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Epimenide cretese purifica Atene

La città di Atene era vittima di una grave pestilenza. Per purificare la città e guarire dal morbo, fu chiamato da Creta Epimenide. La pestilenza ebbe fine dopo che il purificatore cretese ebbe lasciate libere dall’Areopago, dove le aveva radunate, pecore bianche e nere: ai suoi assistenti disse di sacrificarle al dio del luogo dove si fossero fermate. Secondo un’altra tradizione, Epimenide, individuata la causa della pestilenza nell’eccidio perpetrato qualche decennio prima dalla famiglia degli Alcmeonidi a danno dei seguaci dell’aspirante tiranno Cilone, avrebbe compiuto il sacrificio umano di due giovani, Cratino e Ctesibio, e la sciagura sarebbe passata. Superata la crisi, Epimenide ritornò a Creta senza accettare il denaro che gli offriva la città per la sua prestazione1.

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Integrazione di Esculapio a Roma

Nel 293 a. c. una pestilenza infuriava nel Lazio. Stremati dai lutti i Romani mandarono a consultare l’oracolo di Delfi, che rispose in questo modo: «Ciò che qui cerchi, Romano, avresti dovuto cercarlo in luogo più vicino! E dunque in luogo più vicino cercalo. Per ridurre i tuoi lutti non di Apollo, ma del figlio di Apollo hai bisogno». Il Senato, ottenuto il responso, fece indagare sul luogo in cui viveva il figlio di Apollo, finché inviò i propri messaggeri a Epidauro. In questa città infatti era onorato Esculapio (Asklepios per i Greci, Aesculapius per i Romani), divinità della medicina, il figlio di Apollo e della ninfa Coronide. Giunti a Epidauro gli ambasciatori si presentarono al consiglio e pregarono che fosse loro concesso il dio, affinché con il proprio attivo intervento (praesens) ponesse fine al flagello. La maggioranza era contraria a lasciar partire la divinità, ma durante la notte al Romano apparve Esculapio, in tutto simile alla statua custodita nel tempio. Con la destra tiene un bastone, con la sinistra si liscia la lunga barba: «lascerò il mio simulacro» dice «ma osserva bene il serpente che si attorciglia intorno al mio bastone, così domani potrai riconoscerlo». Ciò detto la visione si dilegua. Il giorno dopo gli anziani di Epidauro, ancora incerti sulla decisione da prendere, si riuniscono nel tempio e chiedono che sia Esculapio stesso a esprimere il proprio volere attraverso un segno divino. Ed ecco che un grande serpente, irto di creste d’oro, si avanza sibilando, suscitando il terrore dei presenti. Ma il sacerdote riconosce la divinità e tutti venerano il numen che ha voluto manifestarsi in questo modo. Il serpente / Esculapio annuisce (adnuit) con le creste e fa vibrare la lingua, confermando in questo modo il proprio “impegno” (rata pignora) a seguire gli ambasciatori: scivolato fuori dal tempio, si imbarca sulla nave romana che lo condurrà fino all’isola Tiberina, là dove sorgerà il suo tempio1. In un’altra versione del racconto è ancora il serpente sacro al dio che, pur senza manifestare proporzioni e attributi visibilmente soprannaturali, sale spontaneamente sulla nave dei Romani2.

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