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Miti

Suicidio di Aiace

Nella guerra di Troia Aiace Telamonio ha dato prova di sommo valore guerriero. Morto Achille, si deve decidere a chi toccherà l’onore di ricevere in consegna le sue armi e, alla fine, la scelta cade su Odisseo. Aiace, sconvolto dal dolore, medita vendetta: uscito di senno per opera di Atena, durante la notte impugna la spada e stermina il bestiame dei Greci, credendo di far strage di Achei. Resosi conto dell’accaduto, il Telamonio comprende che l’onore è irrimediabilmente perduto e che egli sarà ben presto giustiziato; così, nell’isolamento della spiaggia l’eroe conficca la spada nella sabbia, con la punta rivolta verso l’alto, e si getta sopra l’arma. Tecmessa, la concubina di Aiace, ne avvolge il cadavere con un mantello, poiché nessuno potrebbe sostenere la vista di colui che dalle narici e dalla rossa ferita esala nero sangue. Agamennone e Menelao sono decisi a negare la sepoltura di Aiace, colpevole di aver meditato la morte degli Achei; si oppongono Teucro, fratello dell’eroe, e anche Odisseo, pronto a riconoscere i meriti del morto. Prevale il partito della sepoltura. L’Itacese vorrebbe prendere parte al rito funebre: Teucro rifiuta e, aiutato dal piccolo Eurisace, figlio di Aiace, solleva il cadavere dalla spada1. Agamennone vieta però che il corpo di Aiace sia cremato e prescrive di deporlo in una bara2.

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Sacrificio di Ifigenia e Polissena

Nel mito troiano si iscrivono le vicende di Ifigenia e Polissena, il cui sacrificio si colloca rispettivamente in apertura e chiusura della guerra. L’esercito dei Greci è radunato in Aulide. Ma la bonaccia impedisce alla flotta di salpare. L’indovino Calcante rivela che occorre sacrificare ad Artemide la primogenita di Agamennone, il re e capo della spedizione. Ifigenia giunge quindi in Aulide, con la falsa promessa di nozze con Achille, ma il suo matrimonio sarà in realtà con Ade, il dio degli inferi: i proteleia, i riti preliminari alle nozze, altro non sono che la sua messa a morte. Compresa la ineluttabilità del suo destino, Ifigenia si offre spontaneamente al coltello del sacrificatore, ed eroicamente si avvia verso l’altare prefigurando la gloria dalla quale sarà incoronata, per avere dato alla Grecia salvezza e vittoria1. Alla fine della guerra, quando Troia è ormai distrutta dalle fiamme, il vecchio re ucciso e uccisi tutti gli uomini, il fantasma di Achille, il più forte dei Greci, reclama sulla sua tomba il sangue della principessa Polissena, per consentire il ritorno in patria dell’armata greca. La fanciulla lamenta di essere anymphos e anymenaios, privata delle nozze e del canto nuziale, ma in più, come desolata afferma la madre Ecuba, Polissena, con la sua morte, non solo è privata delle nozze, ma anche della sua parthenia. Anch’ella, conosciuta la sua sorte, dichiara di volere morire da libera, senza che nessuno osi toccarla, ma andando volontariamente verso l’altare2.

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Andromaca come sposa ideale

Come Penelope, anche Andromaca è sposa mitica esemplare. Dopo che Ettore muore sotto la lancia di Achille e Troia è ormai in fiamme, Andromaca, come le altre donne troiane, viene condotta schiava, e allora ricorda struggendosi la sua vita serena di sposa felice, quando viveva il suo ruolo nel modo migliore: restava a casa vicino al focolare, senza suscitare pettegolezzi; parlava con discrezione e mostrava sempre al marito un volto sereno, sapendo bene quando prevalere o lasciare invece lasciare vincere lui.1.

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Le Moire e la tessitura

Di Achille la dea Era dice: «più tardi dovrà subire quanto Aisa ha filato per lui alla nascita, quando la madre lo partorì»1. La Ecuba iliadica, quando il cadavere di Ettore rischia di essere scempiato, afferma: «così si compie la sorte che la Moira potente filò per lui alla nascita, quando io stessa l’ho partorito»2. Alla corte dei Feaci il re Alcinoo, prefigurando il ritorno in patria di Odisseo, dice: «là allora subirà quanto Aisa e le terribili Filatrici hanno filato per lui alla nascita, quando la madre lo partorì»3.

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Meleagro e la caccia al cinghiale calidonio

Fenice nella tenda di Achille narra della guerra tra i Cureti e gli Etoli, scoppiata a seguito dell’uccisione del cinghiale calidonio che Artemide, offesa dal re Eneo – perché sola fra gli dèi non aveva avuto parte all’ecatombe offerta dal sovrano – aveva inviato a devastare i campi della regione. Meleagro riuscì ad avere la meglio sull’animale. Artemide però suscitò una nuova disputa tra Etoli e Cureti per le spoglie dell’animale. Nel corso del combattimento Meleagro uccise per errore uno dei fratelli della madre, fu maledetto da quest’ultima e votato alla morte. Temendo la maledizione l’eroe si rinchiuse in casa, abbandonando gli Etoli alla furia dei Cureti, rifiutando di tornare a combattere. Gli Etoli, assediati, inviarono gli anziani a convincere Meleagro a riprendere i combattimenti, ma il giovane resistette ostinatamente anche alle suppliche dei genitori e delle sorelle. Riuscì a convincerlo solo la moglie, ma troppo tardi, perché la città era ormai in fiamme ed è egli non trasse nessuna gloria dalle sue gesta.1.

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Achille a Sciro

Condotto a Sciro dalla madre Teti che non voleva che il figlio partecipasse alla spedizione contro Troia dove sapeva che avrebbe trovato la morte, Achille travestito con abiti femminili viene affidato al re Licomede. Sbarcato Odisseo sull’isola per cercarlo e associarlo alla spedizione, sospettando che il giovane si nascondesse in mezzo alle altre parthenoi, portò davanti alle fanciulle le armi insieme a dei cesti e altri strumenti per la tessitura. Le fanciulle si gettarono subito sui cesti, mentre Achille, attratto dallo scintillio delle armi, rivelò così la sua vera identità e la sua vocazione e partì quindi alla volta di Troia1.

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I cavalli di Achille e l'empatia con gli umani

Come Achille, anche Xanto e Balio avevano ascendenze divine, perché erano figli dell’arpia Podarge e di Zefiro1– cioè di un essere alato e di un vento, entrambe metafore privilegiate per la velocità dei cavalli2– ed erano immortali e veloci come nessun cavallo ordinario. Poseidone li aveva donati a Peleo, che li aveva poi regalati al figlio3. Erano soliti "volare" portando ogni volta il Pelide al campo di scontro sulla piana troiana e riportandolo poi alle navi, terminata la mischia. La velocità non era tuttavia l’unica caratteristica prodigiosa di questi due stalloni. Avevano anche una profondissima capacità di partecipazione alle vicende umane. Erano legatissimi al loro padrone e al suo compagno Patroclo: era proprio Patroclo, infatti, a prendersene spesso cura: tante volte li aveva lavati e ne aveva dolcemente pettinato le criniere, idratandole con l’olio4. Quando quest’ultimo era caduto ucciso sul campo di battaglia – il campo al quali loro stessi lo avevano condotto per l’ultima mischia – erano rimasti impietriti: immobili, le teste abbassate, il muso a toccare terra, dai loro occhi sgorgavano calde lacrime di dolore, le chiome scompigliate e macchiate di polvere, sembravano trasformati in una stele funeraria piantata su una tomba. Non c’era stato verso, per l’auriga Automedonte, di farli muovere né avanti né indietro, di riportarli alle navi o di trascinarli di nuovo nel mucchio: non rispondevano più né ai colpi di sferza, né alle parole, aspre o suadenti che fossero. Se ne stavano là fermi, prostrati, a versare gemiti e lacrime. Il loro dolore aveva commosso persino Zeus: «Ah infelici, perché mai vi regalammo a Peleo sovrano, a un mortale, voi che non conoscete vecchiaia né morte? Forse perché dei miseri uomini condivideste le pene?»5. Solo per suo intervento si scossero da quel torpore – Zeus aveva deciso di infondere loro l’energia e la foga necessarie per attraversare di nuovo la mischia dei combattenti.

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I cavalli di Achille: il dono della parola

Prima della partenza l’eroe rivolge loro parole sferzanti di incitamento: siete di stirpe divina; perciò questa volta, dice, vedete bene di riportare salvo chi vi conduce; non fate come con Patroclo, che avete lasciato morto sul campo. A queste parole Xanto abbassa la testa giù, a far cadere la criniera per terra e comincia a parlare. La dea Era gli aveva infatti concesso la capacità di articolare suoni umani, per fargli dire futuro e verità: «Questa volta ancora senz’altro ti salveremo, Achille gagliardo: vicino però t’è ormai il giorno di morte e non ne saremo noi causa, ma un gran dio e la Moira potente. E nemmeno fu per nostra lentezza o indolenza se i Teucri strapparono le armi dalle spalle di Patroclo, ma il più forte fra i numi, che Latona belle chiome partorì, lo uccise sul fronte e ne diede ad Ettore vanto. Quanto a noi due, potremmo pure galoppare assieme alle folate di Zefiro, che fra i venti si dice che sia il più veloce: per te resta comunque deciso che sarai domato dalla forza di un mortale e di un dio». Su queste ultime sillabe Erinni, dea che non tollera violazioni alla norma, rende di nuovo il cavallo incapace di articolare parole. Achille non accoglie di buon grado l’annuncio e reagisce a sua volta – non è tanto stupito che Xanto abbia parlato, quanto che gli si rivolga in quel tono, che gli ricordi la morte, mentre l’eroe si aspetterebbe che si dimostrasse solidale con lui nell’entusiasmo della vendetta imminente: «Perché, Xanto, mi predici la morte? Non devi farlo. Lo so anch’io che qui mi tocca morire […] ma non voglio mollare prima di aver incalzato abbastanza i Troiani in guerra».

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Fantasma di Patroclo prima del funerale

Dopo aver ucciso Ettore, Achille torna al campo greco ed esorta i compagni a radunarsi intorno al corpo di Patroclo per piangerlo insieme, poiché questo è l’onore (geras) che spetta ai morti. Addormentatosi dopo il banchetto funebre, l’eroe vede in sogno l’amico, che lo esorta a celebrare il prima possibile il suo funerale: finché il suo cadavere non sarà bruciato, infatti, egli sarà respinto dagli altri defunti e costretto ad aggirarsi al di qua del fiume che segna il confine con il mondo dei morti1.

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Il padre di Achille

Discendente degli dèi primigeni del mare e delle acque, Teti è una divinità marina di grande potenza. La sua bellezza accende di desiderio Zeus e Poseidone, ma l’antica dea Themis predice che il figlio generato da Teti sarà più forte del padre e consiglia dunque di lasciare agli uomini questo dono pericoloso, in modo che Teti dia alla luce un figlio destinato anch’egli a morire, per quanto immortale nella gloria. Lo stesso Zeus organizza allora le nozze di Teti con Peleo, rampollo della stirpe divina di Eaco; da questa unione nascerà Achille, il più forte tra tutti gli eroi greci1.

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Disonorato da Agamennone, che gli ha sottratto la schiava Briseide, Achille si allontana dai compagni, se ne va sulla spiaggia e piange, guardando il mare. Tende le braccia e chiama la madre, la accusa di averlo generato a vita breve senza che Zeus gli conceda in cambio l’onore dovuto. Dalle profondità del mare Teti sente il pianto del figlio e accorre subito, gli si avvicina accarezzandolo e gli chiede perché pianga. Achille allora si lascia andare ai singhiozzi e risponde: «Perché raccontare a te che sai tutto?». Replicando alle richieste del figlio, Teti fa in modo di restaurarne l’onore, chiedendo vendetta a Zeus dell’affronto di Agamennone1.

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Ettore e Andromaca

Tornato a Troia per chiedere alle donne di compiere un rito propiziatorio in onore di Atena, Ettore incontra un mondo di donne e di emozioni che gli si fa incontro: prima la madre Ecuba, che lo supplica di restare, poi la cognata Elena, che lo invita a sedere. Ma Ettore rifiuta, vuole andare dalla sua famiglia, la moglie Andromaca e il figlio Astianatte; oscuramente, sente che quella potrebbe essere l’ultima volta che potrà abbracciarli. Trovata la casa vuota, chiede alle ancelle dove sia la sposa: è sull’alta torre di Ilio, rispondono, a osservare, disperata, la battaglia. Ettore si slancia per cercarla e la trova sulla strada verso la torre, dove lei gli viene incontro, gli occhi inondati di pianto. Sfiorandogli la mano, Andromaca cerca di persuadere il suo sposo a restare, a non rendere lei vedova e il figlio orfano. Se lui fosse ucciso sarebbe per lei meglio morire: Achille le ha ucciso il padre e i fratelli, Artemide la madre; Ettore è ormai tutto ciò che le resta. L’eroe comprende le parole di Andromaca, ma al tempo stesso si sente costretto a combattere, spinto dal suo senso dell’onore. Presagendo la fine di Troia, Ettore esprime tutto il suo dolore al pensiero della sposa ridotta in schiavitù1.

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Glauco, Enea e l’orgoglio del sangue

Glauco, eroe licio alleato dei Troiani, interrogato da Diomede sulla sua discendenza, racconta in dettaglio la sua genealogia e conclude: «Questa è la stirpe e il sangue di cui mi vanto di essere». Anche il troiano Enea ricorda ad Achille la propria gloriosa discendenza da Dardano figlio di Zeus, quindi conclude con le stesse parole di Glauco1.

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Il pianto di Achille per Briseide e Patroclo

Piange Achille, lontano dai compagni, solo sulla riva del mare, dopo che ha dovuto restituire ad Agamennone la schiava Briseide, il suo dono d’onore, e piangendo invoca la madre Teti. La dea emerge dagli abissi del mare e a lei l’eroe chiede di ottenere da Zeus almeno la gloria, visto che è destinato a breve vita1. Antiloco, incaricato da Menelao di portare ad Achille la notizia della morte dell’amico Patroclo, piange non appena ricevuto il compito e continua a farlo mentre riferisce il tragico evento. Achille, appresa la notizia, si dispera fortemente, si getta nella polvere, si cosparge il capo di cenere, grida, piange, singhiozza, invoca la morte, mentre Antiloco piangendo gli tiene le mani2. Sempre Achille piange ricordando l’amico Patroclo, ora steso su un fianco, ora supino, ora bocconi; poi si alza e va errando lungo la spiaggia, inconsolabile, e non riesce a trovare riposo, nemmeno grazie al Sonno, che tutto doma3.

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Odisseo e le lacrime della memoria

Odisseo si trova nell’isola di Ogigia, presso la Ninfa Calipso, che ne vorrebbe fare il suo sposo. Odisseo versa calde lacrime ripensando alla sua patria, alla moglie lontana, al figlio. Nonostante l’offerta di Calipso di donargli l’immortalità, ogni mattina l’eroe abbandona il letto della Ninfa e cerca la solitudine per dare sfogo al pianto1. Più tardi, naufragato nell’isola dei Feaci, durante un banchetto a corte Odisseo piange ascoltando l’aedo Demodoco che narra la contesa con Achille e la presa di Troia, e si copre il capo col mantello per nascondere le lacrime2. Menelao si dispera e non è mai pago di lacrime, quando viene rievocata l’uccisione del fratello Agamennone3; quest’ultimo piange persino nell’Ade, quando racconta a Odisseo la trama ordita per la sua uccisione4.

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Niobe, Eos e le lacrime

Niobe, figlia di Tantalo, mette al mondo con il marito Anfione sette figli e sette figlie. Orgogliosa della sua fecondità, commette l’errore di vantare la propria superiorità su Latona, madre dei soli Apollo e Artemide. La dea chiede allora vendetta ai propri figli, i quali sterminano l’intera prole dell’eroina. Niobe, addolorata, fugge a Sipilo e qui viene tramutata in roccia. Da quel giorno non ha mai smesso di piangere, e dalle sue lacrime nasce una sorgente che sgorga dalla roccia1. Anche il mito di Eos, l’Aurora, è all’origine di un simile fenomeno naturale. Dal matrimonio con Titono, fratello di Priamo, essa dà alla luce Memnone, che durante la guerra di Troia uccide Antiloco, figlio di Nestore, giunto a combattere in aiuto del padre. Achille allora affronta Memnone in un’accesa lotta e le madri dei due eroi, Aurora e Teti, in ansia per la sorte dei figli, si recano da Zeus per un consulto. Il re degli dèi, dopo avere pesato la sorte dei due uomini, stabilisce che Memnone dovrà soccombere, ma Eos ottiene per lui il dono dell’immortalità. Le lacrime versate dalla madre per la morte del figlio, però, danno origine alla rugiada che compare quotidianamente sui campi alle prime luci dell’alba2.

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Miti sulla follia

Poiché il re di Tebe Penteo rifiuta il culto di Dioniso, la madre Agave diviene lo strumento di punizione di tale empietà, per mano del dio. In preda al furore bacchico, infatti, salita sul monte per compiere il rito, scambia Penteo per un cucciolo di leone e, con la bava alla bocca, le pupille che roteano e la mente sconvolta, fa a brani il suo corpo1. Anche le Miniadi, figlie del re di Orcomeno Minia, vengono punite per il medesimo atteggiamento di disprezzo nei confronti di Dioniso: poiché rimangono in casa, intente alla filatura, durante una festa in onore del dio, egli le conduce alla follia mistica fino a portarle all’uccisione del piccolo Ippaso, figlio di una di loro2. In un altro mito, Era tormenta con un pungolo Io, di cui Zeus si è invaghito, e la costringe a un folle vagabondaggio3. Ancora inviata da Era per gelosia è la follia di Eracle, nato dall’unione di Zeus e Alcmena: l’eroe è fuori di sé, con le pupille iniettate di sangue e la bava alla bocca; corre ansimando su e giù per le stanze e, credendo di avere davanti a sé i figli di Euristeo, agli ordini del quale ha compiuto le fatiche, uccide a uno a uno i figli, con le frecce del suo arco o fracassando loro il capo con la clava. Sul punto di uccidere il proprio padre, viene però colpito al petto da Atena, che lo induce al sonno. Ritornato alla ragione, al suo risveglio Eracle non trova altra via d’uscita al suo folle gesto che il suicidio, ma viene salvato da Teseo, che lo conduce con sé ad Atene (Euripide, Herc.). Infine, anche quella di Aiace Telamonio è follia omicida, come per Eracle. Venuto a contesa con Odisseo per il possesso delle armi di Achille e dopo la vittoria di quest’ultimo, Atena lo fa impazzire. Aiace compie un massacro di greggi credendo di uccidere i compagni achei, per vendicarsi del torto subito; una volta rientrato in sé, lo prende un dolore ancora più grande, tanto che, per lavare l’onta e allontanare la vergogna del gesto compiuto, si trafigge con la propria spada4.

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Frecce avvelenate, ferite e guarigione

Il Centauro Chirone viene ferito accidentalmente da una freccia avvelenata di Eracle; la ferita gli provoca una terribile piaga, destinata a non terminare mai, a causa dell’immortalità del Centauro. Alla fine, sarà Prometeo a offrirgli la propria mortalità, concedendogli il riposo dai suoi mali1. Telefo, figlio di Eracle, viene ferito in Misia durante uno scontro con Achille. Trascorsi otto anni, gli Achei ancora non riescono a trovare il modo di raggiungere la Troade. Telefo, dal canto suo, ben conosceva il giusto percorso. Informato dall’oracolo di Apollo che la sua guarigione sarebbe avvenuta per mano di colui che lo aveva ferito, egli si offre come guida per la Troade in cambio di cure. Achille, messo al corrente del responso oracolare, acconsente alla guarigione di Telefo applicando sulla ferita la ruggine della sua lancia, ed egli mantiene poi la sua promessa, conducendo i Greci nella Troade2.

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La zoppia eroica di Efesto e Edipo

Efesto, figlio della coppia olimpica, è zoppo e della sua menomazione esistono varie spiegazioni: in una disputa tra Zeus ed Era, Efesto prende le parti della madre e Zeus infuriato lo scaraventa giù dall’Olimpo; oppure è la stessa Era a gettarlo via alla nascita proprio perché per eliminare una deformità malefica; raccolto da Teti ed Eurinome e nascosto in una grotta sottomarina, apprende a lavorare i metalli e a fabbricare splendidi monili. Su incarico di Teti, sua salvatrice, forgia le prodigiose armi di Achille1. Edipo è esposto alla nascita sul Citerone, per sfuggire all’oracolo per cui avrebbe ucciso il padre e commesso incesto con la madre, con le estremità dei piedi trafitte, e di questo antico dolore le sue giunture sono ancore testimoni2.

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Patroclo, guaritore allievo di Achille

Euripilo chiede l’aiuto di Patroclo affinché estragga la freccia conficcata nella sua coscia, lavi il sangue con acqua tiepida e applichi sulla ferita i farmaci in grado di sanarlo. L’intervento dell’eroe si rende necessario poiché Macaone giace ferito egli stesso in una tenda, mentre Podalirio è impegnato in un combattimento. A Patroclo i rimedi sono stati insegnati dall’amico Achille, che a sua volta li ha appresi dal Centauro Chirone1.

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La lancia di Achille, dono di nozze di Chirone

Quando Patroclo ottiene da Achille il permesso di guidare i Mirmidoni in battaglia, prende le sue armi per incutere terrore nei Troiani, ma lascia presso le tende la lancia di Achille perché troppo pesante. Soltanto il figlio di Peleo poteva brandire quell’arma; essa era appartenuta proprio a Peleo, che l’aveva ricevuta in dono da Chirone, il quale l’aveva forgiata a partire da un faggio del monte Pelio1. La lancia era in origine un dono nuziale, offerto dal Centauro a Peleo in occasione del matrimonio con Teti: il banchetto si svolse sul Pelio e vide la partecipazione di uomini e dèi. Il tronco fu tagliato da Chirone, ma la lancia divenne perfetta anche grazie al contributo di Atena ed Efesto. Con essa compirono imprese memorabili sia Peleo sia Achille2.

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Achille e lo Scamandro: il fiume si ribella

Achille, ritornato in battaglia dopo la morte di Patroclo e deciso a vendicarlo a ogni costo, fa strage di nemici presso il fiume Scamandro, il quale, ormai colmo di cadaveri e di sangue, si rivolge all’eroe invitandolo a continuare il massacro lontano da lui, nella pianura, perché le sue correnti non sono più in grado di far defluire le acque al mare1.

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Achille travolto dalle acque del fiume

All’intervento del fiume segue la risposta di Achille: l’eroe afferma che farà quanto richiesto dallo Scamandro, ma soltanto quando sarà riuscito a chiudere i nemici in città e a sfidare a duello Ettore. Dopo un breve rimprovero dello Scamandro ad Apollo, accusato di non difendere i Troiani come era stato richiesto da Zeus, Achille continua la sua strage, entrando nel fiume. Esso si gonfia, esce dal suo letto, riuscendo a spingere i cadaveri fuori dalla corrente e nel contempo a proteggere i Troiani ancora vivi tra i suoi gorghi. Achille si trova in difficoltà e tenta di fuggire per la pianura; grazie alla sua velocità può allontanarsi per un tratto, ma, appena si ferma, il fiume lo incalza. L’eroe si rivolge allora a Zeus, rimproverandogli il mancato aiuto divino e soprattutto la falsa profezia ricevuta dalla madre: non solo non morirà presso le mura di Troia, ucciso dalle frecce di Apollo, ma neppure per mano di Ettore; la sua morte non sarà degna di un eroe, perché verrà travolto da un fiume come può accadere a un bambino a guardia del bestiame, che lo attraversi incautamente durante un temporale.

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Scamandro invoca Simoenta contro Achille

Dopo l’intervento rassicurante di Apollo e Atena, Achille riesce ad allontanarsi dall’immediato pericolo. Ma lo Scamandro non desiste dall’ira e chiede aiuto al fratello Simoenta, invitandolo a riempire il suo corso d’acqua dalle sorgenti e ad alzare un’immensa ondata trascinando e sollevando piante e sassi. Lo Scamandro si propone di causare la morte di Achille: le sue armi rimarranno sepolte nel fango del fondale, l’eroe verrà fatto rotolare nella sabbia e gli sarà versata addosso tanta ghiaia che gli Achei non potranno più ritrovarne le ossa; non sarà loro necessario creare un tumulo di terra per la sua tomba, perché a questo provvederà il fiume stesso.

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