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Glauco diventa immortale

Ad Antedone, in Beozia, il pescatore Glauco si accorge che alcuni dei pesci da lui catturati riprendono vigore grazie a una certa erba. Volendone sperimentare personalmente le proprietà, l’eroe si ciba del portentoso vegetale: secondo alcuni impazzisce, secondo altri diviene subito immortale, senza però smettere di invecchiare. In preda a simili effetti, Glauco salta in mare gettandosi da una rupe. Da questo momento è una divinità marina, dotata di virtù profetiche1. In Ovidio, dopo il tuffo, Oceano e Teti purificano Glauco di tutto ciò che egli ha di mortale, pronunciando nove volte una formula e lavandolo con l’acqua di cento fiumi; il personaggio attraversa una fase di profondo smarrimento e, quando riprende i sensi, ha una lunga barba verde, braccia cerulee e coda di pesce2. Secondo Nicandro, Glauco è un cacciatore dell’Etolia e l’animale che vede rianimarsi per aver assaggiato la miracolosa erba è una lepre. Per volere di Zeus si scatena una violenta tempesta, che induce il personaggio a gettarsi in mare3. C’è infine la tradizione su Glauco bambino cretese, figlio di Minosse e Pasifae. Mentre sta inseguendo un topo, costui cade inavvertitamente in un orcio colmo di miele e muore. Il padre lo cerca a lungo e invano, finché il cadavere viene rinvenuto grazie all’abilità mantica di Poliido di Argo; ma Minosse, che rivorrebbe il figlio in vita, fa rinchiudere l’indovino insieme al corpo del defunto. Durante la prigionia, Poliido assiste al prodigio di un serpente che, per mezzo di un’erba, resuscita un altro serpente appena morto. Riporta quindi in vita Glauco e viene liberato dal re4.

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Il cacciatore Melanione

Confinato sui monti, ai margini della società, Melanione passa il suo tempo in solitudine, cacciando lepri e intrecciando reti. Da questa condizione di isolamento, il giovane non fece mai ritorno, tanto egli odiava le donne1.

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strigae_petronio

«Mentre vegliamo il cadavere e la povera madre piange, all’improvviso (subito) le streghe (strigae) iniziano a stridere: un suono acuto, simile al vagito di una lepre inseguita dai cani. Uno schiavo della Cappadocia, grosso, coraggioso e assai forte, sguainata la spada e fasciata la mano sinistra si slancia fuori dalla porta e trafigge una di quelle donne (mulieres). Sentiamo un gemito, ma senza vederle. Quello stupidone rientra gettandosi sul letto, e ha il corpo livido come fosse stato preso a frustate, perché evidentemente lo ha toccato la "mala mano" (mala manus). Chiusa la porta, ci rimettiamo a vegliare il cadavere; ma quando la madre lo abbraccia, toccandolo si accorge che è un manichino fatto di paglia (manuciolum de stramentis factum), senza cuore né interiora né nulla: di certo le streghe lo hanno portato via (involaverant) sostituendolo con un fantoccio di paglia (stramentitium vavatonem). Credetemi, sono donne che la sanno lunga (plussciae), sono creature notturne e mettono tutto sottosopra (quod sursum est, deorsum faciunt). In seguito a questo fatto, il Cappadoce non torna più del suo colore (coloris sui) e dopo qualche giorno muore delirante»1.

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