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Miti

Nascita di Silvio

Ascanio, figlio di Enea, fondò sulle falde del monte Albano la città di Alba Longa. Il regno toccò poi al figlio Silvio, il cui nome si doveva al fatto di essere nato casualmente nei boschi (silvae). Secondo una variante del mito, dopo la morte di Enea, Lavinia fu presa dal timore che Ascanio volesse estromettere il figlio di Enea, del quale era incinta; cercò allora rifugio presso Tirreno, un guardiano di porci, e questi la nascose in una capanna situata nel mezzo di una fitta boscaglia. Quando il bambino venne alla luce, Tirreno lo allevò e gli diede il nome di Silvio, per il fatto che era nato nella selva1. L’appellativo di "Silvio" fu portato da quel momento da tutti i re di Alba Longa.

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Livio narra che per decidere quale tra i due gemelli dovesse essere il re della futura città si ricorse alla divinazione «poiché erano gemelli, e non valeva come criterio risolutivo il rispetto dovuto all’età; affinché gli dèi, sotto la cui protezione erano quei luoghi, indicassero con segni augurali (auguriis) chi doveva dare il nome alla nuova città, chi dopo averla fondata, regnarvi. Romolo per osservare il cielo al fine di cogliere i segni (ad inaugurandum templa) salì sul Palatino; Remo sull’Aventino»1.

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Manlio condanna a morte il figlio

Nel 340 a.C. Tito Manlio, che intanto ha guadagnato il soprannome di Torquato grazie a una collana (torques) strappata in guerra a un campione dei Galli, guida la campagna contro gli ex alleati della Lega latina. Quando un cavaliere nemico sfida a duello il figlio del console, questi sconfigge l’avversario e ne reca al padre le spoglie, convinto di avere ben meritato; ma nell’accettare il duello il giovane Manlio ha dimenticato l’ordine di non combattere fuori dai ranghi che il console aveva impartito a tutto l’esercito: la sua vittoria è stata ottenuta dunque al prezzo di una grave infrazione della disciplina militare. Il console dispone infatti l’immediata esecuzione del figlio, come prevede la prassi in caso di insubordinazione; la locuzione Manliana imperia sarebbe passata poi in proverbio per definire provvedimenti particolarmente severi1.

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Coriolano vive senza padre e senza agnati

Gneo Marcio si è guadagnato il proprio cognome dopo la conquista della città volsca di Corioli; nei conflitti tra patriziato e plebe assume una posizione filo-aristocratica, attirandosi l’ostilità dei tribuni della plebe e una convocazione a giudizio, cui Coriolano rifiuta di presentarsi, subendo per questo la condanna all’esilio. La sua vita si è svolta non solo senza il padre, morto quando Gneo era ancora un bambino, ma senza nessuno di quelli che i Romani chiamano agnati, i parenti in linea paterna: una condanna che egli infliggerà a sua volta ai propri figli, dai quali si congeda affermando di lasciarli orfani e soli e di affidarli alle sole cure delle donne di casa, in una sorta di perversa ripetizione della sorte della quale lui stesso era stato vittima1. La madre Veturia, recatasi presso il suo accampamento, riesce infine a distoglierlo dal porre l’assedio alla città, invocando i diritti di chi aveva portato in grembo e poi allevato il futuro traditore; quanto a Coriolano, sulla sua morte circolano versioni diverse, ma essa viene immaginata in ogni caso come disonorevole e infelice.

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Destino comune tra Romolo e Remo

A lungo le biografie di Romolo e Remo scorrono perfettamente parallele: entrambi sono abbandonati nel fiume, entrambi vengono deposti dalla piena sulle rive e qui nutriti da una lupa e da un picchio, entrambi sono raccolti e allevati dal pastore Faustolo e dalla sua compagna Acca Larenzia, entrambi crescono robusti e forti e divengono presto una sorta di raddrizzatori di torti per i pastori delle campagne laziali. La loro specularità è legata anzitutto al tratto della nascita gemellare, che costituisce una sorta di fraternità rafforzata, ed è marcata persino dalla loro onomastica, specie in quelle varianti che chiamano Romo il fratello di Romolo o propongono una coppia Remo e Romo; se poi il fratello, come riteneva l’erudito Nigidio Figulo, è «quasi un secondo sé stesso», non stupisce che Romolo fosse chiamato anche Altellus, il “Piccolo altro”, come se la sua identità potesse definirsi solo in rapporto a quella del suo gemello1.

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Incesto tra Fauno e Fauna

Tra i molteplici aspetti della sua identità divina Fauno esprime anche quello di una sessualità onnivora e insofferente verso ogni limite; non stupisce dunque che avesse desiderato unirsi anche alla figlia Fauna. Quest’ultima però era nota per la sua ritrosia, al punto da evitare ogni contatto con gli uomini; persino il suo nome era ignoto a tutti, anzi pronunciarlo era vietato, ragione per cui era conosciuta semplicemente attraverso la perifrasi “Buona Dea”; oppone dunque una tenace resistenza alle pressioni paterne, anche quando il dio la colpisce con un bastone di legno di mirto o la costringe a ubriacarsi perché ceda al suo desiderio; Fauno si trasforma allora in serpente e solo così può unirsi con la figlia1.

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