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Miti

Divinizzazione di Romolo

Romolo passa in rassegna l’esercito nel Campo Marzio, quand’ecco all’improvviso scomparire il sole e venir giù un violento temporale. Fra lampi e tuoni il cielo si squarcia e Romolo sparisce dalla vista: era salito tra gli astri con i cavalli del padre o forse avvolto da una nube. Un fatto così straordinario provoca un turbamento generale; ci fu anche chi sospettò che il re fosse stato ucciso dai senatori. Eppure, l’ammirazione per l’eroe e la paura accreditarono sin da subito la prima versione1. Chi non ebbe dubbi fu Giulio Proculo, fedele amico di Romolo2. Ritornava da Alba Longa quando d’un tratto ebbe una visione sconvolgente, da fargli drizzare i capelli: di fronte a lui stava Romolo, più bello e più grande di un uomo. Gli parlò così: «Di’ai Quiriti che smettano di piangere! Offrano piuttosto incenso alla mia divinità, rendano onore al nuovo Quirino coltivando i costumi degli antenati!». Detto questo, sparì. Proculo riferì al popolo quanto aveva visto e udito e, subito, si costruì un tempio per il nuovo dio, da cui si denominarono un colle e le cerimonie sacre per lui istituite3.

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Integrazione tra Romani e Sabini

Una volta conquistato il Campidoglio, i Sabini devono far fronte al rinnovato impeto delle truppe romane, ansiose di vendetta. Dalla mischia emergono due valorose figure: Mezio Curzio per i Sabini e Osto Ostilio per i Romani. Quest’ultimo però cade sul campo, gettando i compagni nello sconforto; Romolo supplica allora Giove di arrestare la fuga e salvare la città, promettendo in cambio la costruzione di un tempio al dio come “Statore”. I Romani riprendono a combattere e riescono a disarcionare dal cavallo Mezio Curzio; questi precipita quindi in una palude, nell’area che più tardi sarebbe stata occupata dal Foro. A ricordo dell’evento, tale parte del Foro sarà denominata Lacus Curtius. Sostenuto dalle acclamazioni dei Sabini, comunque, Mezio si tira fuori dall’acquitrino e la battaglia riprende nella valle fra Campidoglio e Palatino. Sono le donne sabine che a questo punto imprimono una svolta alle vicende, gettandosi in mezzo alle schiere e supplicando entrambe le parti di porre termine a quella che è divenuta ormai una guerra civile. Gli uomini in lotta, commossi dall’accorato appello, acconsentono alla pace e decidono di fondere le due città. I Sabini si trasferiscono a Roma, dove Tazio diviene re al pari di Romolo. La diarchia così inaugurata prosegue all’insegna della piena concordia, finché un sinistro incidente non spezza la vita del coreggente sabino. Alcuni parenti di Tazio usano violenza contro gli ambasciatori dei Laurentini, e allorché questi domandano giustizia, Tazio non ha la forza di opporsi alle suppliche dei suoi. Perciò, quando il re sabino si reca a Lavinio allo scopo di celebrare un sacrificio, i Laurentini si vendicano uccidendolo12.

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Morte di Virginia

Quanto al mito di Virginia, la ragazza uccisa dal padre per sottrarla alle voglie colpevoli del decemviro Appio Claudio, il quale ha ordito un inganno per impadronirsi della vergine, in uno dei passaggi del racconto la vediamo muoversi nel Foro, ma è significativo che le fonti sentano il bisogno di motivare tale presenza: c’erano lì degli spazi adibiti a scuole. Inoltre, la ragazza è accompagnata dalla nutrice; e un po’più avanti il fidanzato Icilio, quando apostrofa il decemviro, afferma tra l’altro: «La fidanzata di Icilio non rimarrà fuori della casa di suo padre»1. Quando poi, prima del processo2, Virginio porta con sé nel Foro la figlia, questa è accompagnata da un certo numero di matrone e da molti difensori; di lì a poco però quella folla arretra, intimidita dall’atteggiamento violento di Appio Claudio, e la vergine resta in piedi, preda abbandonata all’oltraggio. È a questo punto che il padre, vista svanire ogni speranza di salvezza, chiede di portare un momento con sé la figlia verso il tempio della dea Cloacina e lì la uccide, per garantirne la libertà nell’unico modo in cui era possibile3. In quella situazione non solo le donne che le erano vicine, ma neppure i concittadini potevano assicurarle che la pudicizia di Virginia fosse rispettata, e quindi la ragazza non poteva più aspirare a ricoprire il ruolo che il suo statuto di vergine prescriveva e che aveva il suo preciso posto nella vita della comunità .

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Sconsacrazione e consacrazione dei confini di Roma

Prima della costruzione, Tarquinio ritenne opportuno liberare l’area dai precedenti vincoli religiosi, facendo sconsacrare (exaugurare) gli edifici che vi erano stati votati dal re Tazio durante il conflitto con Romolo, e che in seguito erano stati consacrati solennemente (consecrata inaugurataque). In quella occasione gli dèi vollero manifestare esplicitamente il loro volere. Gli auspici forniti dagli uccelli, infatti, approvarono la sconsacrazione riguardo a tutti gli altri templi, tranne che per il sacello di Terminus, il dio dei confini. In questo modo essi significarono la futura stabilità dei fines di Roma. A questo auspicio di eternità dell’impero ne seguì un altro relativo alla sua grandezza, allorché, scavando le fondamenta del tempio, fu trovato un teschio umano dai lineamenti integri. Questo caput significava che il luogo era destinato a costituire la rocca dell’impero e la “testa” della sua potenza1

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Integrazione di Esculapio a Roma

Nel 293 a. c. una pestilenza infuriava nel Lazio. Stremati dai lutti i Romani mandarono a consultare l’oracolo di Delfi, che rispose in questo modo: «Ciò che qui cerchi, Romano, avresti dovuto cercarlo in luogo più vicino! E dunque in luogo più vicino cercalo. Per ridurre i tuoi lutti non di Apollo, ma del figlio di Apollo hai bisogno». Il Senato, ottenuto il responso, fece indagare sul luogo in cui viveva il figlio di Apollo, finché inviò i propri messaggeri a Epidauro. In questa città infatti era onorato Esculapio (Asklepios per i Greci, Aesculapius per i Romani), divinità della medicina, il figlio di Apollo e della ninfa Coronide. Giunti a Epidauro gli ambasciatori si presentarono al consiglio e pregarono che fosse loro concesso il dio, affinché con il proprio attivo intervento (praesens) ponesse fine al flagello. La maggioranza era contraria a lasciar partire la divinità, ma durante la notte al Romano apparve Esculapio, in tutto simile alla statua custodita nel tempio. Con la destra tiene un bastone, con la sinistra si liscia la lunga barba: «lascerò il mio simulacro» dice «ma osserva bene il serpente che si attorciglia intorno al mio bastone, così domani potrai riconoscerlo». Ciò detto la visione si dilegua. Il giorno dopo gli anziani di Epidauro, ancora incerti sulla decisione da prendere, si riuniscono nel tempio e chiedono che sia Esculapio stesso a esprimere il proprio volere attraverso un segno divino. Ed ecco che un grande serpente, irto di creste d’oro, si avanza sibilando, suscitando il terrore dei presenti. Ma il sacerdote riconosce la divinità e tutti venerano il numen che ha voluto manifestarsi in questo modo. Il serpente / Esculapio annuisce (adnuit) con le creste e fa vibrare la lingua, confermando in questo modo il proprio “impegno” (rata pignora) a seguire gli ambasciatori: scivolato fuori dal tempio, si imbarca sulla nave romana che lo condurrà fino all’isola Tiberina, là dove sorgerà il suo tempio1. In un’altra versione del racconto è ancora il serpente sacro al dio che, pur senza manifestare proporzioni e attributi visibilmente soprannaturali, sale spontaneamente sulla nave dei Romani2.

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cerimonia_assedio

«Che sia dio o sia dea, tu che hai in tutela popolo e città di Cartagine, e tu soprattutto, tu che hai ricevuto la tutela di questa città e di questo popolo, supplico e prego e grazia a voi domando che il popolo e la città di Cartagine abbandoniate, che i loro luoghi templi riti e città lasciate, che da essi vi allontaniate, che a tale popolo e città paura timore oblio incutiate, che disertandoli a Roma da me dai miei veniate, che i nostri luoghi templi riti città più graditi e cari vi siano, che a me e al popolo romano e ai miei soldati guida siate affinché sappiamo e comprendiamo. Se così farete, faccio voto di dedicarvi templi e ludi»1

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filemone_bauci

I protagonisti sono due contadini della Frigia, in Asia Minore, anziani sposi che, al tramonto della vita, fanno l’esperienza di accogliere due divinità che si sono presentate in sembianze umane, come viandanti in cerca di ospitalità. Gli dèi, tanto grati ai due sposi quanto indignati per il comportamento dei vicini della coppia, che li hanno invece rifiutati, mandano sulla terra un diluvio dal quale solo Filemone e Bauci troveranno scampo. Inoltre, essi realizzano il desiderio che i due sposi hanno espresso prima che i loro ospiti si congedassero: riuscire a non sopravvivere l’uno all’altro, allontanarsi dalla vita in perfetta sintonia anche temporale. Divenuti custodi del tempio nel quale viene trasformata la loro povera capanna, Filemone e Bauci saranno mutati in alberi, e si radicheranno per sempre nella terra che hanno reso accogliente e ospitale1

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voce_terremoto

Come il fatto narrato da Cicerone, molto noto ai Romani, che «dopo un terremoto una voce proveniente dal tempio di Iuno sul Campidoglio, ammonì che si sacrificasse in segno di espiazione una scrofa gravida»1.

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fortuna_sortes

«Là dove si trova il tempio della Fortuna, fluì miele da un ulivo, e gli aruspici dissero che quelle sortes avrebbero goduto grande fama, e per loro ordine col legno di quell’ulivo fu fabbricata un’urna e lì furono riposte le sortes, le quali, oggi, vengono estratte, si dice, per ispirazione della dea Fortuna»1.

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sogni_premonitori

Come quello in cui Annibale fu ammonito in sogno da Iuno Lacinia, quando la dea lo minacciò di cavargli un occhio se avesse trafugato una colonna d’oro del suo tempio; o quello in cui ad Annibale apparve Iuppiter, che lo invitava al concilio degli dei per indicargli la strategia da compiere quando portò guerra all’Italia1; o «esempio più illustre che mai, Publio Decio, figlio di Quinto […] quando era tribuno militare […] e il nostro esercito era incalzato dai sanniti, poiché affrontava con eccessiva temerarietà i pericoli del combattimento e lo ammonirono ad essere più prudente, disse che in sogno gli era parso di morire gloriosissimamente nel folto della mischia»2. In seguito, proprio per questo privilegio concesso in sogno dagli dei, egli si sacrificò in battaglia.

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