provocare una grave carestia, suscita a sua volta l’ira furiosa di Adamante che uccide uno dei figli avuti con Ino. La giovane madre scappa con l’altro figlio, Melicerta, nel tentativo di salvargli la vita. Fuggono fino al mare in cui si gettano saltando da una rupe. Le divinità marine hanno pietà di loro e, nel mito greco, le divinizzano: lei prende il nome di Leucotea, la dea bianca, in ricordo della bianca schiuma del mare, e il figlio quello di Palemone. Nel mito romano, invece, la loro storia non termina qui. Dopo un viaggio per mare e, in seguito, nel Tevere, i due approdano nel centro di quella che sarà un giorno Roma, vicino al futuro Foro Boario, dove si trovano anche l’Ara Maxima di Ercole e il Tempio di Carmentis. Al loro arrivo, madre e figlio sono attaccati da un gruppo di Menadi, che vogliono impossessarsi del bambino. Inochiede aiuto ed è proprio Ercole che, udite le grida, viene in suo soccorso. Liberati dalle donne infuriate, madre e bambino vengono accompagnati da Carmentis, dea della profezia proveniente anche lei dalla Grecia. Questa provvede a rifocillarli offrendo loro quei biscotti che diventeranno in seguito un’offerta rituale e a tranquillizzarli, rivelando loro di essere al termine delle sofferenze: madre e bambino diventeranno delle divinità del Lazio e saranno conosciuti come Mater Matuta, cioè la divinità dell’aurora e dell’infanzia dei bambini, e Portunus, nome che indica il suo stretto rapporto con le acque navigabili1.

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Castore e Polluce contro Ida e Linceo

Il destino dei Dioscuri si intreccia con quello di Ida e Linceo, figli di Afareo cugino di Tindaro. Venuti a contesa per il bestiame, i Dioscuri riescono a rapire la mandria dei cugini e fuggono. Linceo però, dotato di vista acutissima, scorge Castore acquattato nel cavo di un albero di quercia; ne rivela quindi la posizione a Ida, che lo trafigge mortalmente con una lancia. Polideuce si slancia a inseguirli fino a Terapne, dove i due si erano rifugiati presso la tomba di Afareo. Lì Polideuce uccide Linceo e, quando Ida cerca di colpirlo con la pesante pietra tombale del padre, è lo stesso Zeus a difendere il figlio e a incenerire Ida con la folgore. Polideuce torna di corsa da Castore, ma lo trova in fin di vita; scongiura allora il padre Zeus di farlo morire con il fratello gemello, poiché se non può essere vissuta insieme a Castore la vita gli appare solo come sofferenza. Zeus allora lo pone davanti a una scelta: o vivere senza Castore da immortale nell’Olimpo o condividere lo stesso destino del gemello, un giorno in cielo e un giorno negli inferi. Polideuce senza esitazione sceglie il destino di condivisione con il fratello. Da allora i Dioscuri trascorrono un giorno presso Zeus, nell’Olimpo, e un giorno nell’oscurità, sotto terra1. Si narra ancora che dopo morti i due divennero stelle luminose, la costellazione dei Gemelli2. Dal cielo essi vengono in soccorso ai naviganti che, colpiti da una tempesta, li invocano promettendo loro un sacrificio di bianchi agnelli3.

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