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Miti

I figli di Bruto condannati a morte

Dopo la cacciata di Tarquinio fu svelata una congiura ai danni della neonata repubblica. Nella trama erano coinvolti anche i figli di Bruto, Tito e Tiberio; quando essa venne scoperta, a Bruto, in quanto console, toccò il duro compito di giustiziare i figli, condannati a morte come il resto dei congiurati. Denudati, legati a un palo e sferzati, infine decapitati, i due giovani attiravano su di sé gli sguardi di tutti i presenti, che ne commisuravano la sorte, mentre Bruto assistette impassibile alla loro esecuzione1.

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Morte di Virginia

Quanto al mito di Virginia, la ragazza uccisa dal padre per sottrarla alle voglie colpevoli del decemviro Appio Claudio, il quale ha ordito un inganno per impadronirsi della vergine, in uno dei passaggi del racconto la vediamo muoversi nel Foro, ma è significativo che le fonti sentano il bisogno di motivare tale presenza: c’erano lì degli spazi adibiti a scuole. Inoltre, la ragazza è accompagnata dalla nutrice; e un po’più avanti il fidanzato Icilio, quando apostrofa il decemviro, afferma tra l’altro: «La fidanzata di Icilio non rimarrà fuori della casa di suo padre»1. Quando poi, prima del processo2, Virginio porta con sé nel Foro la figlia, questa è accompagnata da un certo numero di matrone e da molti difensori; di lì a poco però quella folla arretra, intimidita dall’atteggiamento violento di Appio Claudio, e la vergine resta in piedi, preda abbandonata all’oltraggio. È a questo punto che il padre, vista svanire ogni speranza di salvezza, chiede di portare un momento con sé la figlia verso il tempio della dea Cloacina e lì la uccide, per garantirne la libertà nell’unico modo in cui era possibile3. In quella situazione non solo le donne che le erano vicine, ma neppure i concittadini potevano assicurarle che la pudicizia di Virginia fosse rispettata, e quindi la ragazza non poteva più aspirare a ricoprire il ruolo che il suo statuto di vergine prescriveva e che aveva il suo preciso posto nella vita della comunità .

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Sospetto di adulterio

Un tale che amava molto sua moglie e stava predisponendo per il figlio la toga virile fu preso in disparte da un liberto, che sperava di subentrare come suo erede più prossimo. Questi, dopo avergli mentito sul conto del figlio e su quello della moglie, aggiunse una calunnia che sarebbe stata motivo di profondo dolore per un uomo innamorato, e cioè che il buon nome della sua casa era contaminato da un adulterio. L’uomo escogitò allora un modo per verificare le parole del liberto: dopo qualche giorno, finse di andare fuori città ma al calar della notte tornò indietro e si introdusse nella camera coniugale. Al buio, toccò una testa d’uomo dai capelli corti e senza attendere oltre trafisse quello che credeva l’amante di sua moglie. Non si trattava, però, di un adultero, ma del suo stesso figlio, che dormiva accanto alla madre. La donna, infatti, gli aveva ordinato di passare la notte con lei per sorvegliare con più attenzione l’età adulta che il ragazzo aveva appena raggiunto. Scoperto il tragico errore, il padre non regge al cordoglio e quella stessa spada che aveva impugnato per l’inganno del servo la rivolge contro sé stesso1.

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Appio Claudio attenta alla verginità di Virginia

Il decemviro Appio Claudio è preso dal desiderio di violare una vergine plebea di straordinaria bellezza, figlia di Lucio Virginio. Appio tenta dapprima di sedurre la ragazza con l’offerta di un compenso, ma, ostacolato dal pudore di lei, sceglie di ricorrere alla violenza. Incarica un suo cliente di dichiarare che la vergine era figlia di una sua schiava e dunque di sua proprietà. Quello obbedisce, ma dal momento che una gran folla accorre per impedire quell’ingiustizia, il cliente cita la ragazza in giudizio presso il tribunale di Appio, il quale acconsente a che l’uomo la conduca a casa sua. Ma Icilio, cui la giovane era promessa, protesta e ottiene che sia mandato a chiamare il padre di lei, impegnato in una campagna di guerra. Intanto Appio stabilisce che Virginia sia data in schiava a chi la rivendica. Virginio chiede allora un momento perché, in disparte con la figlia, possa interrogare la nutrice sulla sua nascita. Conduce quindi la giovane nei pressi delle Botteghe nuove e, afferrato un coltello, le trafigge il petto. I Romani piansero il delitto di Appio, la funesta bellezza della fanciulla e l’ineluttabile decisione paterna1.

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ino_roma

La storia inizia nella città greca di Tebe, dove si trova la giovane donna Ino, sposa del re Adamante. Inoè anche sorella di Semele, dalla cui relazione amorosa con Zeus nasce Dioniso. A causa dell’ira di Giunone, però, Semele è stata fulminata. Dalle ceneri del suo corpo viene estratto il feto di Dioniso, che viene cucito nella coscia di Zeus per completarne la gestazione. Una volta nato (o rinato dalla coscia del padre), Dioniso viene affidato a Ino, che se ne occupa in qualità di zia materna. A questo punto la collera di Giunone per il tradimento di Zeus si rivolge contro di lei e la sua famiglia. Giunone fa in modo che Inovenga a sapere che Adamante, il marito, aveva una concubina. Resa folle dalla gelosia, Inobrucia i semi con cui si sarebbe dovuto ottenere il futuro raccolto. Quest’atto sconsiderato, che può provocare una grave carestia, suscita a sua volta l’ira furiosa di Adamante che uccide uno dei figli avuti con Ino. La giovane madre scappa con l’altro figlio, Melicerta, nel tentativo di salvargli la vita. Fuggono fino al mare in cui si gettano saltando da una rupe. Le divinità marine hanno pietà di loro e, nel mito greco, le divinizzano: lei prende il nome di Leucotea, la dea bianca, in ricordo della bianca schiuma del mare, e il figlio quello di Palemone. Nel mito romano, invece, la loro storia non termina qui. Dopo un viaggio per mare e, in seguito, nel Tevere, i due approdano nel centro di quella che sarà un giorno Roma, vicino al futuro Foro Boario, dove si trovano anche l’Ara Maxima di Ercole e il Tempio di Carmentis. Al loro arrivo, madre e figlio sono attaccati da un gruppo di Menadi, che vogliono impossessarsi del bambino. Inochiede aiuto ed è proprio Ercole che, udite le grida, viene in suo soccorso. Liberati dalle donne infuriate, madre e bambino vengono accompagnati da Carmentis, dea della profezia proveniente anche lei dalla Grecia. Questa provvede a rifocillarli offrendo loro quei biscotti che diventeranno in seguito un’offerta rituale e a tranquillizzarli, rivelando loro di essere al termine delle sofferenze: madre e bambino diventeranno delle divinità del Lazio e saranno conosciuti come Mater Matuta, cioè la divinità dell’aurora e dell’infanzia dei bambini, e Portunus, nome che indica il suo stretto rapporto con le acque navigabili1.

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Clitennestra vendica Ifigenia e uccide Agamennone

A capo della spedizione greca per Troia, il re Agamennone sacrifica la figlia Ifigenia per ingiunzione di Artemide, che ne richiede la vita per assicurare la partenza delle navi greche. Clitennestra giura di vendicare la figlia, si allea con Egisto e attende lunghi anni per portare a termine il suo piano. Quando infine il re torna in patria, Clitennestra lo accoglie con falso giubilo, lo accompagna in casa e lo conduce infine in un’imboscata: nella vasca da bagno Agamennone viene intrappolato in una rete da caccia e assassinato a colpi di ascia1.

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Manlio condanna a morte il figlio

Nel 340 a.C. Tito Manlio, che intanto ha guadagnato il soprannome di Torquato grazie a una collana (torques) strappata in guerra a un campione dei Galli, guida la campagna contro gli ex alleati della Lega latina. Quando un cavaliere nemico sfida a duello il figlio del console, questi sconfigge l’avversario e ne reca al padre le spoglie, convinto di avere ben meritato; ma nell’accettare il duello il giovane Manlio ha dimenticato l’ordine di non combattere fuori dai ranghi che il console aveva impartito a tutto l’esercito: la sua vittoria è stata ottenuta dunque al prezzo di una grave infrazione della disciplina militare. Il console dispone infatti l’immediata esecuzione del figlio, come prevede la prassi in caso di insubordinazione; la locuzione Manliana imperia sarebbe passata poi in proverbio per definire provvedimenti particolarmente severi1.

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Condanna di Spurio CAssio Vecellino

Esemplare a questo riguardo la vicenda di Spurio Cassio Vecellino, fissata dalla tradizione al 485 a.C.: già più volte console, copertosi di gloria in alcune importanti campagne militari, Spurio è accusato di aspirare alla tirannide dopo aver proposto una legge agraria che distribuisce grandi quantità di terre agli alleati latini. Per decisione del padre, il giovane viene allora frustato a morte, i suoi beni sono consacrati alla dea Cerere, la casa è rasa al suolo1. In altre varianti della storia, Spurio viene processato in Senato ma giustiziato in prima persona dal padre, che aveva presentato la denuncia a suo carico2.

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Bruto partecipa alla fondazione della repubblica

Bruto è figlio di una sorella di Tarquinio il Superbo; questi gli uccide il padre e il fratello, ma Bruto riesce a sfuggire alla follia omicida del sovrano fingendosi sciocco ed entra persino in intimità con i figli del re, che lo considerano il proprio zimbello. Più tardi, Bruto vendica lo stupro commesso da Sesto Tarquinio, figlio del Superbo, sulla castissima Lucrezia guidando la rivolta che conduce all’abbattimento della monarchia, per diventare infine membro della prima coppia consolare che guida la neonata repubblica. Quando viene a sapere che una vasta trama, mirante a riportare Tarquinio sul trono di Roma, ha coinvolto anche i suoi figli Tito e Tiberio, Bruto ne dispone l’immediata messa a morte e assiste personalmente all’esecuzione dei due giovani; e mentre tutti i presenti cedono alla commozione, il solo console mantiene un’espressione imperturbabile1.

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Coinvolgimento dei figli di Bruto nella congiura contro la repubblica

Dal suo esilio il Superbo fa giungere a Roma lettere destinate a giovani nobili un tempo a lui vicini e insoddisfatti della nuova situazione politica; in esse si chiede loro di aprire nottetempo le porte della città, per consentire agli esuli di fare ritorno e riconquistare il potere perduto. Tra le famiglie coinvolte nella trama spiccano i nomi dei Vitelli e degli Aquili: ai primi appartiene infatti anche la moglie di Bruto, mentre l’altro console è zio materno sia dei Vitelli sia degli Aquili, che hanno sposato altrettante sorelle di Collatino. La trama coinvolge presto i giovani Tito e Tiberio, figli di Bruto, ma legati per parte di madre a una delle famiglie implicate nella congiura; i due ragazzi hanno del resto un rapporto di amicizia con i figli del Superbo, sopravvissuto alla caduta della monarchia. Quando il piano viene alla luce, Bruto si trova pertanto a giudicare, nella sua qualità di console, i propri stessi figli; cosa che fa con inflessibile durezza, come si addice non solo all’uomo che ha giurato odio eterno verso la monarchia, ma anche al suo ruolo di padre, chiamato a incarnare i modelli di comportamento della propria cultura e a sancirne con severità l’eventuale violazione1.

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Lo zio materno interviene nella vicenda di Virginia

La vicenda è ambientata alla metà del V secolo a.C., quando a Roma le magistrature ordinarie vengono sospese e tutti i poteri sono conferiti a una commissione di dieci uomini incaricata di redigere un codice scritto di leggi, le future XII Tavole. Appio Claudio, la figura più eminente del collegio decemvirale, si invaghisce della bella Virginia, orfana di madre, e per goderne i favori costringe un proprio cliente a rivendicare la ragazza come sua schiava, approfittando del fatto che il padre della ragazza, Virginio, è impegnato con l’esercito in una campagna di guerra. Lo zio materno di Virginia, Numitorio, entra in gioco in tre momenti diversi del racconto: prima quando la ragazza cerca rifugio presso di lui per sottrarsi ai maneggi di Appio; poi quando avverte Virginio del pericolo che incombe sulla figlia; infine, dopo che Virginia è stata trafitta a morte dal padre come unico mezzo per serbarne inviolata la pudicizia, quando insieme con il promesso sposo della ragazza, Icilio, promuove una rivolta popolare mostrando alla folla il cadavere della vergine e sottolineando la particolare odiosità del crimine di cui Appio si era macchiato1.

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