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Miti

Decapitazioni

Il troiano Dolone, sorpreso da Odisseo e Diomede durante una sortita notturna nel campo acheo, supplica di essere risparmiato, ma il Tidide con la spada gli tronca la testa, che rotola nella polvere1. Eveno, figlio di Ares, sfida in una corsa col carro gli aspiranti alla mano della figlia Marpessa; quando vince nella gara, uccide gli sconfitti che hanno osato gareggiare con lui ed espone le loro teste sul muro della sua casa, per terrorizzare i futuri pretendenti2. Un analogo costume è attribuito a Enomao, re di Pisa nell'Elide, che intende costruire un tempio con le teste dei pretendenti della figlia3.

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Cassandra, una straniera alla reggia di Argo

Argo. Reggia degli Atridi. Clitennestra accoglie Agamennone al ritorno da Troia. Disperata per l’uccisione della figlia Ifigenia, la regina ha segretamente preparato l’omicidio del marito e della sua concubina Cassandra, figlia di Priamo e sacerdotessa di Apollo, che Agamennone ha portato come bottino da Troia. Clitennestra dissimula i suoi propositi e dispone per l’eroe un’accoglienza fastosa. Agamennone prega la moglie di voler accogliere Cassandra in casa, perciò Clitennestra le si rivolge invitandola a scendere dal carro e a sopportare la sua condizione di schiavitù. Ma Cassandra resta ferma sul carro, in silenzio. Clitennestra e con lei il coro degli anziani di Argo credono che la donna non reagisca perché non capisce il greco: la regina allora rientra in casa, irritata dall’atteggiamento apparentemente superbo della profetessa; il coro invece esprime pietà per la prigioniera. A un certo punto Cassandra si alza e si muove verso la reggia, intonando un lungo grido inarticolato e invocando Apollo. Con parole oscure e nel mezzo dello stupore generale profetizza tutto quanto sta per succedere, ovvero la sua morte e quella di Agamennone per mano di Clitennestra, ma anche le successive disgrazie che colpiranno la discendenza degli Atridi1.

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Ratto di Persefone

La fanciulla era intenta a giocare e a raccogliere fiori insieme alle figlie di Oceano. Coglieva le rose, il croco e le splendide viole, coglieva l’iris e il giacinto, fin quando, attratta dal narciso insidioso, generato dalla terra su richiesta di Zeus per compiacere Ade, si protese a cogliere lo splendido giocattolo, dal profumo che inebria e stordisce. A quel punto la terra si aprì, lasciando un varco al signore degli Inferi che rapì la fanciulla sul suo carro, mentre urlava e implorava disperata il padre degli dèi, sottratta anzitempo alla sua giovinezza1.

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Comportamento scellerato di Tullia

Tullia agisce in un primo tempo all’interno della casa, dove però tiene un comportamento del tutto inaccettabile (si incontra di nascosto con il marito della sorella, con il quale decide, e poi compie, gli omicidi della sorella e del marito), poi fuori dell’ambiente domestico. In particolare, subito dopo l’assassinio di suo padre Servio Tullio, Tullia si dà a una fitta sequenza di trasgressioni. Prima si reca nel Foro sul carpentum, un tipo di carro chiuso impiegato dalle matrone per non rinunciare alla necessaria riservatezza, ma del quale la donna farà un pessimo uso. Inoltre, una volta nel Foro Tullia si mescola alla folla degli uomini, rivolgendo la parola al marito in una tale sconveniente situazione, al punto che lo stesso Tarquinio si vede costretto ad allontanarla. Ed è durante il tragitto di ritorno che Tullia passa con il suo carro sul corpo del padre, che lì giaceva dopo che suo marito l’aveva fatto uccidere, nella strada che proprio da questo episodio prenderà il nome di Vicus Sceleratus. Tullia porta così fino ai Penati propri e del marito parte del sangue proveniente da quella terribile uccisione, del quale è imbrattata e schizzata lei medesima: e a questa sistematica infrazione dei doveri parentali non potrà che seguire l’ira dei Penati stessi. Tullia quindi non solo non sa limitarsi a stare nello spazio che le compete, ma al contrario fa dello spazio – di ogni spazio – l’uso più trasgressivo possibile1.

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Ippolito muore travolto dai propri cavalli

Ippolito, figlio di Teseo e di un’Amazzone, benché oramai in età da matrimonio, preferisce starsene in disparte dalle femmine e continuare a cacciare nei boschi in compagnia degli amici di scorribande, di cavalli e di cani1. Per Ippolito il rifiuto di ogni esperienza erotica è una scelta consapevole e un motivo di vanto. Offesa per il disprezzo che il ragazzo manifesta nei confronti della sua sfera di potere, Afrodite destina il ragazzo a essere oggetto di una passione incontenibile da parte di chi meno avrebbe dovuto desiderarlo, ossia Fedra, giovane moglie di Teseo. Inorridito da questa passione, Ippolito rifiuta le avances della matrigna che, per vendicarsi, lo denuncia al padre accusandolo di averla violentata. Teseo maledice il figlio, invocando Poseidone, che in questo modo realizza la preghiera del padre: mentre Ippolito corre in riva al mare sul suo carro, un toro esce dalle onde terrorizzando i cavalli. Alle giumente rese ingovernabili dalla paura, Ippolito rivolge poche disperate parole, cercando di calmarle «Fermatevi, non mi uccidete, creature allevate alla mia mangiatoia!»2. Ma il carro esce di strada e Ippolito, intrappolato nelle briglie, è fatto a pezzi.

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L'ambra

Il figlio del Sole, Fetonte, ottenne dal padre di poter condurre il carro che trasportava l’astro diurno da oriente a occidente1. L’impresa, però, si rivelò disastrosa. Il ragazzo non fu capace di governare i cavalli alati e il carro si diresse troppo vicino alla terra. Le montagne si incendiarono, le acque si prosciugarono e Zeus, per porre fine al caos, folgorò l’auriga. Fetonte morì precipitando nel fiume Eridano. La sua morte fu pianta dalle sorelle, le inconsolabili Eliadi: esse furono tramutate in pioppi neri e le loro lacrime, asciugate dal calore dell’astro, divennero ambra.23.

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Colpa di Laio, e divieto di diventare padre

Labdaco, re di Tebe, muore quando il figlio Laio ha appena un anno. Il trono della città è quindi occupato da Lico e poi dai gemelli Anfione e Zeto, che scacciano Laio; questi si rifugia allora a Pisa, nel Peloponneso, come ospite di Pelope, il quale gli affida il figlio Crisippo. Mentre Laio insegna al bambino a condurre il carro, viene preso da desiderio e gli fa violenza, inducendolo a uccidersi1. Pelope maledice Laio, augurandogli di non avere discendenti o, se dovesse generarne, di essere ucciso dal figlio2. Laio sposa Giocasta, ma nonostante l’oracolo di Apollo gli ripeta di astenersi dall’unirsi a lei per evitare la morte e salvare la città di Tebe, Laio trasgredisce l’ordine: vinto dai suoi impulsi e dalla mancanza di volontà, finisce per generare un figlio, Edipo3.

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Edipo e Laio: l'esposizione, l'oracolo, il parricidio

Quando Giocasta partorisce, Laio fa prontamente esporre il bambino da un pastore, dopo avergli mutilato i piedi con punte di ferro1. L’uomo decide però di salvarlo affidandolo a un pastore di Corinto, che lo dona a sua volta alla coppia regale della città, Merope e Polibo, che non ha figli propri. Qui Edipo viene allevato fino al giorno in cui, nel corso di un banchetto, un compagno lo apostrofa ingiuriosamente come bastardo. Turbato da questa insinuazione, Edipo decide di cercare la verità recandosi a Delfi, dove riceve un responso ancora più sconvolgente: egli è destinato a divenire assassino del padre e sposo della madre. Edipo fugge allora il più lontano possibile da Corinto, ma finisce per incontrare il suo fato proprio quando si sente ormai al sicuro, sotto le spoglie di un vecchio re su un carro che gli nega il passo al crocicchio sulla strada tra Delfi e Tebe. Il vecchio infatti non è altri che Laio. Ostile e aggressivo verso il giovane sconosciuto, rifiuta di cedergli il passo e lo colpisce violentemente sulla testa con la sferza per i cavalli. Edipo allora è costretto a difendersi e uccide il vecchio con il suo bastone di viandante2.

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Rapimento di Persefone

Persefone raccoglie fiori bellissimi presso Nisa quando Ade, signore degli Inferi, balza dal sottosuolo con il suo carro d’oro e la rapisce. La vergine continua a invocare la madre per tutto il viaggio, finché Demetra ne sente l’eco e un dolore acuto le colpisce il cuore. Senza mangiare né bere né lavarsi, la dea vaga alla ricerca della figlia finché, venuta a sapere del rapimento, adirata, rifiuta di far emergere il raccolto dalla terra e di tornare nell’Olimpo finché la figlia non sia liberata. Zeus infine cede alla pressione di Demetra e lascia che la figlia torni da lei. Persefone però ha già mangiato il frutto di Ade, il melograno, e per questo resta legata agli Inferi, dove dovrà tornare e rimanere con il suo sposo per un terzo dell’anno, mentre il tempo restante potrà trascorrerlo con la madre1.

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Le due Tullie, spose dei due Tarquini

Le due Tullie, figlie di Servio Tullio e di una Tarquinia, hanno sposato i due fratelli Lucio e Arrunte, che la tradizione romana considera a loro volta figli di Tarquinio Prisco, e dunque zii materni delle due Tullie, oppure nipoti del defunto sovrano, e dunque cugini delle Tullie stesse. I due matrimoni uniscono però partner dal temperamento opposto: la Tullia più ambiziosa e spregiudicata ha sposato il Tarquinio più mite e arrendevole, la Tullia più devota al padre e aliena dal delitto, al contrario, il Tarquinio deciso a rivendicare il trono appartenuto un tempo alla sua famiglia. Ben presto i due cognati più animosi, Lucio Tarquinio e Tullia Minore, diventano amanti e si sbarazzano con un duplice delitto dei rispettivi partner, quindi si sposano a loro volta e organizzano la liquidazione di Servio Tullio. Mentre Lucio si presenta in Senato ed espelle violentemente dalla curia l’anziano re, precipitandolo dalle scale e abbandonandolo sul selciato, dove invia poi dei sicari a finirlo, Tullia si imbatte nel cadavere del padre, che impedisce al suo cocchio di procedere, e non esita a calpestarlo con le ruote del carro. Del crimine resta traccia nella stessa toponomastica della città, giacché la via che Tullia stava percorrendo al momento di imbattersi nel corpo del padre venne ribattezzata Vicus Sceleratus1.

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