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Miti

teti_achille

Disonorato da Agamennone, che gli ha sottratto la schiava Briseide, Achille si allontana dai compagni, se ne va sulla spiaggia e piange, guardando il mare. Tende le braccia e chiama la madre, la accusa di averlo generato a vita breve senza che Zeus gli conceda in cambio l’onore dovuto. Dalle profondità del mare Teti sente il pianto del figlio e accorre subito, gli si avvicina accarezzandolo e gli chiede perché pianga. Achille allora si lascia andare ai singhiozzi e risponde: «Perché raccontare a te che sai tutto?». Replicando alle richieste del figlio, Teti fa in modo di restaurarne l’onore, chiedendo vendetta a Zeus dell’affronto di Agamennone1.

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Ettore e Andromaca

Tornato a Troia per chiedere alle donne di compiere un rito propiziatorio in onore di Atena, Ettore incontra un mondo di donne e di emozioni che gli si fa incontro: prima la madre Ecuba, che lo supplica di restare, poi la cognata Elena, che lo invita a sedere. Ma Ettore rifiuta, vuole andare dalla sua famiglia, la moglie Andromaca e il figlio Astianatte; oscuramente, sente che quella potrebbe essere l’ultima volta che potrà abbracciarli. Trovata la casa vuota, chiede alle ancelle dove sia la sposa: è sull’alta torre di Ilio, rispondono, a osservare, disperata, la battaglia. Ettore si slancia per cercarla e la trova sulla strada verso la torre, dove lei gli viene incontro, gli occhi inondati di pianto. Sfiorandogli la mano, Andromaca cerca di persuadere il suo sposo a restare, a non rendere lei vedova e il figlio orfano. Se lui fosse ucciso sarebbe per lei meglio morire: Achille le ha ucciso il padre e i fratelli, Artemide la madre; Ettore è ormai tutto ciò che le resta. L’eroe comprende le parole di Andromaca, ma al tempo stesso si sente costretto a combattere, spinto dal suo senso dell’onore. Presagendo la fine di Troia, Ettore esprime tutto il suo dolore al pensiero della sposa ridotta in schiavitù1.

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distribuzione_poteri

Dopo la battaglia contro i Titani, gli dèi olimpi prevalgono e offrono concordemente la regalità a Zeus, che si è rivelato di gran lunga il più forte tra loro. Il figlio di Crono distribuisce tra i fratelli i poteri, in modo che ognuno conservi la sua parte di onore: Zeus ha la zona superiore del cosmo, il cielo e tutto l’etere, Ade il mondo dell’oltretomba, Poseidone il regno del mare1. Al di sopra di tutti si trova Zeus, sovrano incontrastato, dalla forza invincibile, superiore non solo a quella dei fratelli ma anche di tutti gli dèi messi insieme2.

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Meleagro contro gli zii materni

Meleagro è figlio di Altea e Oineo, re di Calidone in Etolia. Dopo un abbondante raccolto Oineo offre un sacrificio a tutti gli dèi, ma si dimentica di Artemide; la dea allora manda come punizione un terribile cinghiale che inizia a distruggere il territorio di Oineo. È Meleagro a ucciderlo dopo aver organizzato una battuta di caccia con gli eroi più valorosi di tutta la Grecia, cui prendono parte anche gli zii materni di Meleagro, i Cureti. Anche Atalanta, straordinaria cacciatrice di cui Meleagro è innamorato, interviene nella caccia e colpisce il cinghiale sulla schiena con una freccia. Meleagro dà al cinghiale il colpo di grazia e a lui sarebbero spettate di diritto la testa e la pelle dell’animale, come parte d’onore dovuta all’uccisore. Egli però scuoia l’animale e dona la pelle alla sua amata Atalanta; allora gli zii della madre – o uno solo di essi – contestano questa attribuzione e sottraggono ad Atalanta la pelle del cinghiale. Una lotta violenta sorge tra Etoli e Cureti; Meleagro, preso dall’ira, uccide gli zii materni e restituisce la pelle del cinghiale ad Atalanta. La madre Altea maledice il figlio e invoca Ade e Persefone affinché gli diano la morte1.

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Zio paterno di Appio Claudio

Di fronte ai disordini generati dalla politica accentratrice di Appio Claudio e degli altri decemviri, i tradizionali nemici di Roma sono tornati all’attacco, accampandosi a poca distanza dalla città. Nella tumultuosa seduta del Senato chiamata a discutere la situazione, Appio accorda in primo luogo la parola allo zio paterno Gaio Claudio; sennonché, lungi dal difendere il triumviro, Gaio imbastisce una lunga requisitoria contro il regime di arbitrio e violenza che si è instaurato a Roma e del quale proprio il figlio del fratello è il maggiore responsabile. L’oratore fa appello più volte al suo ruolo di patruus: non solo spiegando che in ragione della sua stretta parentela con il decemviro l’eventuale disonore di quest’ultimo ricadrebbe inevitabilmente anche su di lui, ma rendendo noto che egli ha più volte, in forma privata, cercato di indurre Appio a recedere dalla sua ricerca di un potere tirannico, senza essere mai riuscito neppure a farsi ricevere in casa da lui1. Tra l’altro, dalle parole di Gaio si evince che il padre del decemviro era morto: una circostanza che faceva del patruus non un semplice doppio, ma un vero e proprio sostituto della figura paterna, dalla quale ereditava il diritto-dovere di intervenire nel momento in cui il nipote trasgrediva tanto le tradizioni della famiglia quanto le regole della vita associata. Inutile dire che Appio, in conformità con la sua indole, non terrà in alcun conto gli ammonimenti del patruus; al quale non resterà dunque che recarsi in volontario esilio a Regillo, la città sabina dalla quale i Claudi erano venuti alcune generazioni prima.

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