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Miti

Morte di Antigone

La figlia di Edipo ha violato la legge che vieta a ogni cittadino, sotto pena di essere lapidato, di prestare gli onori funebri a Polinice, caduto in battaglia dopo aver marciato contro Tebe. Il divieto è imposto dal re tebano, lo zio Creonte. Ma Antigone di nascosto getta simbolicamente sul cadavere del fratello alcune manciate di terra; colta in flagrante, viene catturata ed è trascinata al cospetto di Creonte. Il sovrano ordina che la nipote sia murata viva in una stanza scavata nella roccia, dove morirà o sopravvivrà senza mai più vedere la luce del sole: le mani di Creonte saranno pure nei riguardi della ragazza. Alla fine il re muta consiglio, decidendo di seppellire Polinice e liberare Antigone, ma questa si è ormai impiccata nella cella, appendendosi per il collo a un laccio di lino1. In altre versioni, Antigone riesce a sottrarre il cadavere alle guardie e lo getta sulla pira destinata a Eteocle, l’altro fratello. Creonte, dopo aver scoperto la violazione di Antigone, la dà da uccidere al figlio Emone, sposo promesso della ragazza, ma questi disubbidisce per pietà e l’eroina viene messa in salvo2. Secondo un'altra tradizione Antigone, insieme alla sorella Ismene, viene bruciata viva, nel tempio di Era, da Laodamante figlio di Eteocle3.

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I gemelli: Eracle e Ificle

È sera, e Alcmena ha appena messo a letto i suoi bambini: Eracle, di dieci mesi, ed Ificle, di una notte più giovane. Dopo essere stati allattati e dondolati nello scudo di bronzo che funge da culla, i due si addormentano in un sonno profondo. Ma nel cuore della notte Era suscita contro di loro due terribili serpenti, dai denti aguzzi e dalle lingue velenose. Non appena i mostri si avvicinano alla culla per mordere i bambini Zeus produce una forte luce e i due infanti si svegliano: Ificle è preso da terrore, e con i piedini respinge la coperta di lana nel tentativo di fuggire; Eracle invece afferra prontamente i serpenti stringendoli in una terribile morsa. Nel frattempo Alcmena, sentendo le grida della nutrice, sveglia il marito Anfitrione e tutta la casa accorre nella stanza dei gemelli. Qui con loro grande stupore trovano Eracle che, ridendo, depone ai piedi del padre i due serpenti ormai morti. Alcmena prende in braccio Ificle spaventato, mentre Eracle torna a dormire sotto una pelliccia. L’indomani i genitori consultano l’indovino Tiresia per avere un responso su quanto accaduto.1.

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Era e gli strumenti di seduzione

Era, giunta nel talamo, deterge il suo corpo con ambrosia, si unge con unguento profumato. Quindi si acconcia le belle trecce, indossa una veste lavorata da Atena, la ferma con fibbie d’oro, poi mette una cintura con cento frange, ai lobi orecchini a tre perle, sul capo un candido velo, ai piedi lega bei sandali e così ornata si reca da Afrodite, per chiederle quell’incanto d’amore con cui la dea vince tutti i mortali e gli immortali. Quindi Afrodite si scioglie la cintura ricamata, dove ci sono tutte le forze dell’incanto d’amore e del desiderio, e la dà da indossare ad Era che prontamente se ne cinge il petto e si presenta al cospetto del marito sulla cima dell’Ida. Vedendola così abbigliata, desiderio irresistibile coglie Zeus1.

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Elena e Clitemestra, fuori dalle regole del matrimonio

Figlie entrambe di Zeus e di Leda, spose ai due Atridi, Menelao e Agamennone, sono accomunate da un gamos abnorme, al di fuori delle regole sociali del matrimonio. La prima, Elena, è di tale straordinaria bellezza, che tutti i giovani più illustri di Grecia ambiscono alla sua mano. Il padre terreno Tindaro, forse su consiglio di Odisseo, li induce a stipulare un patto di mutuo soccorso, cioè che se lo sposo prescelto si fosse visto strappare con la forza la sposa, essi sarebbero andati in aiuto con una spedizione in armi e avrebbero distrutto la città del rapitore. È su Menelao che ricade la scelta di Elena, il quale accoglie nella sua reggia a Sparta il giovane principe Paride, allevato come mandriano sul monte Ida, dove era stato arbitro nella gara di bellezza tra le tre dee, Era, Atena ed Afrodite. Quest’ultima gli aveva promesso la donna più bella del mondo in cambio della vittoria. Bellissimo, con addosso splendide vesti d’oro, suscita l’amore di Elena di cui anch’egli si innamora immediatamente e, durante l’assenza di Menelao, se la porta con sé sui suoi stazzi sul monte Ida. Menelao come impazzito dalla gelosia, chiama a testimoni i giuramenti di Tindaro e si allestisce dunque una grande spedizione contro Troia dei contingenti greci con lo scopo di riprendersi Elena e vendicare il ratto e l’adulterio1.

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Le Moire e la tessitura

Di Achille la dea Era dice: «più tardi dovrà subire quanto Aisa ha filato per lui alla nascita, quando la madre lo partorì»1. La Ecuba iliadica, quando il cadavere di Ettore rischia di essere scempiato, afferma: «così si compie la sorte che la Moira potente filò per lui alla nascita, quando io stessa l’ho partorito»2. Alla corte dei Feaci il re Alcinoo, prefigurando il ritorno in patria di Odisseo, dice: «là allora subirà quanto Aisa e le terribili Filatrici hanno filato per lui alla nascita, quando la madre lo partorì»3.

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Tiresia e la sessualità maschile e femminile

Passeggiando sul monte Cillene, Tiresia scorge due serpenti intenti ad accoppiarsi. Li separa, o li uccide, e, in seguito a questo gesto, viene tramutato in femmina. Sette anni dopo, ritrovandosi di fronte alla medesima situazione, Tiresia interviene e riottiene il sesso primigenio. Divenuto celebre per questa vicenda, viene interpellato da Zeus ed Era, per dirimere una contesa nata fra i coniugi. Essi avevano discusso per sapere chi, tra uomo e donna, provasse il piacere maggiore nell'atto sessuale. Tiresia, unico al mondo ad avere fatto tutte e due le esperienze, afferma che, se immaginiamo il godimento amoroso fatto di dieci parti, alla donna ne spettano di certo nove, all'uomo una sola. Era, incollerita con Tiresia, per avere svelato il segreto del genere femminile, lo punisce con la cecità, mentre Zeus, come risarcimento, gli attribuisce il dono della profezia e la possibilità di vivere a lungo, fino a sette generazioni di uomini1.

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Stupro e castigo di Io

Io, sacerdotessa di Era, fu violentata da Zeus (phtheirein) che, scoperto dalla sua sposa, si affrettò a giurare di non averla tradita e toccandola la trasformò in una giovenca di colore bianco. Era chiese dunque a Zeus che le consegnasse la giovenca e le diede come guardia il fortissimo Argo Panopte. Grazie all’aiuto di Hermes che uccise con una pietra Argo, Io cominciò una fuga per terre e per mare e, una volta giunta in Egitto, riacquistò la vecchia forma e diede alla luce, sulle rive del Nilo, Epafo1.

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I cavalli di Achille: il dono della parola

Prima della partenza l’eroe rivolge loro parole sferzanti di incitamento: siete di stirpe divina; perciò questa volta, dice, vedete bene di riportare salvo chi vi conduce; non fate come con Patroclo, che avete lasciato morto sul campo. A queste parole Xanto abbassa la testa giù, a far cadere la criniera per terra e comincia a parlare. La dea Era gli aveva infatti concesso la capacità di articolare suoni umani, per fargli dire futuro e verità: «Questa volta ancora senz’altro ti salveremo, Achille gagliardo: vicino però t’è ormai il giorno di morte e non ne saremo noi causa, ma un gran dio e la Moira potente. E nemmeno fu per nostra lentezza o indolenza se i Teucri strapparono le armi dalle spalle di Patroclo, ma il più forte fra i numi, che Latona belle chiome partorì, lo uccise sul fronte e ne diede ad Ettore vanto. Quanto a noi due, potremmo pure galoppare assieme alle folate di Zefiro, che fra i venti si dice che sia il più veloce: per te resta comunque deciso che sarai domato dalla forza di un mortale e di un dio». Su queste ultime sillabe Erinni, dea che non tollera violazioni alla norma, rende di nuovo il cavallo incapace di articolare parole. Achille non accoglie di buon grado l’annuncio e reagisce a sua volta – non è tanto stupito che Xanto abbia parlato, quanto che gli si rivolga in quel tono, che gli ricordi la morte, mentre l’eroe si aspetterebbe che si dimostrasse solidale con lui nell’entusiasmo della vendetta imminente: «Perché, Xanto, mi predici la morte? Non devi farlo. Lo so anch’io che qui mi tocca morire […] ma non voglio mollare prima di aver incalzato abbastanza i Troiani in guerra».

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L'enigma della Sfinge

«Era mandò la Sfinge, che era nata da Echidna e da Tifone e aveva il volto di donna, il corpo, le zampe e la coda di leone e le ali di uccello. Conosceva un enigma, appreso dalle Muse, e lo proponeva ai Tebani stando seduta sul monte Fichio. L’enigma era questo: "Qual è l’essere che ha una voce sola, che prima ha quattro, poi due e poi tre piedi?". Esisteva un oracolo secondo il quale i Tebani si sarebbero liberati dalla Sfinge quando avessero sciolto l’enigma: essi si riunivano spesso e cercavano di risolverlo, ma poiché non ci riuscivano la Sfinge afferrava uno di loro e lo divorava. Creonte, fratello di Laio che governava Tebe dopo la sua morte, proclamò che avrebbe ceduto il regno e la vedova del fratello, Giocasta, a colui che avesse sciolto l’enigma. Edipo lo venne a sapere e risolse il quesito, dicendo che l’essere a cui alludeva la Sfinge era l’uomo: quando è bambino infatti ha quattro piedi perché si muove sostenendosi su tutti e quattro gli arti, adulto ne ha due, vecchio ne ha tre perché si aiuta col bastone. La Sfinge si gettò dall’alto dell’acropoli. Edipo ebbe il regno e sposò sua madre senza saperlo; da lei ebbe due figli, Polinice ed Eteocle, e due figlie, Ismene e Antigone»1.

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Atena ed Efesto, nascite per partenogenesi

Divenuto sovrano degli dèi, Zeus prende l’Oceanina Metis come prima sposa. Avvertito da Urano e Gaia che Metis avrebbe un giorno dato alla luce un figlio maschio più forte del padre, destinato a succedergli sul trono, Zeus ingoia Metis onde evitare la temuta nascita di un erede. La dea era tuttavia già incinta di una figlia femmina e sarà allora Zeus, il padre, a partorire dalla sua testa la dea generata con Metis, ossia Atena, «che ha forza pari al padre e accorto consiglio», «terribile eccitatrice di tumulti, guida invitta di eserciti, signora, cui piacciono clamori, guerre e battaglie». In rappresaglia per la nascita di Atena dal solo Zeus, Era, l’“ultimissima” sposa del dio sovrano, mette al mondo a sua volta un figlio per partenogenesi: Efesto illustre, eccelso nelle arti1.

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nascita_apollo

Incinta di Apollo, Leto viaggia attraverso la Grecia alla ricerca di un luogo che accetti di ospitare il parto ormai prossimo del figlio che la dea ha generato con Zeus. I diversi siti visitati si rifiutano tuttavia di accoglierla per timore del dio possente che sta per nascere (nelle fonti posteriori, questo rifiuto sarà collegato alla collera di Era, la sposa di Zeus). Solo l’isola di Delo accetta di ospitare lo straordinario evento, abilitandosi così a divenire uno dei centri principali del culto di Apollo. Quando Ilizia, divinità preposta al parto, lasciato l’Olimpo dove era trattenuta da Era, raggiunge infine Delo, il travaglio prolungato di Leto ha termine e Apollo viene di slancio alla luce. Accolto da un corteo di nobili dee che lo purificano e gli danno nutrimento da immortale, il dio appena nato assurge all’istante alla pienezza delle sue forze e dei suoi poteri, e infatti dichiara: «Siano miei privilegi la cetra e l’arco ricurvo; inoltre io rivelerò agli uomini l’immutabile volere di Zeus»1.

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Teogonia esiodea

All’inizio ci sono Chaos, l’abisso originario dell’informe e dell’indefinito, poi Gaia, la Terra, potenza primordiale che costituisce l’assise dell’universo a venire, quindi Eros, che senza avere discendenza propria è tuttavia la potenza indispensabile per mettere in moto la dinamica delle filiazioni divine, avviando così il processo teogonico. Chaos mette al mondo Notte ed Erebo, e dall’unione di questi nascono Etere e Giorno: l’oscurità e la luce, nello spazio e nel tempo, vengono a costituire le coordinate essenziali in cui l’universo può prendere forma. Gaia mette al mondo per partenogenesi i Monti, che articolano la sua superficie, Ponto, il salso Mare che si agita negli abissi terrestri, e Urano, il Cielo che la sovrasta definendone il limite superiore. Unendosi a Ponto, la Terra primordiale genera una serie di potenze legate al mondo acquatico, talvolta benevole talvolta mostruose. Dalla sua unione con Urano sono generate la maggior parte delle entità divine che strutturano l’universo, tra cui: Oceano, il fiume divino che circonda la terra, delimitandola, ed è, con Teti, all’origine delle acque dolci; Iperione, "Colui che si muove in alto" e Theia, "Divina", che unendosi danno vita a Sole, Luna e Aurora, specializzando così nella discendenza le prerogative evocate dai rispettivi teonimi. Gaia e Urano non solo costituiscono la coppia primordiale Cielo-Terra, ma sono anche i capostipiti della dinastia divina regnante. Oltre a generare Ciclopi e Centimani, terribili divinità che rappresentano la potenza delle armi e della forza bruta, essi mettono al mondo i Titani, il più giovane dei quali, Crono, evira Urano su istigazione della stessa Gaia, adirata con il figlio e sposo che respingeva nelle viscere della terra la loro prole. La dinamica cosmogonica e poi teogonica si articola infatti, nel poema di Esiodo, con il mito di successione che vede Crono impadronirsi del potere e diventare sovrano degli dèi, per poi essere detronizzato da suo figlio Zeus. Per conservare il proprio potere, Crono ingoiava i figli generati dall’unione con la sposa e sorella Rea, ma questa, grazie all’aiuto di Urano e Gaia, riesce a salvare il loro ultimo nato, Zeus, destinato a diventare il re degli dèi. I fratelli e le sorelle di Zeus (Ade, Poseidone, Era, Demetra ed Estia) formano la prima generazione degli Olimpi, e una volta liberati dalle viscere di Crono entrano in azione al fianco dell’erede designato. Grazie a una attenta politica di alleanze, e all’aiuto di Ciclopi e Centimani, Zeus riesce a sconfiggere Crono e i Titani, e a rinchiuderli per sempre nella prigione infera, il Tartaro. Gaia genera però proprio con Tartaro un nuovo dio, Tifone, quintessenza di tutte le forze caotiche e distruttive, che Zeus sconfigge in singolar tenzone, dimostrando così di possedere la forza necessaria per salvaguardare il cosmo anche dalla più terribile minaccia. Gli dèi tutti gli conferiscono allora, su consiglio della stessa Gaia, la dignità sovrana, e il re degli dèi procede quindi come promesso a ripartire gli onori tra le varie divinità in funzione delle prerogative di ciascuna. Zeus non solo stabilizza il mondo divino, ma anche ne espande e ne precisa le articolazioni attraverso un’accorta strategia matrimoniale, che è all’origine della seconda generazione degli Olimpi: sotto il regno di Zeus, vengono alla luce gruppi divini quali le Moire, le Cariti, le Muse, ma anche Apollo e Artemide (nati dall’unione con Leto), Persefone (la figlia generata con Demetra e poi concessa in sposa al fratello Ade), Atena (partorita da Zeus dopo che questi si era incorporato la dea Metis: vedi sopra), e altri dèi ancora. Zeus prende Era quale “ultimissima” sposa, e con lei dà alla luce, oltre a Ilizia, Ares, il guerriero divino, ed Ebe, la giovinezza fatta dea. La regina non genera tuttavia un erede al suo re: quello che per una coppia sovrana "normale" rappresenterebbe un punto di debolezza, diventa sull’Olimpo un punto di forza, posto a garanzia dell’eternità del regno di Zeus. La famiglia degli Olimpi continua comunque ad allargarsi con l’introduzione degli ultimi figli di Zeus: Hermes, il dio nato dall’unione con Maia, Dioniso nato immortale dall’unione con una donna mortale, Semele, e infine Eracle, nato mortale, ma destinato eccezionalmente a diventare dio.

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Contesa per gli onori ad Atene

Una disputa ha luogo per l’Attica tra Atena e Poseidone: con un colpo di tridente, il dio fa sgorgare un mare sull’Acropoli, ma è Atena, che vi ha piantato l’olivo, che ottiene l’Attica e il diritto di dare il proprio nome alla città di Atene. Per dirimere la contesa tra gli dèi si fa ricorso a uno o più giudici che le differenti versioni identificano con i primi re del paese (Cecrope, Cranao, Erisittone) oppure con i Dodici dèi1. Anche il territorio di Argo è oggetto di disputa, e i giudici sono questa volta Foroneo, figura di fondatore e figlio del fiume Inaco, affiancato da Cefiso e Asterione, divinità fluviali del luogo: questa terra è assegnata ad Era, e Poseidone che gliela contendeva si adira facendo sparire l’acqua dei fiumi2. Nel caso di Corinto, la disputa tra Helios e Poseidone è risolta da una divinità primordiale quale Briareo, che assegna al dio solare la città e l’Acrocorinto (da Helios poi ceduto ad Afrodite), e al sovrano del mare la regione dell’Istmo3. Poseidone e Atena entrano in conflitto anche per la città di Trezene, ed è Zeus stesso questa volta a dirimere la disputa, stabilendo che i due contendenti la possiedano in comune: Atena vi è quindi onorata con il titolo di Polias (“Protettrice della polis”), Poseidone con quello di Basileus (“Re”), e le monete della città hanno come effigie sia il tridente del dio sia il volto della dea4.

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Melampo guarisce le figlie di Preto

Il vate tessalo Melampo, figlio di Amitaone e di Idomene, fu convocato dal re di Tirinto Preto perché guarisse le sue figlie che erravano impazzite per aver offeso Era o, secondo un’altra tradizione, Dioniso. Melampo le inseguì per tutto il Peloponneso, guarendole dopo un rituale di purificazione1. A Sicione si raccontava che la purificazione-guarigione era avvenuta nell’area dell’agora, dove Preto avrebbe eretto un tempio di Apollo2.

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Purificazione di Giasone e Medea

Quando erano oramai in vista i monti Cerauni, gli Argonauti fuggiti dalla Colchide incontrarono terribili tempeste suscitate da Era. Un miracoloso legno parlante della nave Argo chiarì loro che mai sarebbero sfuggiti alle pene del mare e alle tempeste terribili, se non si fossero recati da Circe, sorella di Eeta, che li avrebbe purificati dall’assassinio del nipote Apsirto, perpetrato dalla sorella Medea poco prima di fuggire con Giasone. Giunti all’isola Eea, gli Argonauti trovarono Circe che si purificava lavando i capelli e le vesti nel mare, dopo aver avuto un terribile sogno in cui spegneva un violento incendio scoppiato in casa sua versando sulle fiamme il sangue che grondava abbondante dalle pareti. Dopo essersi purificata dal sogno notturno, Circe invitò Giasone e Medea nella sua dimora, dove attuò un processo purificatorio: sgozzò un porcellino dopo averlo elevato sul capo dei due supplici seduti sul focolare sotto la tutela di Zeus. Giasone e Medea furono liberi di riprendere il viaggio «purificati», ma Circe rinnovò la condanna per il sangue "famigliare" che era stato versato, predicendo a sua nipote un triste destino1.

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Apollo uccide la dragonessa di Delfi

Quando fondò il tempio di Delfi e creò un culto che si sarebbe distinto per l’enorme affluenza di pellegrini e la ricchezza di offerte sacrificali, Apollo dovette fare i conti con un mostro serpentiforme, la dragonessa (drakaina), alle cui cure Era aveva affidato il mostruoso Tifone. La dragonessa uccideva spietatamente quanti incontrava ed era un potenziale pericolo per le folle di pellegrini che sarebbero confluite nel tempio. Apollo la uccise con una freccia e la lasciò imputridire al suolo. Il luogo in cui la dragonessa morì venne chiamato Pito dal verbo pytho ("imputridisco") e tutti da quel momento chiamarono Apollo "Pizio"1.

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Eracle e le vacche di Gerione

Come decima impresa, Euristeo ordinò al fratello di portargli le vacche che il mostro Gerione, un uomo dai tre corpi, custodiva nell’isola di Erizia (l’attuale Cadice). Gli animali, che avevano un manto rossastro, erano accuditi dal bovaro Eurizione ed erano sorvegliate da Orto, un cane a due teste. Eracle percorse tutta la Libia e, dopo essere passato in Europa, collocò a memoria del suo passaggio due colonne, una di fronte all’altra. Giunto a Cadice, uccise prima Orto, colpendolo con la clava, e poi Eurizione, che era accorso in aiuto del cane. Eracle prese le vacche e le portò presso il fiume Antemone, dove si scontrò con Gerione, che aveva saputo del furto della sua mandria. Ma la morte di Gerione, trafitto da una freccia, non pose fine alla fatica di Eracle: giunto in Liguria, dovette difendere la mandria dal tentativo di furto perpetrato da due figli di Poseidone; a Reggio Calabria, un toro scappò e nuotò fino alla Sicilia, tanto che per riprenderlo Eracle dovette affrontare Erice, un altro figlio di Poseidone; in Tracia alcune vacche, punte da un tafano mandato dalla dea Era, si dispersero e diventarono selvatiche. Quando finalmente Eracle riuscì a consegnare il resto della mandria al fratello Euristeo, questi le offrì in sacrificio a Era1.

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Eracle al seno di Era e la Via Lattea

Ermes, o secondo altri Zeus, attacca al seno di Era addormentata Eracle bambino, per assicurargli l’immortalità, ma quando la dea si sveglia per un morso del piccolo, ovvero quando scopre la sua identità, lo scaccia via adirata e il latte che fuoriesce dal suo seno forma la Via Lattea1.

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Argo dai cento occhi e la sorveglianza di Io

Panopte, “che tutto vede”, è epiteto di Argo, al quale la tradizione attribuisce un numero vario di occhi, che gli consentono di controllare tutto senza posa. Per questa caratteristica viene incaricato da Era di fare da guardiano a Io, fanciulla amata da Zeus e tramutata in giovenca per essere sottratta alla gelosia della dea. Ma Era ottiene che la giovenca sia consacrata a lei, legata a un albero e costantemente sorvegliata da Argo, finché Ermes riesce a uccidere il mostro1.

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Miti sulla follia

Poiché il re di Tebe Penteo rifiuta il culto di Dioniso, la madre Agave diviene lo strumento di punizione di tale empietà, per mano del dio. In preda al furore bacchico, infatti, salita sul monte per compiere il rito, scambia Penteo per un cucciolo di leone e, con la bava alla bocca, le pupille che roteano e la mente sconvolta, fa a brani il suo corpo1. Anche le Miniadi, figlie del re di Orcomeno Minia, vengono punite per il medesimo atteggiamento di disprezzo nei confronti di Dioniso: poiché rimangono in casa, intente alla filatura, durante una festa in onore del dio, egli le conduce alla follia mistica fino a portarle all’uccisione del piccolo Ippaso, figlio di una di loro2. In un altro mito, Era tormenta con un pungolo Io, di cui Zeus si è invaghito, e la costringe a un folle vagabondaggio3. Ancora inviata da Era per gelosia è la follia di Eracle, nato dall’unione di Zeus e Alcmena: l’eroe è fuori di sé, con le pupille iniettate di sangue e la bava alla bocca; corre ansimando su e giù per le stanze e, credendo di avere davanti a sé i figli di Euristeo, agli ordini del quale ha compiuto le fatiche, uccide a uno a uno i figli, con le frecce del suo arco o fracassando loro il capo con la clava. Sul punto di uccidere il proprio padre, viene però colpito al petto da Atena, che lo induce al sonno. Ritornato alla ragione, al suo risveglio Eracle non trova altra via d’uscita al suo folle gesto che il suicidio, ma viene salvato da Teseo, che lo conduce con sé ad Atene (Euripide, Herc.). Infine, anche quella di Aiace Telamonio è follia omicida, come per Eracle. Venuto a contesa con Odisseo per il possesso delle armi di Achille e dopo la vittoria di quest’ultimo, Atena lo fa impazzire. Aiace compie un massacro di greggi credendo di uccidere i compagni achei, per vendicarsi del torto subito; una volta rientrato in sé, lo prende un dolore ancora più grande, tanto che, per lavare l’onta e allontanare la vergogna del gesto compiuto, si trafigge con la propria spada4.

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Lebbra e follia come punizione divina

Teutra, re dei Misi, uccide un enorme cinghiale sacro ad Artemide e viene punito dalla dea con una lebbra bianca, accompagnata da follia. Per il ribrezzo che suscita, Teutra si isola in un monte. I sacrifici offerti alla dea dalla madre Lisippe riescono a restituirgli la salute1. Il corpo delle Pretidi è coperto da chiazze bianche in seguito a una punizione inviata da Era, cui avevano mancato di rispetto. Anche in questo caso la malattia della pelle si accompagna a follia, per cui le giovani errano qua e là come menadi, finché Melampo riesce a guarirle con erbe medicinali2. Oreste, il cui padre Agamennone è stato assassinato dalla madre, viene minacciato da Apollo che una tempesta di sciagure si abbatterà su di lui se non vendicherà il sangue versato: morbi orrendi che si attaccano alle carni con morsi selvaggi, piaghe che divorano la forza vitale, ulcere biancastre3.

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La zoppia eroica di Efesto e Edipo

Efesto, figlio della coppia olimpica, è zoppo e della sua menomazione esistono varie spiegazioni: in una disputa tra Zeus ed Era, Efesto prende le parti della madre e Zeus infuriato lo scaraventa giù dall’Olimpo; oppure è la stessa Era a gettarlo via alla nascita proprio perché per eliminare una deformità malefica; raccolto da Teti ed Eurinome e nascosto in una grotta sottomarina, apprende a lavorare i metalli e a fabbricare splendidi monili. Su incarico di Teti, sua salvatrice, forgia le prodigiose armi di Achille1. Edipo è esposto alla nascita sul Citerone, per sfuggire all’oracolo per cui avrebbe ucciso il padre e commesso incesto con la madre, con le estremità dei piedi trafitte, e di questo antico dolore le sue giunture sono ancore testimoni2.

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Oto ed Efialte: il mare trasformato in terra

Una diversa versione vuole i due giganti impegnati nel tentativo di riempire il mare con le montagne, in modo da trasformarlo in terraferma. Inoltre, Efialte intende avere in moglie Era, e Oto Artemide. Riescono a porre in catene Ares, ma Hermes lo libera. Artemide li uccide presso Nasso: la dea si trasforma in una cerva e i due eroi tentando di colpirla si danno a vicenda la morte con i giavellotti1.

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Inaco, giudice tra gli dèi, e la nascita di Foroneo

Foroneo è il primo uomo ad abitare l’Argolide. Suo padre, Inaco, non era un uomo, ma un fiume della regione, il quale fece da giudice tra Poseidone ed Era nella contesa per il possesso della terra, insieme con altri due fiumi, il Cefiso e l’Asterione. La vittoria fu di Era e Poseidone, adirato, li rese privi di acqua, se non quando si verificano piogge abbondanti1.

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Le Danaidi e il ritorno dell’acqua in Argolide

Da Io, figlia di Inaco, la fanciulla amata da Zeus che, trasformata in giovenca, fu costretta ad allontanarsi dall’Argolide e a errare per il mondo perseguitata da Era, nasce Epafo, da cui discende alla terza generazione Danao. Egli fa ritorno in Grecia per evitare alle figlie il matrimonio non gradito con i figli di Egitto, suo fratello; e sono appunto le Danaidi, insieme con Poseidone, a riportare l’acqua in Argolide1. Dopo che Danao giunge insieme con le sue figlie ad Argo, infatti, le manda a cercare acqua, poiché il paese ne era privo a causa dell’ira di Poseidone. Durante la ricerca Amimone, una delle Danaidi, scaglia una freccia contro un cerbiatto, ma colpisce invece un Satiro addormentato. Quando questi, svegliatosi, tenta di violentarla appare Poseidone, che si unisce alla fanciulla e le rivela il luogo dove si trovano le sorgenti di Lerna2. In altre versioni del mito, Amimone semplicemente si addormenta, stanca per il lungo vagabondare, ed è allora che un Satiro le si avvicina con l’intenzione di violentarla3, oppure Poseidone scaglia a terra il tridente per colpire il Satiro e in quel punto sgorga una triplice sorgente.

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I supplizi eterni nell’Ade

Odisseo, sceso nell’Ade, vide i supplizi di Tizio, Tantalo e Sisifo. L’enorme Tizio, uno dei figli di Gea, era immobilizzato al suolo mentre due avvoltoi gli dilaniavano il fegato, che sempre si rigenerava; così Tizio scontava la pena per aver cercato di fare violenza a Leto, madre di Apollo e Artemide. Tantalo, invece, era punito per aver abusato del privilegio di condividere la tavola degli dèi: immerso nell’acqua, non poteva berne, perché a ogni suo tentativo l’acqua si ritraeva, né poteva gustare i frutti che pendevano dai rami sospesi sopra di lui, perché a ogni sua mossa soffiava un vento che allontanava le fronde; secondo altre versioni, invece, un enorme masso gli stava sospeso sul capo, sempre in procinto di cadere1. Sisifo, infine, era costretto a spingere una grande roccia facendola rotolare verso la cima di un colle: in prossimità della cima, però, una forza incontrollabile faceva sì che la roccia rotolasse di nuovo ai piedi del colle, costringendo Sisifo a ripetere l’azione; in questo modo Sisifo scontava gli oltraggi che aveva perpetrato in vita contro uomini e dèi, giungendo persino a ingannare la Morte2. Un’altra pena eterna era quella di Issione, legato a una ruota (infuocata, secondo alcune fonti) in perenne rotazione, in cielo o nell’Ade: Issione scontava così il tentato oltraggio a Era3. Le figlie di Danao, invece, erano state punite per l’assassinio dei loro cugini, i figli di Egitto, a cui erano dovute andare forzatamente spose: nell’Ade si trovavano a riempire dei vasi forati con acqua che sempre si versava fuori. Una azione perennemente frustrata che forse simboleggiava l’incompiutezza dei matrimoni delle Danaidi, non consumati a causa del violento gesto di ribellione perpetrato dalle novelle spose nella prima notte di nozze4.

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Edipo e la Sfinge: l’enigma dell’uomo

Per punire i Tebani, la dea Era, moglie di Zeus, aveva mandato un essere mostruoso, la Sfinge, che aveva la testa di una donna, le ali di un uccello, il corpo e le zampe di un leone. A tutti i Tebani che cercavano di entrare nella loro città, il mostro sottoponeva un enigma: «Sulla terra c’è un essere che ha due, tre e quattro piedi; la sua voce è una sola. Di tutti gli esseri viventi che camminano sulla terra, volano nel cielo o nuotano nel mare, è il solo che cambia il suo aspetto. Quando, per camminare più velocemente, si muove su un numero maggiore di piedi, la forza delle sue gambe è più scarsa»1. Chi non rispondeva correttamente, veniva divorato dalla Sfinge. A risolvere l’enigma fu un uomo, Edipo, che diede al mostro la risposta giusta: «O Musa dei morti dalle ali malvagie, ascolta la voce che ti svela l’enigma. L’essere di cui parli è l’uomo: quando si muove camminando a quattro zampe, è un bimbo appena uscito dal ventre della madre che non sa ancora parlare; quando si appoggia su un bastone che gli fa da terzo piede, è un vecchio reso curvo dall’età, con la testa che gli pesa sulle spalle» (scolio a Euripide,

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