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Primo incontro tra Amore e Psiche

C’erano una volta un re e una regina, che avevano tre figlie di notevole bellezza. La più piccola in particolare, Psiche, era così bella che la gente veniva da ogni parte per contemplarla. La credevano Venere in persona, tanto che iniziarono a tributare a Psiche gli onori dovuti alla dea. Venere allora si volle vendicare: mostrata la vergine al figlio Cupido, gli chiese di far sì che fosse preda di una bruciante passione per il più spregevole degli uomini. Nel frattempo, Psiche è lontana dal dirsi felice: è venerata da tutti, ma nessuno la chiede in sposa. Il padre prega allora Apollo perché conceda un marito alla figlia. Il dio di Delo dà il responso: Psiche va lasciata sulla cima di un monte, dove verrà a prenderla lo sposo predestinato, non uno di stirpe mortale, ma un mostro crudele, feroce e velenoso. Nessuno immagina che il mostro misterioso è in realtà il divino Amore, infatuatosi a prima vista della bellissima fanciulla e intenzionato a prenderla in moglie1.

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Venere aiuta il figlio Enea

È in particolare l’Eneide virgiliana a concedere a Venere uno spazio di primo piano. Sin dall’inizio del poema è la dea, angosciata per la sorte di Enea, a lamentarsi con Giove per la tempesta che trattiene i Troiani lontani dall’Italia; quando essi fanno naufragio sulla costa africana, Venere si mostra al figlio sotto le vesti di una giovane cacciatrice e gli offre le informazioni essenziali per orientarsi in una situazione potenzialmente rischiosa. Di lì a poco ancora Venere avvolge Enea in una nube che gli consente di muoversi in piena sicurezza nella terra straniera, quindi, per proteggere il figlio dalla doppiezza dei Fenici e dall’ostilità di Giunone, cui Cartagine è consacrata, invia Cupido da Didone perché induca la regina a innamorarsi dell’ospite troiano. Nuovamente tormentata dall’angoscia, prega Nettuno di garantire a Enea, salpato dalla Sicilia, una navigazione propizia; e quando l’eroe avvia la ricerca del ramo d’oro che gli consentirà di accedere al regno dei morti, l’apparizione di due colombe, uccelli sacri a Venere, viene interpretata come un segno dell’incessante vigilanza materna. Assente nelle prime fasi dello sbarco in Italia, Venere torna in scena per chiedere al marito Vulcano di approntare nuove armi per Enea, quindi le consegna personalmente al figlio e gli concede quell’abbraccio cui si era sottratta sulla costa di Cartagine. La dea non si tiene lontana neppure dai campi di battaglia, intervenendo ripetutamente a protezione del figlio fino al duello finale con Turno. Virgilio non rinuncia infine a una vertiginosa apertura sul futuro: tra le scene effigiate sullo scudo di Enea, Venere compare nel quadro dedicato alla battaglia di Azio mentre sostiene Augusto nello scontro con le forze umane e divine dell’Oriente. Sollecita verso Enea, Venere non sarà meno attiva al fianco dei suoi discendenti, che si tratti del futuro principe o dei Romani nel loro complesso.

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La ferita di Cupido

Cupido, invaghitosi della bellissima Psiche, la porta nel suo palazzo e ne fa la sua sposa, ma le fa promettere di non cercare mai di scoprire la sua identità. Una notte però Psiche, spinta dal desiderio di conoscere l’aspetto del marito, lo illumina con una lampada. Mentre ne ammira le fattezze, dalla lucerna stilla una goccia di olio bollente che cade sulla spalla destra del giovane. Cupido sobbalza e fugge via stizzito, rifugiandosi nel palazzo di Venere sua madre. Intanto, un gabbiano avverte la dea che Cupido giace in un precario stato di salute, sofferente per il forte dolore. Venere corre allora dal figlio, lo rimprovera per le sue intemperanze e lo rinchiude in una stanza, perché non faccia peggiorare la ferita con la sua sfrenata lussuria. Ma una volta che la ferita si cicatrizza, Cupido, non sopportando più la lontananza dalla sua Psiche, vola via dalla finestra, poiché le sue ali si sono rinvigorite grazie a quel lungo riposo1.

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