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I cavalli di Achille e l'empatia con gli umani

Come Achille, anche Xanto e Balio avevano ascendenze divine, perché erano figli dell’arpia Podarge e di Zefiro1– cioè di un essere alato e di un vento, entrambe metafore privilegiate per la velocità dei cavalli2– ed erano immortali e veloci come nessun cavallo ordinario. Poseidone li aveva donati a Peleo, che li aveva poi regalati al figlio3. Erano soliti "volare" portando ogni volta il Pelide al campo di scontro sulla piana troiana e riportandolo poi alle navi, terminata la mischia. La velocità non era tuttavia l’unica caratteristica prodigiosa di questi due stalloni. Avevano anche una profondissima capacità di partecipazione alle vicende umane. Erano legatissimi al loro padrone e al suo compagno Patroclo: era proprio Patroclo, infatti, a prendersene spesso cura: tante volte li aveva lavati e ne aveva dolcemente pettinato le criniere, idratandole con l’olio4. Quando quest’ultimo era caduto ucciso sul campo di battaglia – il campo al quali loro stessi lo avevano condotto per l’ultima mischia – erano rimasti impietriti: immobili, le teste abbassate, il muso a toccare terra, dai loro occhi sgorgavano calde lacrime di dolore, le chiome scompigliate e macchiate di polvere, sembravano trasformati in una stele funeraria piantata su una tomba. Non c’era stato verso, per l’auriga Automedonte, di farli muovere né avanti né indietro, di riportarli alle navi o di trascinarli di nuovo nel mucchio: non rispondevano più né ai colpi di sferza, né alle parole, aspre o suadenti che fossero. Se ne stavano là fermi, prostrati, a versare gemiti e lacrime. Il loro dolore aveva commosso persino Zeus: «Ah infelici, perché mai vi regalammo a Peleo sovrano, a un mortale, voi che non conoscete vecchiaia né morte? Forse perché dei miseri uomini condivideste le pene?»5. Solo per suo intervento si scossero da quel torpore – Zeus aveva deciso di infondere loro l’energia e la foga necessarie per attraversare di nuovo la mischia dei combattenti.

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Atteone muore sbranato dai propri cani

Atteone è figlio di Autonoe e di Aristeo ma era stato allevato Centauro Chirone, dal quale aveva imparato tutti i segreti della caccia, che praticava sul monte Citerone in Beozia. Le fonti più antiche raccontano che le sue disgrazie erano iniziate quando aveva fatto arrabbiare Zeus, insidiando Semele; ma la versione più diffusa lo vuole invece in contrasto con Artemide, dea dei boschi, degli animali selvatici, e delle fasi giovanili (pre-matrimoniali) della vita umana. Secondi alcuni Artemide lo prende di mira perché si era vantato di saper cacciare meglio di lei1; secondo altri, invece, perché – volente o per sbaglio – l’aveva vista mentre nuda faceva il bagno2, violando con il suo sguardo la proverbiale refrattarietà della dea (eternamente vergine) al desiderio maschile. Per punire il ragazzo Artemide decide allora di agire sui suoi cani: li fa improvvisamente impazzire, inviando loro un attacco di rabbia per cui non riconoscono il ragazzo e lo attaccano3; ovvero trasforma Atteone in un cervo, ingannando così i cani che lo azzannano pensando di sbranare la preda. Ma la storia non finisce con la morte dello sfortunato giovane. Dei numerosi segugi che formavano la sua muta, sappiamo che, riavutisi dall’allucinazione provocata dalla dea, avevano cercato disperatamente il loro compagno, riempiendo le selve di ululati strazianti. Giunti finalmente presso l’antro del Centauro Chirone, ne suscitarono la compassione al punto che egli costruì un’immagine del ragazzo per lenire così la loro struggente nostalgia4.

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Morte dei figli di Niobe e metamorfosi in pietra

La figlia di Tantalo si vantava di aver generato molti più figli della dea Leto. La punizione fu tremenda. I gemelli arcieri figli della dea, Apollo e Artemide, uccisero con le proprie frecce i figli di Niobe. Per molti giorni i corpi rimasero privi dei riti funebri, poi furono seppelliti dagli dèi. Quanto a Niobe, sopraffatta da un dolore incommensurabile, fu tramutata in pietra, e sotto questa nuova forma continuò a covare le sue kedea «luttuose pene»1.

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Niobe, montagna piangente

Ancora molti secoli dopo la trasformazione, i viaggiatori che si fermavano a guardare da lontano la cima piovosa del Sipilo, potevano scorgere nella forma di questa montagna il volto di una donna piangente e dall’espressione addolorata1.

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Rapimento di Persefone

Persefone raccoglie fiori bellissimi presso Nisa quando Ade, signore degli Inferi, balza dal sottosuolo con il suo carro d’oro e la rapisce. La vergine continua a invocare la madre per tutto il viaggio, finché Demetra ne sente l’eco e un dolore acuto le colpisce il cuore. Senza mangiare né bere né lavarsi, la dea vaga alla ricerca della figlia finché, venuta a sapere del rapimento, adirata, rifiuta di far emergere il raccolto dalla terra e di tornare nell’Olimpo finché la figlia non sia liberata. Zeus infine cede alla pressione di Demetra e lascia che la figlia torni da lei. Persefone però ha già mangiato il frutto di Ade, il melograno, e per questo resta legata agli Inferi, dove dovrà tornare e rimanere con il suo sposo per un terzo dell’anno, mentre il tempo restante potrà trascorrerlo con la madre1.

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figli_niobe

Anfione sposa Niobe, figlia di Tantalo, che genera sei figlie femmine e sei maschi e per questo si vanta superiore a Latona, perché la dea ne aveva messi al mondo solo due. Per punire l’insulto, Artemide uccide le figlie e Apollo i figli con le loro frecce infallibili. Niobe si trasforma allora in roccia, piangendo per sempre il proprio lutto1. Secondo una diversa versione, fu lo stesso Anfione a schernire Latona per l’esiguo numero dei figli e per questo venne punito nell’Ade2. Zeto sposò Aedone, figlia di Pandareo, che generò Itilo. Aedone, forse in un accesso di follia, uccise con la spada il figlio e da allora si trasformò in usignolo, continuando a piangere il bambino3, mentre Zeto morì di crepacuore4. Furono sepolti insieme e a Tebe condivisero la tomba.

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Relazione tra Anna e Didone

Nel mito, una simile declinazione della relazione fraterna non è assente, in particolare quando a entrare in gioco sono due sorelle: Anna costituisce una sorta di doppio minore della sorella Didone, regina di Cartagine, che a lei sola osa confessare i propri sentimenti nei confronti di Enea e in omaggio alle sue esortazioni accetta di mettere da parte la promessa di fedeltà a suo tempo fatta al cenere di Sicheo per abbandonarsi alla piena della passione. È poi ancora Anna a tentare un’impossibile riconciliazione quando la flotta troiana è ormai in procinto di salpare; ed è ancora lei a piangere sul corpo della regina suicida e a raccoglierne l’ultimo respiro, lamentando che quest’ultima non l’abbia voluta confidente dei suoi estremi propositi1. Le due sorelle sono anzi a tal punto fungibili che alcune versioni del mito attribuivano ad Anna il ruolo di amante di Enea e la scelta di gettarsi sul rogo dopo la partenza di quest’ultimo2.

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Orazio e il tradimento della sorella

Avvicinandosi alle porte della città dopo la conclusione del duello, Orazio si stupisce di scorgere tra la folla che si affretta nella sua direzione il profilo della sorella, una vergine in età da marito, ma poi si convince che Orazia voglia essere la prima a felicitarsi con il fratello superstite e a conoscere gli atti di valore compiuti dagli altri Orazi meno fortunati. In realtà la ragazza è mossa dall’amore per uno dei Curiazi, al quale è stata promessa dal padre. La vista di un mantello che lei stessa aveva tessuto tra le spoglie dei Curiazi uccisi le rivela la drammatica verità: inizia allora a strapparsi le vesti, a battersi il petto e insieme a inveire contro Orazio, capace di uccidere coloro che era abituato a definire fratelli. Un’altra fonte1aggiunge che alla richiesta di Orazio di ricevere il bacio rituale che a lui spettava in quanto fratello, secondo le pratiche del cosiddetto “diritto del bacio”, Orazia oppone un secco rifiuto: un gesto dal valore simbolico molto forte, che segnala la rottura della solidarietà familiare. Orazio allora trafigge a morte la sorella, colpevole di manifestare il proprio cordoglio per la morte di un fidanzato che la guerra aveva però trasformato in nemico e insieme nell’assassino dei suoi fratelli. Processato per il suo crimine e poi assolto, Orazio deve comunque sottoporsi alle necessarie cerimonie di purificazione: vengono così innalzati due altari, uno a Giunone Sororia, l’altro a Giano Curiatius; al centro fra i due venne infine piantato un giogo, costituito da una trave orizzontale fissata su pali verticali e chiamato tigillum sororium, la «trave della sorella», sotto il quale il giovane Orazio venne fatto passare in segno di espiazione2.

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