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Miti

Giacinto e l'omosessualità

Giacinto, giovane di bellissimo aspetto, fu amato per la sua straordinaria bellezza da Tamiri, aedo altrettanto bello, che si dice sia stato il primo uomo che amò un altro uomo. Giacinto fa innamorare follemente di sé anche il dio Apollo. Mentre i due giocano al lancio del disco, un colpo del vento Zefiro, anch’egli innamorato di Giacinto, fa deviare il disco, che colpisce e uccide il giovinetto. Apollo, per rendere immortale l’amico, trasforma il suo sangue in un fiore dal suo stesso nome1.

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Callisto: perdita della verginità e castigo di Artemide

Al seguito della dea Artemide e, per questo, tenuta alla verginità, Callisto viene sedotta da Zeus che, per avere rapporti sessuali con la giovane, si trasforma nella stessa Artemide, cosa che rivela che soltanto sotto le sembianze della dea il dio sa di potere esaudire il suo desiderio d’amore per la giovane. In seguito Artemide, durante un bagno nei boschi, vede Callisto nuda, che mostra, nel corpo, i segni evidenti di una gravidanza incipiente. La dea punisce la ninfa, per avere disatteso il patto di verginità, tramutandola in un'orsa. In seguito essa troverà la morte colpita dalle frecce di Artemide stessa, ma verrà tramutata da Zeus nella costellazione dell'orsa maggiore1.

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Eumolpo e i doni della seduzione

Eumolpo, ospite di un tale di Pergamo, diviene precettore del suo bellissimo figlio. Escogita dunque un modo per diventarne l’amante. Una sera i due si addormentano nel triclinio. Verso mezzanotte, Eumolpo si accorge che il ragazzo è sveglio. Così, fingendo di esprimere un voto, sussurra: «Signora Venere, se riuscirò a baciare questo ragazzo senza che lui se ne avveda, domani gli regalerò due colombe». Sentito il prezzo del piacere, il ragazzo finge di russare ed Eumolpo lo riempie di baci; l’indomani, gli porta di buon mattino una coppia di splendide colombe e scioglie così il suo voto. La sera seguente, Eumolpo sussurra: «Se potrò toccare questo fanciullo con mano dissoluta senza che lui se ne avveda, gli regalerò una coppia di galli da combattimento». Udito ciò, il ragazzo si avvicina da sé ed Eumolpo indulge su di lui. E l’indomani, come promesso, il ragazzo ottiene i suoi galli. La terza sera, Eumolpo bisbiglia: «Dèi immortali, se da questo fanciullo, mentre dorme, otterrò un rapporto completo, domani gli regalerò un destriero asturiano». L’efebo non dormì mai di un sonno più profondo, ed Eumolpo ne trasse pieno piacere. Ma l’indomani non c’era ombra del cavallo promesso, cosa che contrariò non poco il ragazzo. Così, quando Eumolpo cercò di far pace con lui, quello si ritrasse: «Se non dormi, lo dico a mio padre», minacciò. Ma Eumolpo insistette fino a farlo cedere, e dopo averne tratto godimento, si addormentò. Il ragazzo però, poiché era nell’età dello sviluppo e desideroso di lasciarsi possedere, continuò a strattonare Eumolpo nel sonno, senza lasciarlo dormire, finché quello, esasperato, esclamò: «Dormi, o lo dico a tuo padre!»1.

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Prometeo e l'origine dell'omosessualità

Al tempo in cui forgiava con l’argilla gli esseri umani, il titano Prometeo decide di lavorare separatamente i genitali, per adattarli in un secondo momento ai rispettivi corpi. A sera però, prima di completare il lavoro, il dio viene invitato a cena da Bacco e qui beve tanto da rientrare nel suo laboratorio con passo vacillante. Così, per un errore dovuto all’ebbrezza, Prometeo applica le parti femminili alla stirpe degli uomini e gli organi sessuali maschili alle femmine: così nascono le donne attratte da altre donne e i maschi effeminati1.

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L'asino Lucio comprato dai cinaedi

Il povero Lucio, trasformato in asino, sta per essere venduto. Quando vede il suo compratore, si accorge che si trattava di un uomo devoto alla dea Siria e insieme di un vecchio cinaedus. In effetti, giunto a casa, l’uomo spalanca la porta e urla: «Ragazze! Guardate un po’che bel servetto vi ho portato dal mercato». Ma le ragazze non erano altro che un corteo di cinaedi come lui, che alla vista dell’asino saltano di gioia, fanno urletti e strepitano, tutti eccitati. Lucio viene condotto fuori e legato nei pressi della mangiatoia. Lì vicino c’è un giovane schiavo, piuttosto corpulento. Quando vede l’asino, sospira rincuorato: «Sei venuto, finalmente, a darmi manforte in questo duro lavoro! Che tu possa vivere a lungo, piacere ai padroni e dare così sollievo alla mia povera schiena!». Il giovane, infatti, era il concubino di quei mezzi uomini; e non era il solo. Un giorno, dopo essersi vestiti di colori sgargianti e truccati in volto e sugli occhi, tornano portandosi dietro un robusto contadino, oggetto del loro illecito piacere, che cercano di eccitare in ogni modo. Lucio, non potendo sopportare le abominevoli pratiche cui era costretto ad assistere, tenta di urlare, ma tutto quello che ottiene è un raglio, comunque sufficiente a far accorrere i vicini1.

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Trimalcione e lo schiavo

Trimalcione aveva invitato a cena molti ospiti, tra cui Abinna, che sovrintendeva ai lavori per la costruzione di quella che sarebbe stata la sua tomba monumentale. «Mi raccomando», aveva appena finito di dire, «alla mia destra voglio la statua di mia moglie Fortunata che regge una colomba». Proprio allora, tra i vari servitori, entrò uno schiavetto niente affatto brutto. Trimalcione gli si getta addosso e inizia a baciarlo. In tutta risposta, Fortunata prende a insultare il marito, chiamandolo sporcaccione e svergognato, poiché non è in grado di contenere la sua libidine. Trimalcione, offeso da quel rimbrotto, le rovescia in faccia il contenuto del suo calice, e di nuovo giù a litigare. Lei lo accusa di averle fatto quasi perdere un occhio, lui si difende dicendo di aver baciato un ragazzo assolutamente morigerato, non per la sua bellezza, ma per la sua sobrietà, un giovane degno di tanta attenzione. Del resto, lui stesso, a quattordici anni, era stato il favorito del suo padrone – non è mica vergognoso fare quello che il padrone ordina – e al contempo anche della padrona. E così era diventato il signore di quella casa, tanto che il padrone lo aveva nominato coerede del suo patrimonio. Ma Fortunata, intanto, è scoppiata a piangere e non dà segno di calmarsi. Così Trimalcione, esasperato, sbotta: «Ho cambiato idea, Abinna. Ricordati di non mettere nella mia tomba la statua di questa qui. Non sia mai che anche da morto mi tocchi litigare!»1.

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Encolpio, Ascilto e Gitone

Dopo una lite furibonda con l’amico Ascilto a causa di Gitone, che il primo aveva molestato, Encolpio fa di tutto per liberarsi del rivale, adducendo una serie di plausibili scuse. Ma è il desiderio a mettergli in corpo una gran fretta di separarsi dall’amico, per poter riprendere col suo giovane amante le vecchie abitudini. Così, quando finalmente quel terzo incomodo di Ascilto se ne va, riscossi i primi baci, Encolpio stringe forte Gitone tra le braccia e trae il godimento promesso in modo così pieno da fare invidia. E si intrattiene ancora a giocherellare col suo fratellino, quando d’un tratto si sente un terribile trambusto: qualcuno, scardinato il chiavistello, irrompe con fragore e, colti in flagrante i due, riempie la stanza di risate e di applausi. «Ma bravo, fratello! È questo che fai?», esclama Ascilto, in piedi davanti a loro, che di andarsene aveva fatto solo finta. In un lampo si sfila la cinghia e, prima che Encolpio se ne renda conto, oltre agli insulti, lo riempie di nerbate assai poco amichevoli. «Così impari», esclama, «a non voler condividere nulla col tuo amico Ascilto1.

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Encolpio tra omosessualità ed eterosessualità

Quando Encolpio, che fingeva di essere uno schiavo, sente dall’ancella Criside che la sua padrona spasimava per lui e desiderava incontrarlo, disse: «E sia. Portami da lei». La serva lo conduce nel fitto di un boschetto. Lì appare la padrona: era davvero perfetta, più armoniosa di una statua greca, tanto che Encolpio non avrebbe potuto catturarne a parole la bellezza. Il giovane, per la prima volta, sente di aver dimenticato Doride, il suo primo amore. «Se non ti dispiace una donna che ha sperimentato per la prima volta quest’anno l’amore di un uomo, ti potrò procurare una “sorella”. Tu hai già – mi sono informata – un “fratellino”, ma cosa ti proibisce di adottare anche me? Mi offro con lo stesso grado di parentela. Tu degnati solo di far la conoscenza dei miei baci». «Ma sono io, al contrario», risponde Encolpio, «che ti prego di voler ammettere quest’umile servo nel corteo dei tuoi ammiratori. E riguardo al mio “fratellino”, perché tu non possa pensare ch’io venga a mani vuote al tempio di Amore, ecco, se lo vuoi, è tuo. Te lo regalo». «Ma come», esclama lei, «mi fai dono della persona senza la quale non puoi vivere? Colui dai cui baci dipendi? Che ami nello stesso modo in cui io vorrei che tu amassi me?». E la sua voce, nel dirlo, era così seducente che a Encolpio pare di sentir cantare le Sirene. «Qual è il tuo nome?», le chiede rapito. «Circe», risponde lei. Ed Encolpio pensa che per lei non ci sia nome più adatto1.

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Depravazione di Ostio Quadra

Ostio Quadra aveva fatto della sua perversione uno spettacolo da palcoscenico. Ugualmente bramoso sia di uomini sia di donne, teneva in camera da letto una miriade di specchi deformanti, in grado di riflettere immagini di gran lunga maggiori del reale. Quando si lasciava possedere da un uomo, li disponeva in modo tale da permettergli di non perdersi un solo particolare, e così ne traeva un perverso godimento. Reclutava i suoi partner nei bagni pubblici e si vantava di essere spettatore delle sue turpi sconcezze. Talvolta, in mezzo a più uomini, o diviso tra un uomo e una donna, si compiaceva dello spettacolo di quelle nefandezze1.

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Tentativo di stupro di Gitone

Encolpio è appena tornato alla pensione dove alloggia col suo amico Ascilto quando vede Gitone seduto in un angolo del letto ad asciugarsi le lacrime. «Che succede?», gli chiede preoccupato. Ma il ragazzo non fiatava. Solo dopo che Encolpio lo ha pregato, mescolando le suppliche alla collera, Gitone, suo malgrado, parla: «Questo tuo amico qui presente è tornato di fretta poco prima di te e ha tentato di portarmi via con la forza il pudore. E poiché io mi son messo a gridare, ha impugnato una spada e mi ha detto: “Se credi di essere Lucrezia, hai trovato il tuo Tarquinio!”». «Che hai da dire a tua discolpa?», ruggisce Encolpio. Quello fa spallucce: «Pensa a te, piuttosto, che, per Ercole, pur di essere invitato a cena fuori, ti sei messo a lodare quel poetastro di Agamennone!». Così, da una terribile lite, i due scoppiano in una grassa risata. Ma quando Encolpio si ricorda dell’affronto che Gitone ha subìto, gli è chiaro che con Ascilto non si possa più andare d’accordo1.

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Ascilto rischia la violenza sessuale

Encolpio era stato trascinato per sbaglio in un lupanare e stava per andarsene. Ma ecco che gli pare di vedere l’amico Ascilto tutto trafelato e col fiatone. «Che cosa ci fai qui?», gli chiede. E quello, asciugandosi il sudore: «Ah, sapessi cosa mi è accaduto! Mi ero perso e non sapevo più tornare all’ostello, quando un padre di famiglia si offre assai cordialmente di farmi da guida. Ma, imboccati una serie di vicoli angusti e oscuri, mi porta fin qui e, offertomi del denaro, inizia a chiedermi del sesso. La stanza era già pronta e lui già mi aveva messo le mani addosso, e se non fossi stato più robusto di lui, mi avrebbe castigato per bene»1.

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Un processo per stupro

Marco Claudio Marcello cita in giudizio il tribuno della plebe Gaio Scantinio Capitolino per aver importunato suo figlio, trascinandolo nel disonore dello stupro. Scantinio ribatte che non possono costringerlo a presentarsi, poiché gode dell’immunità che la sua carica gli conferisce, e chiede l’aiuto dei suoi colleghi perché lo appoggino. Ma quelli si rifiutano di intervenire. Quando il giovane è chiamato a testimoniare, tiene gli occhi fissi a terra e non proferisce parola. Col suo verecondo silenzio contribuisce più che con ogni altra cosa alla sua vendetta. Scantinio, infatti, con la sola testimonianza di colui che aveva cercato di adescare, viene condannato1.

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Ifide cresce come maschio, e ottiene la metamorfosi

Ifide, una ragazza di Creta, è destinata a una terribile sorte ancora prima di nascere: il padre infatti, spinto dalla povertà, ha deciso di mettere a morte un’eventuale figlia femmina, che non sarebbe in grado di mantenere. In preda alla disperazione, la madre si rivolge alla dea Iside, che le promette il suo aiuto; alla nascita della piccola, la donna fa dunque credere a tutti di aver partorito un maschio. Con questa falsa identità la piccola Ifide cresce felice, almeno fino a quando non arriva il momento di pensare alle nozze. La scelta del padre, infatti, non potrebbe essere più felice e nello stesso tempo sciagurata: Iante, la ragazza prescelta, è compagna dall’infanzia di Ifide e tra loro da tempo è sbocciato l’amore. Si avvicina dunque il giorno fissato per l’unione; ma mentre Iante ne attende l’arrivo con impazienza, Ifide, che è consapevole dell’inganno, si abbandona alla disperazione; ciò che la tormenta non è tanto la paura della punizione paterna, quanto la certezza che il suo amore non potrà essere appagato; se anche avvenissero le nozze, la ragazza sa bene che le sarebbe impossibile congiungersi con Iante. A risolvere le cose interviene ancora una volta la madre di Ifide, che di nuovo si rivolge a Iside per aiuto; la dea invia allora alle due donne segni che mostrano il suo favore, ed ecco che all’uscita dal tempio si compie il prodigio: il corpo di Ifide comincia gradualmente a mutare aspetto, il passo si fa più deciso, il colorito più scuro, si accentuano i tratti del corpo e del volto, cambia la capigliatura e quella che era una fanciulla si trasforma in ragazzo. All’alba del giorno seguente, dopo aver reso grazie alla dea, Ifide diventata maschio può finalmente celebrare tra la gioia di tutti le sue nozze con Iante1.

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Metamorfosi Ermafrodito

Il bellissimo Ermafrodito, figlio di Afrodite e di Hermes, ha appena oltrepassato la soglia dell’adolescenza e trascorre le sue giornate errando per i boschi alla ricerca di fonti e corsi d’acqua. Un giorno giunge in Caria, alle acque incantevoli della sorgente presso cui abita Salmacide, una ninfa dalla femminilità esasperata, che rifiuta la caccia vivendo nell’ozio, intenta solo a cogliere fiori e a curare il suo aspetto. Non appena lo vede, la ninfa è conquistata dalla bellezza del giovane; perciò gli si avvicina e parlandogli con dolcezza lo invita all’amore. Ma Ermafrodito non vuole saperne e la respinge con forza, minacciando di andarsene; Salmacide allora finge di ritirarsi, ma si nasconde poco lontano e da lì osserva il giovane spogliarsi e tuffarsi nelle acque trasparenti. Lo spettacolo del bellissimo corpo che nuota nudo sotto lo specchio della corrente accende ancora di più il suo desiderio: vedendolo immerso nelle acque della sua fonte, la ninfa non resiste al desiderio, lo raggiunge e stringendosi a lui cerca in tutti modi di sedurlo. La forza del suo abbraccio però non basta a superare la resistenza di Ermafrodito, che accanitamente lotta per liberarsi dalla stretta; Salmacide capisce allora di non poterlo avere, ma prega gli dèi di poter restare per sempre così, avvinghiata a quel corpo da cui non riesce a stare lontana. Subito il suo desiderio è esaudito: le membra della ninfa diventano tutt’uno con quelle di Ermafrodito e il giovane con orrore osserva il suo corpo farsi più morbido e la sua voce sempre più sottile; disperato per essere divenuto un uomo a metà, invoca vendetta e chiede ai genitori divini che la stessa sciagurata sorte possa toccare a tutti i maschi che si immergeranno nelle acque della fonte Salmacide1.

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