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Miti

La vecchia mezzana

A un mugnaio era toccata in sorte la peggiore delle mogli, che tradiva il marito e attirava a sé con l’inganno tutti gli uomini. Ogni giorno era con lei una vecchia che faceva la ruffiana delle sue tresche e portava i messaggi agli amanti. Un giorno la vecchia, insoddisfatta del nuovo amante che la donna aveva per le mani, la ammonì: «Te lo avevo detto io che questo amante è pigro e pauroso! Basta che il tuo noioso marito aggrotti le sopracciglia, che lui si mette a tremare. Quanto è meglio Filesitero! Lui sì che è giovane, bello, infaticabile e capace di eludere le inutili precauzioni dei mariti». A questo punto la vecchia si mette a raccontare di come una volta Filesitero era riuscito con una brillante trovata a spegnere del tutto i sospetti di un marito che si credeva astuto e che invece finì per essere tradito e ingannato. Al sentire il racconto la moglie del mugnaio provò invidia per quella donna fortunata che aveva potuto godere di un amante così sicuro del fatto suo e si commiserava: «Io, poveretta, ne ho beccato uno che ha paura persino del rumore della macina!». Ma la vecchia ruffiana la rassicurò: «Tranquilla! Te lo convincerò io questo ragazzo così spigliato e te lo farò venire qui più veloce che per un mandato di comparizione!». E infatti così avvenne1.

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Elena e Clitemestra, fuori dalle regole del matrimonio

Figlie entrambe di Zeus e di Leda, spose ai due Atridi, Menelao e Agamennone, sono accomunate da un gamos abnorme, al di fuori delle regole sociali del matrimonio. La prima, Elena, è di tale straordinaria bellezza, che tutti i giovani più illustri di Grecia ambiscono alla sua mano. Il padre terreno Tindaro, forse su consiglio di Odisseo, li induce a stipulare un patto di mutuo soccorso, cioè che se lo sposo prescelto si fosse visto strappare con la forza la sposa, essi sarebbero andati in aiuto con una spedizione in armi e avrebbero distrutto la città del rapitore. È su Menelao che ricade la scelta di Elena, il quale accoglie nella sua reggia a Sparta il giovane principe Paride, allevato come mandriano sul monte Ida, dove era stato arbitro nella gara di bellezza tra le tre dee, Era, Atena ed Afrodite. Quest’ultima gli aveva promesso la donna più bella del mondo in cambio della vittoria. Bellissimo, con addosso splendide vesti d’oro, suscita l’amore di Elena di cui anch’egli si innamora immediatamente e, durante l’assenza di Menelao, se la porta con sé sui suoi stazzi sul monte Ida. Menelao come impazzito dalla gelosia, chiama a testimoni i giuramenti di Tindaro e si allestisce dunque una grande spedizione contro Troia dei contingenti greci con lo scopo di riprendersi Elena e vendicare il ratto e l’adulterio1.

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Vendetta di Clitemestra su Agamennone

Clitennestra, sorella di Elena, sposa l’Atride Agamennone, duce della spedizione di Troia. Il primo marito e il figlio avuto da lui erano stati uccisi proprio da Agamennone, che ad Aulide aveva sacrificato la propria figlia Ifigenia per consentire la navigazione per Troia1. Negli anni di lontananza del marito, dopo avere dapprima fatto resistenza, si lascia sedurre da Egisto, figlio di Tieste fratello di Atreo. Una vicenda torbida segna la vita di Egisto, nato dal legame incestuoso di Tieste con la figlia Pelopia, perché si vendicasse di Atreo che aveva imbandito al fratello Tieste le carni dei suoi figli. A quest’uomo Clitennestra cede, consentendogli per di più di insediarsi nel palazzo di Micene e regnare con lei, finché, tornato Agamennone dalla guerra, gli tende una trappola di morte e lo uccide. Ma implacabile arriva la vendetta del figlio Oreste, che per ordine di Apollo uccide la madre. (Eschilo, Agam.; Cho.) .

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Vesti maschili e vesti femminili

L’avvocato Cretico era solito andare in tribunale con una sottile veste da donna, che lasciava assai poco all’immaginazione; qui, sotto gli occhi allibiti dei presenti, recitava le sue arringhe scagliandosi duramente contro ogni tipo di adultera. Eppure, la sua colpa è persino peggiore di quella delle donne che egli fa condannare, nessuna delle quali avrebbe mai indossato una toga da uomo; per lui sarebbe stato più decoroso presentarsi in tribunale nudo1.

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Lo stupro di Lucrezia e lo spazio della casa

Durante l’assedio di Ardea, città dei Rutuli, gli ufficiali più in vista dell’esercito, tra cui Sesto Tarquinio, figlio del re, e il suo congiunto Tarquinio Collatino, prendono a discutere su chi di essi abbia la moglie più casta. La discussione si anima e Collatino invita i commilitoni a verificare in prima persona la superiorità della sua Lucrezia su tutte le altre. In effetti, mentre le nuore del re vengono sorprese nel pieno di un festino e in compagnia di coetanee, Lucrezia è seduta in piena notte al centro dell’atrio, impegnata a filare la lana insieme alle serve. Collatino si aggiudica così la gara delle mogli. È in quel momento che Sesto Tarquinio, eccitato dalla bellezza e dalla provata castità di Lucrezia, viene preso dalla smania di averla a tutti i costi. Così, qualche giorno dopo Sesto torna nella casa di Collatino; di notte, quando capisce che tutti sono sprofondati nel sonno, sguaina la spada e si reca nella stanza di Lucrezia, immobilizzandola con la mano puntata sul petto. Vedendo però che la donna è irremovibile e non cede nemmeno di fronte alla minaccia della morte, aggiunge all’intimidazione il disonore e si dice pronto a sgozzare un servo e a porlo, nudo, accanto a lei dopo averla uccisa, perché si dica che è morta nel corso di un infamante adulterio. Con questa minaccia, la libidine di Tarquinio ha la meglio sull’ostinata castità di Lucrezia. L’indomani, la matrona manda a chiamare il padre e il marito, pregandoli di venire accompagnati da un amico fidato. Arrivano così Spurio Lucrezio con Publio Valerio, Collatino con Lucio Giunio Bruto. Alla vista dei congiunti, Lucrezia racconta la propria vicenda, quindi induce i presenti a giurare che Tarquinio non resterà impunito. Tutti formulano il loro giuramento, poi cercano di consolare la donna; ma Lucrezia, afferrato il coltello che tiene nascosto sotto la veste, se lo pianta nel cuore e crolla a terra esanime1.

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Sospetto di adulterio

Un tale che amava molto sua moglie e stava predisponendo per il figlio la toga virile fu preso in disparte da un liberto, che sperava di subentrare come suo erede più prossimo. Questi, dopo avergli mentito sul conto del figlio e su quello della moglie, aggiunse una calunnia che sarebbe stata motivo di profondo dolore per un uomo innamorato, e cioè che il buon nome della sua casa era contaminato da un adulterio. L’uomo escogitò allora un modo per verificare le parole del liberto: dopo qualche giorno, finse di andare fuori città ma al calar della notte tornò indietro e si introdusse nella camera coniugale. Al buio, toccò una testa d’uomo dai capelli corti e senza attendere oltre trafisse quello che credeva l’amante di sua moglie. Non si trattava, però, di un adultero, ma del suo stesso figlio, che dormiva accanto alla madre. La donna, infatti, gli aveva ordinato di passare la notte con lei per sorvegliare con più attenzione l’età adulta che il ragazzo aveva appena raggiunto. Scoperto il tragico errore, il padre non regge al cordoglio e quella stessa spada che aveva impugnato per l’inganno del servo la rivolge contro sé stesso1.

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Filesitero, un seduttore esemplare

Oltre a essere bello, Filesitero era un giovane munifico, ardimentoso e ostinato, specie quando si trattava di sedurre. Alla sua attenzione non sfuggì la nobile avvenenza di Arete, una donna di straordinaria bellezza, ma sposata a Barbaro, un tale dai modi aggressivi che in città chiamavano “lo Scorpione” e che la teneva sotto strettissima sorveglianza, benché quella passasse il tempo per lo più in casa, intenta a filare la lana. Eccitato proprio dalla sua castità e infiammato dall’eccezionalità di quella ben nota sorveglianza, Filesitero era pronto a fare qualsiasi cosa pur di averla. Un giorno, Barbaro dovette partire e lasciò Arete sotto la custodia di un fedelissimo servo, Mirmece. Filesitero, convinto della fragilità della fedeltà umana quanto del potere dell’oro, non esitò ad avvicinare lo schiavo e a rivelargli la sua passione. Supplicandolo, lo prega di alleviare il suo tormento e si dichiara deciso a darsi la morte, qualora non ottenga ciò che desidera. Infine, mostra a Mirmece delle monete d’oro, venti per Arete, se accetterà la sua corte, e dieci per lui, in cambio del suo aiuto. Mirmece finisce per cedere, e con lui anche la donna. Ma Barbaro torna a casa prima del previsto e Filesitero, per la fretta di scappare, dimentica le scarpe. Al mattino, lo Scorpione trova sotto il letto dei sandali da uomo a lui ignoti. Ordina allora che Mirmece sia portato in ceppi nel Foro per non aver fatto il suo dovere. Quando vede il servo in catene, Filesitero intuisce tutto e si scaglia contro di lui: «Ti sta bene, furfante maledetto, che ieri, ai bagni, mi hai rubato i sandali!». Sollevato da queste parole e opportunamente ingannato, Barbaro libera Mirmece e gli raccomanda di restituire i sandali1.

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Tentativi di seduzione di Cefalo

Un mattino, l’Aurora vide Cefalo intento a prepararsi alla caccia e lo rapì, benché lui non volesse. Ma per quanto fosse meravigliosa, col suo viso roseo, Cefalo era perdutamente innamorato di sua moglie Procri. Nel suo cuore c’era solo lei, e di lei parlava continuamente. Tanto che la dea, un giorno, si stufò e indispettita lo rimandò da lei. Tornando a casa, Cefalo si chiese se la sua sposa si fosse mantenuta fedele durante la sua assenza. Aurora lo udì e lo mutò d’aspetto, perché potesse verificare. Giunto a casa, Cefalo rimase senza parole: nessuna mai avrebbe potuto essere più bella, anche se triste. Le mancava il suo Cefalo. Lui allora provò a sedurla, ma la castità di lei respinse tutti i tentativi, finché Cefalo non le promise, in cambio di una notte, un intero patrimonio e una miriade di doni, al punto che Procri iniziò a esitare. «Ah!», sbottò Cefalo, «Ero io il finto adultero! Ti ho colto in flagrante, traditrice!». E Procri, vinta dalla vergogna, fuggì. Suo marito si pentì subito: «Perdonami! Confesso che anch’io, se mi fossero stati offerti doni così grandi, avrei ceduto alla colpa». Così, dopo qualche tempo, Procri lo perdonò e tornò a casa e i due trascorsero, d’amore e d’accordo, molti anni meravigliosi1.

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La storia inizia nella città greca di Tebe, dove si trova la giovane donna Ino, sposa del re Adamante. Inoè anche sorella di Semele, dalla cui relazione amorosa con Zeus nasce Dioniso. A causa dell’ira di Giunone, però, Semele è stata fulminata. Dalle ceneri del suo corpo viene estratto il feto di Dioniso, che viene cucito nella coscia di Zeus per completarne la gestazione. Una volta nato (o rinato dalla coscia del padre), Dioniso viene affidato a Ino, che se ne occupa in qualità di zia materna. A questo punto la collera di Giunone per il tradimento di Zeus si rivolge contro di lei e la sua famiglia. Giunone fa in modo che Inovenga a sapere che Adamante, il marito, aveva una concubina. Resa folle dalla gelosia, Inobrucia i semi con cui si sarebbe dovuto ottenere il futuro raccolto. Quest’atto sconsiderato, che può provocare una grave carestia, suscita a sua volta l’ira furiosa di Adamante che uccide uno dei figli avuti con Ino. La giovane madre scappa con l’altro figlio, Melicerta, nel tentativo di salvargli la vita. Fuggono fino al mare in cui si gettano saltando da una rupe. Le divinità marine hanno pietà di loro e, nel mito greco, le divinizzano: lei prende il nome di Leucotea, la dea bianca, in ricordo della bianca schiuma del mare, e il figlio quello di Palemone. Nel mito romano, invece, la loro storia non termina qui. Dopo un viaggio per mare e, in seguito, nel Tevere, i due approdano nel centro di quella che sarà un giorno Roma, vicino al futuro Foro Boario, dove si trovano anche l’Ara Maxima di Ercole e il Tempio di Carmentis. Al loro arrivo, madre e figlio sono attaccati da un gruppo di Menadi, che vogliono impossessarsi del bambino. Inochiede aiuto ed è proprio Ercole che, udite le grida, viene in suo soccorso. Liberati dalle donne infuriate, madre e bambino vengono accompagnati da Carmentis, dea della profezia proveniente anche lei dalla Grecia. Questa provvede a rifocillarli offrendo loro quei biscotti che diventeranno in seguito un’offerta rituale e a tranquillizzarli, rivelando loro di essere al termine delle sofferenze: madre e bambino diventeranno delle divinità del Lazio e saranno conosciuti come Mater Matuta, cioè la divinità dell’aurora e dell’infanzia dei bambini, e Portunus, nome che indica il suo stretto rapporto con le acque navigabili1.

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Clitennestra vendica Ifigenia e uccide Agamennone

A capo della spedizione greca per Troia, il re Agamennone sacrifica la figlia Ifigenia per ingiunzione di Artemide, che ne richiede la vita per assicurare la partenza delle navi greche. Clitennestra giura di vendicare la figlia, si allea con Egisto e attende lunghi anni per portare a termine il suo piano. Quando infine il re torna in patria, Clitennestra lo accoglie con falso giubilo, lo accompagna in casa e lo conduce infine in un’imboscata: nella vasca da bagno Agamennone viene intrappolato in una rete da caccia e assassinato a colpi di ascia1.

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Atreo e Tieste

Secondo un oracolo, a Micene doveva essere re un figlio di Pelope, quello che fosse in possesso del segno della regalità1. Ma la moglie di Atreo, Erope, tradisce il marito con il fratello Tieste, consegnandogli in dono il vello d’oro che era in suo possesso2; Atreo viene così ingiustamente costretto all’esilio, ma successivamente torna a Micene e caccia il fratello3. Quando poi Atreo scopre il tradimento della moglie Erope, decide di vendicarsi nel modo più orribile. Richiamato il fratello, lo invita a un banchetto di riconciliazione che si rivela in realtà una terribile trappola: uccisi i figli del fratello, Atreo li imbandisce come carni4. Tieste riconosce la verità, vomita il pasto sacrilego e rovescia la tavola pronunciando una maledizione sulla casa di Atreo: che questa possa essere rovesciata nello stesso modo5.

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agamennone_menelao

Figli di Atreo ed Erope, Agamennone e Menelao regnano rispettivamente a Micene e a Sparta. Entrambi sposano due figlie di Tindaro: Agamennone prende in moglie Clitennestra, strappandola a un altro sposo di cui uccide il figlio, mentre Menelao chiede in sposa la bellissima Elena, prevalendo su altri forti pretendenti, con cui stringe un patto di alleanza per il futuro. Mentre Menelao si trova a Creta, Elena si innamora del principe troiano Paride, in visita a Sparta, che la porta via con sé a Troia. Menelao chiede allora aiuto al fratello, il quale chiama a raccolta i pretendenti di Elena e riunisce così un vasto esercito per la spedizione che darà inizio alla guerra di Troia1.

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Fedeltà coniugale di Lucrezia

Al tempo del re Tarquinio il Superbo alcuni ufficiali romani impegnati nell’assedio di Ardea decidono di montare a cavallo e di piombare a Roma e a Collazia – il piccolo centro da cui viene uno di essi, Lucio Tarquinio Collatino – per verificare come le loro donne trascorrano il tempo in assenza dei mariti. Ma mentre le altre mogli vengono sorprese nel mezzo di sontuosi banchetti in compagnia delle proprie coetanee, la sola moglie di c, Lucrezia, siede a tarda notte al centro dell’atrio, circondata dalle ancelle e impegnata nella filatura della lana. La bellezza e la castità di Lucrezia accendono però in Sesto Tarquinio, uno dei figli del re, il desiderio di possedere la donna. Trascorso qualche tempo, Sesto si presenta nuovamente a Collazia e viene accolto dall’ignara Lucrezia, cui fa violenza durante la notte vincendo la disperata resistenza della donna. L’indomani Lucrezia convoca i familiari e spiega loro l’accaduto, quindi si trafigge con un pugnale1.

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Le due Tullie, spose dei due Tarquini

Le due Tullie, figlie di Servio Tullio e di una Tarquinia, hanno sposato i due fratelli Lucio e Arrunte, che la tradizione romana considera a loro volta figli di Tarquinio Prisco, e dunque zii materni delle due Tullie, oppure nipoti del defunto sovrano, e dunque cugini delle Tullie stesse. I due matrimoni uniscono però partner dal temperamento opposto: la Tullia più ambiziosa e spregiudicata ha sposato il Tarquinio più mite e arrendevole, la Tullia più devota al padre e aliena dal delitto, al contrario, il Tarquinio deciso a rivendicare il trono appartenuto un tempo alla sua famiglia. Ben presto i due cognati più animosi, Lucio Tarquinio e Tullia Minore, diventano amanti e si sbarazzano con un duplice delitto dei rispettivi partner, quindi si sposano a loro volta e organizzano la liquidazione di Servio Tullio. Mentre Lucio si presenta in Senato ed espelle violentemente dalla curia l’anziano re, precipitandolo dalle scale e abbandonandolo sul selciato, dove invia poi dei sicari a finirlo, Tullia si imbatte nel cadavere del padre, che impedisce al suo cocchio di procedere, e non esita a calpestarlo con le ruote del carro. Del crimine resta traccia nella stessa toponomastica della città, giacché la via che Tullia stava percorrendo al momento di imbattersi nel corpo del padre venne ribattezzata Vicus Sceleratus1.

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