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Miti

Uccisione di Pelia

Rientrato in patria, Giasone consegna allo zio Pelia il vello d’oro conquistato grazie all’aiuto di Medea, che accompagna in Grecia l’eroe vittorioso. Lo zio usurpatore, nel frattempo, per timore di perdere la sovranità, ha sterminato tutta la famiglia di Giasone, il quale medita vendetta e istiga Medea a far pagare il fio a Pelia. La donna chiede allora alle Peliadi di tagliare a pezzi il padre e poi di metterlo a bollire, promettendo che, per mezzo di filtri, lo renderà giovane. Le ragazze si lasciano convincere quando Medea, davanti ai loro occhi, getta nel calderone un montone squartato e ne fa uscire un agnello. Le Peliadi ripetono la procedura e il vecchio padre muore1. Secondo un’altra tradizione, prima dell’immersione nel calderone Medea incita le figlie a dissanguare il padre dormiente, con l’intento di eliminare il sangue vecchio dalle vene e poi sostituirlo con sangue giovane2. In una versione ancora diversa la maga si traveste da vecchia, poi si presenta con un simulacro di Artemide, dichiarando che è la dea in persona, desiderosa di insediarsi in città ed essere qui onorata, a ordinare il ringiovanimento di Pelia. Per corroborare la richiesta, lava il proprio corpo con acqua pura, in modo da riacquistare l’originaria forma di fanciulla. A questo punto, il vecchio usurpatore è convinto a sottoporsi al rituale. Nella notte, Medea vince la resistenza delle Peliadi con la prova del caprone, estraendo dal calderone un finto agnello3.

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striges

Ci sono degli uccelli voraci (avidae volucres), della stessa stirpe delle Arpie che strappavano il cibo a Fineo: hanno grossa testa, occhi fissi, becco da rapace, piume bianche e artigli uncinati, e le loro prede sono bambini incustoditi. Volano di notte alla loro ricerca, e ne guastano i teneri corpi: con i becchi – si racconta – squarciano (carpere) le viscere dei lattanti (lactentia viscera) e ne succhiano il sangue riempiendosi avidamente il gozzo (plenum poto sanguine guttur habent). Si chiamano striges e l’origine di questo nome risiede nel fatto che di notte stridono (stridere) in modo terrificante. Non si sa se nascano già nella forma di uccelli, o se siano delle vecchie fattucchiere a prenderne l’aspetto con incantesimi e formule marse: quale che sia la loro natura, le creature arrivano alla culla del piccolo Proca, nato da appena cinque giorni. Con le loro avide lingue succhiano (exsorbent) il petto della fresca preda e alle sue grida accorre la nutrice, che trova sul volto del neonato i loro segni: i tagli lasciati dagli artigli e un colorito livido, come quello delle foglie quando d’inverno si seccano. La balia chiede allora aiuto a Crane; questa la rincuora, consola i genitori e promette di salvare la vita del piccolo. Poi, con un ramo di corbezzolo tocca per tre volte gli stipiti delle porte, tre volte segna le soglie, asperge l’ingresso con un filtro magico, e tenendo le viscere crude (exta cruda) di una scrofa di due mesi dice: «uccelli della notte, risparmiate le interiora dei bambini (extis puerilibus): in cambio del piccolo è immolata una piccola vittima. Un cuore in cambio di un cuore (cor pro corde), vi prego, al posto di quelle viscere, prendete queste viscere (pro fibris sumite fibras): vi offriamo questa vita in cambio di una migliore». Mette le viscere sacrificali all’aria aperta e vieta ai presenti di voltarsi a guardarle (respicere), quindi sistema il ramo di biancospino avuto da Giano in corrispondenza di una piccola finestra che dà luce alla stanza. Da quel momento gli uccelli non violano più la culla e al piccolo Proca torna in volto il colorito di prima1.

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