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Vulca e la quadriga di Giove

A Vulca, sommo coroplasta di Veio, a cui Tarquinio il Superbo aveva commissionato una statua di Ercole e, soprattutto, la quadriga fittile che avrebbe decorato il fastigio del grandioso tempio di Giove sul Campidoglio. Vulca e i suoi aiutanti – raccontano i testi antichi – sarebbero riusciti a terminare l’opera solo dopo la cacciata dell’ultimo re, quando Roma era ormai governata da un’aristocrazia composta da acerrimi nemici dei Tarquini – mentre Veio continuava a mantenere buoni rapporti con il Superbo. È in questo contesto che si colloca un evento prodigioso collegato proprio alla produzione di Vulca. Plutarco1racconta infatti che, all’atto di cuocere la quadriga fittile destinata al tempio di Giove a Roma, gli artigiani etruschi osservarono che la statua, invece di restringersi a causa della normale evaporazione dell’acqua presente nell’impasto di argilla, si dilatò e crebbe così tanto da spaccare la fornace in cui si trovava. Gli indovini etruschi videro in tale segno portentoso un presagio di prosperità e potenza per chi avesse posseduto quella quadriga. Per questa ragione gli artigiani veienti guidati da Vulca decisero di non consegnare l’opera a Roma, con la scusa che essa apparteneva ai Tarquini, visto che era stata pagata da loro. Poco tempo dopo, però, in occasione di gare ippiche che si tenevano a Veio avvenne un secondo fatto prodigioso. I cavalli della quadriga vincitrice apparentemente impazzirono e corsero a gran velocità fino a Roma, trascinando con sé l’auriga, incapace di trattenerli, fino a che non lo sbalzarono via una volta giunti al Campidoglio, ai piedi del tempio di Giove che attendeva la sua quadriga in terracotta. Solo a seguito di tale portento gli artigiani veienti, stupefatti e spaventati dall’accaduto, consegnarono la quadriga fittile ai Romani.

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La prua di nave e la prosperità di Roma

Plutarco dapprima riporta l’opinione dei più sul significato della prua di nave sulle monete, che rimanderebbe al mito di Saturno, giunto nel Latium per l’appunto in nave al fine di nascondersi (latere, in latino) dopo la sua cacciata dal Tartaro. Plutarco liquida velocemente tale opinione proponendo invece una spiegazione politico-economica delle due immagini presenti sulla moneta in questione. Se l’effigie di Giano rimanderebbe al fatto che a tale dio/re sarebbe da ascrivere un miglioramento delle condizioni sociali e politiche delle comunità del Lazio primitivo, quella della nave starebbe a indicare che, grazie alla navigazione sul Tevere, sarebbero giunti a Roma beni e derrate di ogni genere, portando ricchezze, scambi con altri popoli e prosperità.

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Giano, la memoria e la moneta

Ovidio, nel primo libro dei Fasti1, sta descrivendo un dialogo tra lui e Giano, dio del primo mese dell’anno, apparsogli in visione. Tra le domande che il poeta pone al dio, una riguarda proprio il significato delle antiche monete da un asse dove anche Giano è ritratto. La risposta che Giano dà a Ovidio in merito alla presenza della sua effigie rimanda – piuttosto sorprendentemente per noi – alla capacità che ha la moneta, tramite i segni che riporta, di richiamare alla memoria dell’utente la cosa che su di essa è rappresentata. Giano sottolinea infatti che la presenza della sua immagine su monete, per il fatto solo di essere su oggetti che passavano per le mani di tutti i Romani, faceva sì che il suo nome avrebbe continuato a essere riconosciuto e ricordato in quella società. Il dio bifronte, poi, si sofferma a lungo sull’immagine della prua di nave che – come ritenevano «i più» menzionati da Plutarco – rimanderebbe proprio all’arrivo di Saturno sulla sua nave, e al suo approdo sul Tevere dopo essere stato scacciato da Giove. I saggi discendenti (bona posteritas) dei più antichi abitanti del sito di Roma avrebbero apposto sulle monete da un asse la prua di nave anche in questo caso per testimoniare (testificata), ricordare, l’arrivo del divino ospite di Giano.

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