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Miti

Pterelao e l'immortalità "condizionata"

Pterelao regna su Tafo, una piccola isola sita davanti alle coste dell’Acarnania. Poseidone, suo nonno per parte di padre, lo aveva reso immortale ponendogli in testa un capello d’oro. Quando contro Pterelao muovono guerra Anfitrione tebano e i suoi alleati, i Tafi sono a mal partito; tuttavia, gli invasori non possono vincere finché il re nemico rimane in vita. Cometo, figlia del sovrano, si innamora di Anfitrione e per lui è disposta a tradire la patria: strappa dalla testa del padre il capello d’oro, l’eroe muore e Anfitrione riesce a espugnare Tafo1.

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Vecchiaia al femminile: il sogno di Turno

Mentre Turno dorme, gli appare in sogno la Furia Aletto con l’aspetto di una vecchia: ha i capelli bianchi e la fronte solcata da rughe ripugnanti. Si presenta nelle sembianze di Calibe, l’anziana sacerdotessa di Giunone, per aizzare con l’inganno il giovane alla guerra. Ma Turno respinge il tentativo irridendo la vecchia con parole sprezzanti: «La tua vecchiaia spossata e incapace di proferire il vero, ti illude di profetare sulle guerre dei re»1.

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Era e gli strumenti di seduzione

Era, giunta nel talamo, deterge il suo corpo con ambrosia, si unge con unguento profumato. Quindi si acconcia le belle trecce, indossa una veste lavorata da Atena, la ferma con fibbie d’oro, poi mette una cintura con cento frange, ai lobi orecchini a tre perle, sul capo un candido velo, ai piedi lega bei sandali e così ornata si reca da Afrodite, per chiederle quell’incanto d’amore con cui la dea vince tutti i mortali e gli immortali. Quindi Afrodite si scioglie la cintura ricamata, dove ci sono tutte le forze dell’incanto d’amore e del desiderio, e la dà da indossare ad Era che prontamente se ne cinge il petto e si presenta al cospetto del marito sulla cima dell’Ida. Vedendola così abbigliata, desiderio irresistibile coglie Zeus1.

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Encolpio, seduzione tra schiavi e padroni

Encolpio finge di essere un servo e si fa chiamare Polieno. Un giorno è avvicinato da un’ancella, Criside: «Tu conosci bene il tuo fascino e ne fai sfoggio, come se fossi in cerca di un’acquirente», inizia quella. «A questo mirano le onde ben pettinate dei tuoi capelli, la faccia imbellettata di unguento, il tuo sguardo languido, il modo in cui cammini. E il fatto che ti professi un umile schiavo, non fa altro che attizzare il desiderio di chi arde per te. Se dunque vuoi vendere la tua mercanzia, eccoti un compratore; se invece, com’è più galante, vorrai semplicemente offrirla, ti sarò debitrice per il tuo dono». Allora Encolpio, colmo di orgoglio per quel discorso estremamente lusinghiero, disse: «Ma dimmi un po’, non sarai mica tu questa qui che mi ama?». Criside allora scoppiò a ridere: «Ma sei matto? È della mia padrona che parlavo! Io, anche se sono un’ancella, non mi scomodo mica per meno di un cavaliere!»1.

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Lucio e Fotide

Ospite in casa di Milone, Lucio è attirato da Fotide, una servetta arguta, loquace, capace di stare allo scherzo e d’aspetto grazioso, che già con lo sguardo gli aveva fatto capire molto. Un giorno, la trova intenta a preparare la cena e ne approfitta per contemplare ogni dettaglio del suo corpo, soprattutto il capo e i capelli: forse perché questa parte, scoperta e posta in bella evidenza, si offre per prima agli occhi. Lucio si china allora su di lei, la stringe a sé e la bacia; il suo alito profuma di cinnamomo. Fotide ricambia con passione e gli promette che, al calar della notte, lo raggiungerà nella sua stanza1.

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Mostri infernali nell'Eneide: le personificazioni

Assieme alla Sibilla, Enea è sceso da poco, attraverso una fenditura della roccia, nell’oltretomba. Ogni cosa è ammantata da una densa oscurità. Sul vestibolo dell’Orco, creature orrende si presentano agli occhi dell’eroe: Pianto, Affanni, Morbi, Vecchiaia, Paura, Fame, Miseria, Morte, Dolore, Sonno, Piaceri malvagi, Guerra, le Eumenidi e infine la folle Discordia che ha serpenti al posto dei capelli cinti da una benda intrisa di sangue1.

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Purificazione di Giasone e Medea

Quando erano oramai in vista i monti Cerauni, gli Argonauti fuggiti dalla Colchide incontrarono terribili tempeste suscitate da Era. Un miracoloso legno parlante della nave Argo chiarì loro che mai sarebbero sfuggiti alle pene del mare e alle tempeste terribili, se non si fossero recati da Circe, sorella di Eeta, che li avrebbe purificati dall’assassinio del nipote Apsirto, perpetrato dalla sorella Medea poco prima di fuggire con Giasone. Giunti all’isola Eea, gli Argonauti trovarono Circe che si purificava lavando i capelli e le vesti nel mare, dopo aver avuto un terribile sogno in cui spegneva un violento incendio scoppiato in casa sua versando sulle fiamme il sangue che grondava abbondante dalle pareti. Dopo essersi purificata dal sogno notturno, Circe invitò Giasone e Medea nella sua dimora, dove attuò un processo purificatorio: sgozzò un porcellino dopo averlo elevato sul capo dei due supplici seduti sul focolare sotto la tutela di Zeus. Giasone e Medea furono liberi di riprendere il viaggio «purificati», ma Circe rinnovò la condanna per il sangue "famigliare" che era stato versato, predicendo a sua nipote un triste destino1.

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La madre degli dei arriva a Roma

In una delle fasi più drammatiche della seconda guerra punica, infatti, fu richiesto il suo trasferimento a Roma, dove la dea sarebbe stata onorata col nome di Mater magna. In quell’occasione furono consultati gli Oracoli Sibillini, che così recitarono: «La madre manca, o Romani, la madre v’ordino di cercare. Quando verrà con casta mano sia accolta». L’oracolo di Delfi, consultato a sua volta per sciogliere l’ambiguità dell’oracolo, indicò che la “madre” di cui andare in cerca era la Madre degli dèi. Inizialmente Attalo I, il re di Pergamo, si oppose alla richiesta, ma la dea stessa parlò dai penetrali del proprio tempio, invitandolo a lasciarla andare nella città «degna di accogliere qualsiasi divinità». Il nero simulacro della Mater magna venne dunque imbarcato su una nave, costruita per l’occasione, e navigò tranquillo fino alle foci del Tevere, dove trovò ad attenderla cavalieri, senatori e plebe di Roma. A questo punto però la nave si incagliò, e a dispetto di ogni sforzo, non ci fu più modo di farla proseguire. Turbati dal prodigio gli uomini, spossati, abbandonano le funi con cui avevano invano tentato di disincagliare l’imbarcazione. Vi era tra i presenti Claudia Quinta, nobile discendente del vecchio Clauso, donna elegante e onesta, ma sulla cui castità correvano voci maligne. Staccatasi dal gruppo delle matrone, Claudia prima compie un gesto di purificazione, bagnandosi con l’acqua del fiume, dopo di che, inginocchiata e con i capelli sciolti, prega la dea di comprovare davanti a tutti la propria castità. Pronunziate queste parole Claudia tirò senza sforzo la corda e il viaggio della Mater riprese felicemente fino alla destinazione finale1.

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numa_scudo

Preoccupato dall’intensità delle piogge e dall’inconsueta frequenza dei fulmini scagliati sulla terra, Numa riesce a placare la collera di Giove dopo aver catturato, grazie alle indicazioni della ninfa Egeria, le divinità dei boschi Pico e Fauno, i quali fanno in modo di trarre il dio supremo dalle sedi celesti cosicché il re possa conferire con lui, e dopo aver aggirato brillantemente la richiesta di un sacrificio umano da parte del dio, secondo un celebre scambio di battute. Numa chiede al dio di essere edotto circa la modalità di scongiurare i fulmini, e Giove gli richiede di tagliare una testa; il re risponde che lo farà, asserendo che taglierà una cipolla del proprio orto. Il dio specifica allora che il capo da tagliare deve essere di un uomo; il re acconsente, precisando che allora gli avrebbe tagliato la cima dei capelli. Ma Giove chiede una vita; Numa assente, puntualizzando che sarebbe stata la vita di un pesce. Sorridendo, il dio riconosce il re degno del colloquio con gli dèi (O vir colloquio non abigende deum!) e gli promette un dono quale pegno di sovranità. Il giorno dopo il dio mantiene la sua promessa: apertosi il cielo, ne discende uno scudo oscillante che verrà ribattezzato dal re ancile poiché appariva tagliato in tondo da ogni parte, e privo di qualsiasi angolo comunque lo si guardasse. Per evitare che l’oggetto prodigioso potesse essere sottratto, il re ordina di fabbricarne altre undici copie. Il fabbro Mamurio Veturio fu così abile nel portare a termine il suo compito che l’originale non poteva essere distinto dagli scudi appena forgiati. In ricompensa il suo nome era ricordato alla fine del Carmen dei Salii. Tullo Ostilio avrebbe creato una seconda sodalitas, i Salii Collini, con sede sul Quirinale. I dodici ancilia erano custoditi nella Regia, nella parte di essa dedicata a Marte (sacrarium Martis), assieme all’hasta Martis, una lancia particolare che veniva scossa dai generali romani prima di partire per una guerra al grido di Mars vigila1.

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