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Miti

Nascita di Antonino Diadumeno

Talora accade che i neonati siano contrassegnati da un berretto naturale che le ostetriche sono pronte a rubare per venderlo agli avvocati creduloni. Pare, infatti, che gli uomini di legge ne traggano giovamento. A questo bambino accadde però una cosa singolare: al posto del berretto aveva un diadema sottile, ma così forte che non si riusciva a romperlo perché tenuto assieme da nervi che sembravano quelli che tendono gli archi. Per questa ragione il bambino fu chiamato Diademato, ma, una volta cresciuto, ricevette il nome dell’avo materno, Diadumeno, che non è poi così lontano da quel segno del diadema1.

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I gemelli: Eracle e Ificle

È sera, e Alcmena ha appena messo a letto i suoi bambini: Eracle, di dieci mesi, ed Ificle, di una notte più giovane. Dopo essere stati allattati e dondolati nello scudo di bronzo che funge da culla, i due si addormentano in un sonno profondo. Ma nel cuore della notte Era suscita contro di loro due terribili serpenti, dai denti aguzzi e dalle lingue velenose. Non appena i mostri si avvicinano alla culla per mordere i bambini Zeus produce una forte luce e i due infanti si svegliano: Ificle è preso da terrore, e con i piedini respinge la coperta di lana nel tentativo di fuggire; Eracle invece afferra prontamente i serpenti stringendoli in una terribile morsa. Nel frattempo Alcmena, sentendo le grida della nutrice, sveglia il marito Anfitrione e tutta la casa accorre nella stanza dei gemelli. Qui con loro grande stupore trovano Eracle che, ridendo, depone ai piedi del padre i due serpenti ormai morti. Alcmena prende in braccio Ificle spaventato, mentre Eracle torna a dormire sotto una pelliccia. L’indomani i genitori consultano l’indovino Tiresia per avere un responso su quanto accaduto.1.

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I gemelli: Anfione e Zeto

Antiope, sedotta da Zeus, è incinta e tenta di fuggire dalle ire del padre Nitteo: perciò viene accolta da Epopeo, re di Sicione. Ma Nitteo, sul punto di morire dal dolore, affida al figlio Lico il compito di punire Antiope. Lico uccide Epopeo e riporta a casa la sorella, la quale partorisce per strada – sul monte Citerone – due gemelli (Anfione e Zeto) che vengono esposti e raccolti da un pastore. Antiope viene affidata alla custodia della perfida Dirce, moglie di Lico, che la tormenta in ogni modo. Una volta cresciuti, i gemelli riusciranno a liberare la madre e a vendicarsi di Lico e di Dirce. In seguito fortificheranno Tebe con enormi mura1.

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Romolo e Remo

Alla morte di Proca, i suoi due figli si contendono il trono di Alba Longa e Numitore, erede designato, viene spodestato dall’ambizioso fratello Amulio. Questi, temendo che la nascita di eredi maschi del fratello metta in pericolo il suo regno, fa consacrare Rea Silvia, figlia di Numitore, come vergine Vestale. La donna tuttavia mette alla luce due gemelli, attribuendone la paternità a Marte; in preda all’ira, Amulio fa allora imprigionare Rea Silvia e abbandona i due neonati nelle acque del Tevere. Provvidenzialmente, la cesta che contiene i gemelli viene deposta dalle acque ai piedi di un fico, sul terreno asciutto, e qui una lupa si avvicina ai bambini porgendo loro le sue mammelle gonfie di latte. Il pastore Faustolo, che assiste alla scena, decide di raccogliere i gemelli e di allevarli insieme alla moglie Larenzia. I fratelli crescono forti e gagliardi nelle campagne del Lazio finché un giorno uno di loro, Remo, viene catturato e consegnato al re Amulio, con l’accusa di aver condotto razzie nel territorio di Alba. Numitore riconosce allora il nipote e gli rivela la sua origine; altrettanto fa il pastore Faustolo con Romolo. I due gemelli, insieme ad alcuni compagni, attaccano la reggia, uccidono il tiranno e restituiscono il trono al nonno Numitore. A questo punto, i gemelli scelgono di andare a fondare una nuova città nei luoghi della loro infanzia. I contrasti, però, cominciano già con la scelta del nome da assegnare alla città, e la brama di potere prende facilmente il sopravvento. Dopo aver deciso di dirimere la controversia rimettendo agli dèi la scelta del fondatore, Romolo e Remo si posizionano rispettivamente sul Palatino e sull’Aventino per osservare i segni celesti. A Remo appaiono subito sei avvoltoi, ma proprio mentre tale annuncio viene portato a Romolo, questi scorge un numero doppio di uccelli. Ciascun gruppo di sostenitori acclama il proprio re, appellandosi al primato temporale o alla superiorità numerica; nella contesa che segue, Remo cade in battaglia. Secondo una diversa versione, è Romolo stesso a trucidare il fratello, reo di aver scavalcato le nuove mura in segno di scherno. In ogni caso, la città fu fondata e il gemello vincitore le diede il proprio nome1.

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Integrazione di Esculapio a Roma

Nel 293 a. c. una pestilenza infuriava nel Lazio. Stremati dai lutti i Romani mandarono a consultare l’oracolo di Delfi, che rispose in questo modo: «Ciò che qui cerchi, Romano, avresti dovuto cercarlo in luogo più vicino! E dunque in luogo più vicino cercalo. Per ridurre i tuoi lutti non di Apollo, ma del figlio di Apollo hai bisogno». Il Senato, ottenuto il responso, fece indagare sul luogo in cui viveva il figlio di Apollo, finché inviò i propri messaggeri a Epidauro. In questa città infatti era onorato Esculapio (Asklepios per i Greci, Aesculapius per i Romani), divinità della medicina, il figlio di Apollo e della ninfa Coronide. Giunti a Epidauro gli ambasciatori si presentarono al consiglio e pregarono che fosse loro concesso il dio, affinché con il proprio attivo intervento (praesens) ponesse fine al flagello. La maggioranza era contraria a lasciar partire la divinità, ma durante la notte al Romano apparve Esculapio, in tutto simile alla statua custodita nel tempio. Con la destra tiene un bastone, con la sinistra si liscia la lunga barba: «lascerò il mio simulacro» dice «ma osserva bene il serpente che si attorciglia intorno al mio bastone, così domani potrai riconoscerlo». Ciò detto la visione si dilegua. Il giorno dopo gli anziani di Epidauro, ancora incerti sulla decisione da prendere, si riuniscono nel tempio e chiedono che sia Esculapio stesso a esprimere il proprio volere attraverso un segno divino. Ed ecco che un grande serpente, irto di creste d’oro, si avanza sibilando, suscitando il terrore dei presenti. Ma il sacerdote riconosce la divinità e tutti venerano il numen che ha voluto manifestarsi in questo modo. Il serpente / Esculapio annuisce (adnuit) con le creste e fa vibrare la lingua, confermando in questo modo il proprio “impegno” (rata pignora) a seguire gli ambasciatori: scivolato fuori dal tempio, si imbarca sulla nave romana che lo condurrà fino all’isola Tiberina, là dove sorgerà il suo tempio1. In un’altra versione del racconto è ancora il serpente sacro al dio che, pur senza manifestare proporzioni e attributi visibilmente soprannaturali, sale spontaneamente sulla nave dei Romani2.

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La madre degli dei arriva a Roma

In una delle fasi più drammatiche della seconda guerra punica, infatti, fu richiesto il suo trasferimento a Roma, dove la dea sarebbe stata onorata col nome di Mater magna. In quell’occasione furono consultati gli Oracoli Sibillini, che così recitarono: «La madre manca, o Romani, la madre v’ordino di cercare. Quando verrà con casta mano sia accolta». L’oracolo di Delfi, consultato a sua volta per sciogliere l’ambiguità dell’oracolo, indicò che la “madre” di cui andare in cerca era la Madre degli dèi. Inizialmente Attalo I, il re di Pergamo, si oppose alla richiesta, ma la dea stessa parlò dai penetrali del proprio tempio, invitandolo a lasciarla andare nella città «degna di accogliere qualsiasi divinità». Il nero simulacro della Mater magna venne dunque imbarcato su una nave, costruita per l’occasione, e navigò tranquillo fino alle foci del Tevere, dove trovò ad attenderla cavalieri, senatori e plebe di Roma. A questo punto però la nave si incagliò, e a dispetto di ogni sforzo, non ci fu più modo di farla proseguire. Turbati dal prodigio gli uomini, spossati, abbandonano le funi con cui avevano invano tentato di disincagliare l’imbarcazione. Vi era tra i presenti Claudia Quinta, nobile discendente del vecchio Clauso, donna elegante e onesta, ma sulla cui castità correvano voci maligne. Staccatasi dal gruppo delle matrone, Claudia prima compie un gesto di purificazione, bagnandosi con l’acqua del fiume, dopo di che, inginocchiata e con i capelli sciolti, prega la dea di comprovare davanti a tutti la propria castità. Pronunziate queste parole Claudia tirò senza sforzo la corda e il viaggio della Mater riprese felicemente fino alla destinazione finale1.

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Nelle Memorie di Silla si legge di un fatto, di cui fu testimone lo stesso Cicerone, come si dice nel 1: «mentre egli era nel territorio di Nola e celebrava un sacrificio d’innanzi al pretorio, dal di sotto all’altare sbucò all’improvviso un serpente, e allora l’aruspice Gaio Postumio esortò a muovere all’offensiva con l’esercito. Silla gli diede ascolto e d’innanzi alla città di Nola espugnò l’accampamento dei Sanniti»2. Poco prima si era narrato anche di ciò che era accaduto a Tiberio Gracco, augure di grande autorità, che chiamò gli aruspici dopo aver trovato in casa due serpenti3.

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«Là dove si trova il tempio della Fortuna, fluì miele da un ulivo, e gli aruspici dissero che quelle sortes avrebbero goduto grande fama, e per loro ordine col legno di quell’ulivo fu fabbricata un’urna e lì furono riposte le sortes, le quali, oggi, vengono estratte, si dice, per ispirazione della dea Fortuna»1.

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latino_oracolo

Virgilio nell’12racconta che a questa forma di divinazione ricorse il re Latino quando vide il suo popolo in grave difficoltà: «Il re, ansioso per i presagi, ricorre all'oracolo di Faunus, il padre che dava i responsi, e ne consulta il bosco nella profonda Alburnea […] qui le genti d'Italia e tutta la terra enotria chiedono responsi nel dubbio». Il sacerdote, dopo aver celebrato un sacrificio, si coricò sulla pelle di pecora, in attesa del sonno. Una volta addormentato fu finalmente ammesso al colloquio con gli dèi .

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cicerone_divinazione

«Io non do credito ai volgari estrattori di sorti, né a quelli che fanno gli indovini per trarne soldi, né alle evocazioni delle anime dei morti, alle quali ricorreva il tuo amico Appio. Non stimo gli auguri marsi, né gli aruspici di strada, né gli astrologi, né i profeti di Iside, né i ciarlatani interpreti i sogni. Essi non sono indovini per scienza e per esperienza»1.

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