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Miti

Enea e il mantello di Didone

Dalla loro prima unione nella spelonca, Enea e Didone non si sono più separati e la regina, presa dall’amore, si dimentica del regno e dei suoi doveri. I due amanti passano l’inverno nelle mollezze, rapiti da una vergognosa passione, finché la fama di quell’unione giunge alle orecchie di Iarba, il pretendente respinto, che sdegnato invoca l’intervento degli dèi. Lo sente Giove e ordina a Mercurio di richiamare Enea al suo destino: reggere l’Italia dopo un’aspra guerra, fondare dal nobile sangue di Teucro una nuova stirpe e sottomettere il mondo intero alle sue leggi. Mercurio scende rapido sulla terra e scorge Enea col mantello di porpora che Didone ha tessuto per lui, intento a fabbricare case per la sua regina, e lo investe con una dura invettiva, trasmettendogli l’ordine di salpare che viene direttamente da Giove. Scosso da quell’apparizione, Enea torna in sé e si decide a partire1.

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Le lacrime di Evandro

Evandro era celebre per entrambi i genitori, ma soprattutto per il sangue della divina madre, Carmenta, che dava responsi veritieri. Costei aveva profetizzato al figlio una serie di vicissitudini che puntualmente si verificavano: il giovane, infatti, venne esiliato insieme con lei e dovette lasciare la sua patria, l’Arcadia. Quando seppe del bando, addolorato, scoppiò in lacrime. A lui che piangeva la madre disse: «Ti prego, smetti di piangere. Devi sopportare virilmente la sorte che ti è data. Com’era previsto dai fati, non sei stato scacciato per tua colpa o per un errore commesso, ma per l’insondabile collera di un dio. Dunque, non dolerti come se fossi il primo a sopportare un simile fato. Per chi è fermo d’animo, ogni terra è patria. La tempesta feroce non infuria tutto l’anno, e anche per te, credimi, verrà la primavera». Incoraggiato da quelle parole, Evandro partì e di lì a poco giunse in Italia1.

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Il poeta Arione salvato dal delfino

Arione originario di Metimna (sull’isola di Lesbo) era un famoso citaredo, che girava in tournée per il Mediterraneo. Da Corinto, dove era accolto alla corte del tiranno Periandro, era partito alla volta dell’Italia e della Sicilia per una serie di spettacoli. Vi aveva guadagnato parecchi soldi. Imbarcatosi poi su di una nave corinzia per ritornare in Grecia, fu vittima di un’imboscata da parte dell’equipaggio che, volendosi impossessare dei suoi denari, gli intimò di uccidersi o di gettarsi in mare. Egli disse che si sarebbe tuffato fra i flutti ma chiese di potersi esibire un’ultima volta. Acconsentirono: abbigliatosi come si addiceva a un performer di successo, si mise a suonare e cantare, mentre i marinai lo ascoltavano estasiati. Poi si gettò in mare, tutto agghindato com’era. Credendo che fosse morto, la ciurma fece vela verso Corinto per godersi il frutto della rapina. Ma Arione si era salvato, nonostante fosse appesantito da tutto l’apparato che indossava, perché un delfino lo aveva preso in groppa e portato a nuoto fino a capo Tenaro. I briganti furono puniti mentre, per onorare il delfino e ricordare il prodigioso salvataggio, Arione fece erigere a capo Tenaro una statua in bronzo raffigurante un uomo sulla groppa di un delfino1. Secondo una versione assai più dettagliata dei fatti, il poeta – per la fretta di tornare a Corinto – non aveva risospinto in mare l’animale il quale era quindi morto sulla riva: il tiranno, saputo l’accaduto, aveva allora ordinato di erigergli una tomba e aveva convocato i marinai briganti proprio in quel luogo, facendoli giurare «per i mani del delfino» ([lq:per delphini manes) che Arione era morto. A quel punto, il poeta era uscito dal sepolcro, sbugiardandoli. Mentre i delinquenti furono crucifissi in loco, il delfino ebbe addirittura l’onore di essere trasformato in costellazione dagli dèi2.

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Purificazione di Oreste

Il doppio assassinio, della madre e del suo amante, fu ispirato da Apollo, ma comunque Oreste dovette purificarsi. Anche la sua purificazione ha a che fare con Apollo: sull’ara domestica del dio è il sacrificio di un verro lattante per mondare l’impurità di Oreste1. In altre tradizioni il figlio di Agamennone arrivò in Italia e nell’area di Reggio, nelle acque del fiume Metauro (odierno Petrace), fece un bagno purificatore, appese a un albero l’arma dell’omicidio, una spada, eresse un tempio in onore di Apollo in un bosco dal quale i Reggini raccoglievano un ramo di lauro ogni volta che inviavano una delegazione a Delfi2.

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sogni_premonitori

Come quello in cui Annibale fu ammonito in sogno da Iuno Lacinia, quando la dea lo minacciò di cavargli un occhio se avesse trafugato una colonna d’oro del suo tempio; o quello in cui ad Annibale apparve Iuppiter, che lo invitava al concilio degli dei per indicargli la strategia da compiere quando portò guerra all’Italia1; o «esempio più illustre che mai, Publio Decio, figlio di Quinto […] quando era tribuno militare […] e il nostro esercito era incalzato dai sanniti, poiché affrontava con eccessiva temerarietà i pericoli del combattimento e lo ammonirono ad essere più prudente, disse che in sogno gli era parso di morire gloriosissimamente nel folto della mischia»2. In seguito, proprio per questo privilegio concesso in sogno dagli dei, egli si sacrificò in battaglia.

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Anchise assume il comando del viaggio

Al momento della partenza da Troia Anchise ordina di issare le vele, invita a dirigere prima verso Creta, poi in direzione dell’Italia, invoca gli dèi e ne interpreta segnali e indicazioni. Virgilio ne parla ripetutamente come del «padre Anchise», attribuendogli un ruolo di comando e rispettando in questo modo le convenienze, come osservano i commentatori tardo-antichi dell’Eneide, poiché dal punto di vista dei Romani quella funzione direttiva non può che spettare alla figura paterna.

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Anchise appare in sogno ad Enea e profetizza la storia di Roma

Anchise appare in sogno a Enea, che a Cartagine si è legato alla regina Didone, invitandolo con insistenza a partire1; al momento della seconda sosta in Sicilia, la sua immagine suggerisce a Enea di lasciare nell’isola una parte del suo equipaggio e di condurre in Italia solo i «cuori più forti», preannunciando al figlio l’incontro che i due avranno nel regno dei morti e le guerre che attendono Enea una volta raggiunta la sua meta2. Nei Campi Elisi, a colloquio con il figlio, Anchise mostra a Enea i futuri eroi della storia romana, in quel momento ancora anime in attesa di incarnarsi, in una vertiginosa prospettiva che condensa un millennio di storia3, e insieme illustra al figlio i costumi di Roma, i tratti peculiari che ne definiscono l’identità, fino a rivendicare per i Romani il dominio del mondo4.

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Venere aiuta il figlio Enea

È in particolare l’Eneide virgiliana a concedere a Venere uno spazio di primo piano. Sin dall’inizio del poema è la dea, angosciata per la sorte di Enea, a lamentarsi con Giove per la tempesta che trattiene i Troiani lontani dall’Italia; quando essi fanno naufragio sulla costa africana, Venere si mostra al figlio sotto le vesti di una giovane cacciatrice e gli offre le informazioni essenziali per orientarsi in una situazione potenzialmente rischiosa. Di lì a poco ancora Venere avvolge Enea in una nube che gli consente di muoversi in piena sicurezza nella terra straniera, quindi, per proteggere il figlio dalla doppiezza dei Fenici e dall’ostilità di Giunone, cui Cartagine è consacrata, invia Cupido da Didone perché induca la regina a innamorarsi dell’ospite troiano. Nuovamente tormentata dall’angoscia, prega Nettuno di garantire a Enea, salpato dalla Sicilia, una navigazione propizia; e quando l’eroe avvia la ricerca del ramo d’oro che gli consentirà di accedere al regno dei morti, l’apparizione di due colombe, uccelli sacri a Venere, viene interpretata come un segno dell’incessante vigilanza materna. Assente nelle prime fasi dello sbarco in Italia, Venere torna in scena per chiedere al marito Vulcano di approntare nuove armi per Enea, quindi le consegna personalmente al figlio e gli concede quell’abbraccio cui si era sottratta sulla costa di Cartagine. La dea non si tiene lontana neppure dai campi di battaglia, intervenendo ripetutamente a protezione del figlio fino al duello finale con Turno. Virgilio non rinuncia infine a una vertiginosa apertura sul futuro: tra le scene effigiate sullo scudo di Enea, Venere compare nel quadro dedicato alla battaglia di Azio mentre sostiene Augusto nello scontro con le forze umane e divine dell’Oriente. Sollecita verso Enea, Venere non sarà meno attiva al fianco dei suoi discendenti, che si tratti del futuro principe o dei Romani nel loro complesso.

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Venere e l'amore tra Enea e Didone

L’azione di Venere nell’Eneide si conforma a questo modello; tanto più fa spicco l’unica eccezione significativa, la scelta di innescare in Didone una divorante passione per l’ospite troiano, allo scopo di garantire la sicurezza di Enea durante il suo soggiorno in terra libica. L’iniziativa viene presentata espressamente come un’autonoma decisione della dea ed è proprio in seguito ad essa che Enea rischierà di smarrire la propria identità eroica e dimenticare le gloriose prospettive che lo attendono in Italia. Si tratta di un momento nel quale Venere occupa un vuoto – Anchise è morto prima del naufragio troiano sulle coste dell’Africa –, destinato tuttavia a essere colmato dall’intervento diretto di Giove: il re degli dèi richiama bruscamente l’eroe troiano al compito che gli è stato affidato, ponendo così rimedio a una sollecitudine materna che ha rischiato di dirottare il corso degli eventi verso una deriva certo rassicurante, ma insieme sterile e povera di futuro.

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Enea lascia Creta per l’Italia

I Troiani, credendo di seguire il responso di Apollo, approdano a Creta, dove Enea inizia a fondare la nuova Ilio. Ma all’improvviso, in seguito a una corruzione dell'aria, giunge una pestilenza logorante per le membra e una mortifera annata per gli alberi e le piantagioni. I campi diventano sterili, l’erba inaridisce e la messe infetta nega il nutrimento. I Troiani si ammalano e muoiono. Per fortuna una notte appaiono in sogno a Enea i Penati, che gli spiegano come la terra nella quale si è insediato non sia quella a lui assegnata dal fato e occorra dunque allontanarsene in direzione dell’Italia1.

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Giano bifronte e l’età dell’oro

Giano era stato il primo re del Lazio, un re talmente saggio e previdente che riusciva a vedere sia il passato che il futuro: da questa sua capacità deriverebbe il mito della sua bifrontalità. Secondo alcuni, egli era stato il primo in Italia a innalzare templi agli dèi e che per questa sua devozione aveva a sua volta ricevuto onori divini e il privilegio di essere invocato per primo nei sacrifici. Del resto, fu Giano ad accogliere Saturno quando questi venne spodestato da Zeus o addirittura a dividere il regno con lui. Saturno, dal canto suo, ricambiò l’ospitalità ricevuta rivelando a Giano i segreti dell’agricoltura di cui egli era custode e che permisero agli uomini di migliorare la qualità della loro alimentazione e il loro stile di vita. Quando poi Saturno scomparve, Giano onorò l’amico chiamando Saturnia l’intera regione sulla quale egli regnava e per lui istituì i Saturnali, una delle feste più amate dai Romani1.

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