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Miti

Cassandra, una straniera alla reggia di Argo

Argo. Reggia degli Atridi. Clitennestra accoglie Agamennone al ritorno da Troia. Disperata per l’uccisione della figlia Ifigenia, la regina ha segretamente preparato l’omicidio del marito e della sua concubina Cassandra, figlia di Priamo e sacerdotessa di Apollo, che Agamennone ha portato come bottino da Troia. Clitennestra dissimula i suoi propositi e dispone per l’eroe un’accoglienza fastosa. Agamennone prega la moglie di voler accogliere Cassandra in casa, perciò Clitennestra le si rivolge invitandola a scendere dal carro e a sopportare la sua condizione di schiavitù. Ma Cassandra resta ferma sul carro, in silenzio. Clitennestra e con lei il coro degli anziani di Argo credono che la donna non reagisca perché non capisce il greco: la regina allora rientra in casa, irritata dall’atteggiamento apparentemente superbo della profetessa; il coro invece esprime pietà per la prigioniera. A un certo punto Cassandra si alza e si muove verso la reggia, intonando un lungo grido inarticolato e invocando Apollo. Con parole oscure e nel mezzo dello stupore generale profetizza tutto quanto sta per succedere, ovvero la sua morte e quella di Agamennone per mano di Clitennestra, ma anche le successive disgrazie che colpiranno la discendenza degli Atridi1.

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Andromaca come sposa ideale

Come Penelope, anche Andromaca è sposa mitica esemplare. Dopo che Ettore muore sotto la lancia di Achille e Troia è ormai in fiamme, Andromaca, come le altre donne troiane, viene condotta schiava, e allora ricorda struggendosi la sua vita serena di sposa felice, quando viveva il suo ruolo nel modo migliore: restava a casa vicino al focolare, senza suscitare pettegolezzi; parlava con discrezione e mostrava sempre al marito un volto sereno, sapendo bene quando prevalere o lasciare invece lasciare vincere lui.1.

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Filesitero, un seduttore esemplare

Oltre a essere bello, Filesitero era un giovane munifico, ardimentoso e ostinato, specie quando si trattava di sedurre. Alla sua attenzione non sfuggì la nobile avvenenza di Arete, una donna di straordinaria bellezza, ma sposata a Barbaro, un tale dai modi aggressivi che in città chiamavano “lo Scorpione” e che la teneva sotto strettissima sorveglianza, benché quella passasse il tempo per lo più in casa, intenta a filare la lana. Eccitato proprio dalla sua castità e infiammato dall’eccezionalità di quella ben nota sorveglianza, Filesitero era pronto a fare qualsiasi cosa pur di averla. Un giorno, Barbaro dovette partire e lasciò Arete sotto la custodia di un fedelissimo servo, Mirmece. Filesitero, convinto della fragilità della fedeltà umana quanto del potere dell’oro, non esitò ad avvicinare lo schiavo e a rivelargli la sua passione. Supplicandolo, lo prega di alleviare il suo tormento e si dichiara deciso a darsi la morte, qualora non ottenga ciò che desidera. Infine, mostra a Mirmece delle monete d’oro, venti per Arete, se accetterà la sua corte, e dieci per lui, in cambio del suo aiuto. Mirmece finisce per cedere, e con lui anche la donna. Ma Barbaro torna a casa prima del previsto e Filesitero, per la fretta di scappare, dimentica le scarpe. Al mattino, lo Scorpione trova sotto il letto dei sandali da uomo a lui ignoti. Ordina allora che Mirmece sia portato in ceppi nel Foro per non aver fatto il suo dovere. Quando vede il servo in catene, Filesitero intuisce tutto e si scaglia contro di lui: «Ti sta bene, furfante maledetto, che ieri, ai bagni, mi hai rubato i sandali!». Sollevato da queste parole e opportunamente ingannato, Barbaro libera Mirmece e gli raccomanda di restituire i sandali1.

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Encolpio, seduzione tra schiavi e padroni

Encolpio finge di essere un servo e si fa chiamare Polieno. Un giorno è avvicinato da un’ancella, Criside: «Tu conosci bene il tuo fascino e ne fai sfoggio, come se fossi in cerca di un’acquirente», inizia quella. «A questo mirano le onde ben pettinate dei tuoi capelli, la faccia imbellettata di unguento, il tuo sguardo languido, il modo in cui cammini. E il fatto che ti professi un umile schiavo, non fa altro che attizzare il desiderio di chi arde per te. Se dunque vuoi vendere la tua mercanzia, eccoti un compratore; se invece, com’è più galante, vorrai semplicemente offrirla, ti sarò debitrice per il tuo dono». Allora Encolpio, colmo di orgoglio per quel discorso estremamente lusinghiero, disse: «Ma dimmi un po’, non sarai mica tu questa qui che mi ama?». Criside allora scoppiò a ridere: «Ma sei matto? È della mia padrona che parlavo! Io, anche se sono un’ancella, non mi scomodo mica per meno di un cavaliere!»1.

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Seduzione e ornamenti del corpo

Esopo era al servizio di una donna molto brutta ma ricca, che impiegava il giorno intero a dipingersi il volto e a indossare vestiti e gioielli, senza trovare nessuno che osasse toccarla. «Posso dire?», fece un giorno lo schiavo. «Secondo me, se abbandoni questi ornamenti, puoi avere ciò che vuoi». La donna fu lusingata: «Ti sembro più carina al naturale?». «Niente affatto. Ma se pagherai, anche senza trucco, avrai di certo chiunque desideri»1.

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Lucio e Fotide

Ospite in casa di Milone, Lucio è attirato da Fotide, una servetta arguta, loquace, capace di stare allo scherzo e d’aspetto grazioso, che già con lo sguardo gli aveva fatto capire molto. Un giorno, la trova intenta a preparare la cena e ne approfitta per contemplare ogni dettaglio del suo corpo, soprattutto il capo e i capelli: forse perché questa parte, scoperta e posta in bella evidenza, si offre per prima agli occhi. Lucio si china allora su di lei, la stringe a sé e la bacia; il suo alito profuma di cinnamomo. Fotide ricambia con passione e gli promette che, al calar della notte, lo raggiungerà nella sua stanza1.

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L'asino Lucio comprato dai cinaedi

Il povero Lucio, trasformato in asino, sta per essere venduto. Quando vede il suo compratore, si accorge che si trattava di un uomo devoto alla dea Siria e insieme di un vecchio cinaedus. In effetti, giunto a casa, l’uomo spalanca la porta e urla: «Ragazze! Guardate un po’che bel servetto vi ho portato dal mercato». Ma le ragazze non erano altro che un corteo di cinaedi come lui, che alla vista dell’asino saltano di gioia, fanno urletti e strepitano, tutti eccitati. Lucio viene condotto fuori e legato nei pressi della mangiatoia. Lì vicino c’è un giovane schiavo, piuttosto corpulento. Quando vede l’asino, sospira rincuorato: «Sei venuto, finalmente, a darmi manforte in questo duro lavoro! Che tu possa vivere a lungo, piacere ai padroni e dare così sollievo alla mia povera schiena!». Il giovane, infatti, era il concubino di quei mezzi uomini; e non era il solo. Un giorno, dopo essersi vestiti di colori sgargianti e truccati in volto e sugli occhi, tornano portandosi dietro un robusto contadino, oggetto del loro illecito piacere, che cercano di eccitare in ogni modo. Lucio, non potendo sopportare le abominevoli pratiche cui era costretto ad assistere, tenta di urlare, ma tutto quello che ottiene è un raglio, comunque sufficiente a far accorrere i vicini1.

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Trimalcione e lo schiavo

Trimalcione aveva invitato a cena molti ospiti, tra cui Abinna, che sovrintendeva ai lavori per la costruzione di quella che sarebbe stata la sua tomba monumentale. «Mi raccomando», aveva appena finito di dire, «alla mia destra voglio la statua di mia moglie Fortunata che regge una colomba». Proprio allora, tra i vari servitori, entrò uno schiavetto niente affatto brutto. Trimalcione gli si getta addosso e inizia a baciarlo. In tutta risposta, Fortunata prende a insultare il marito, chiamandolo sporcaccione e svergognato, poiché non è in grado di contenere la sua libidine. Trimalcione, offeso da quel rimbrotto, le rovescia in faccia il contenuto del suo calice, e di nuovo giù a litigare. Lei lo accusa di averle fatto quasi perdere un occhio, lui si difende dicendo di aver baciato un ragazzo assolutamente morigerato, non per la sua bellezza, ma per la sua sobrietà, un giovane degno di tanta attenzione. Del resto, lui stesso, a quattordici anni, era stato il favorito del suo padrone – non è mica vergognoso fare quello che il padrone ordina – e al contempo anche della padrona. E così era diventato il signore di quella casa, tanto che il padrone lo aveva nominato coerede del suo patrimonio. Ma Fortunata, intanto, è scoppiata a piangere e non dà segno di calmarsi. Così Trimalcione, esasperato, sbotta: «Ho cambiato idea, Abinna. Ricordati di non mettere nella mia tomba la statua di questa qui. Non sia mai che anche da morto mi tocchi litigare!»1.

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Encolpio, Ascilto e Gitone

Dopo una lite furibonda con l’amico Ascilto a causa di Gitone, che il primo aveva molestato, Encolpio fa di tutto per liberarsi del rivale, adducendo una serie di plausibili scuse. Ma è il desiderio a mettergli in corpo una gran fretta di separarsi dall’amico, per poter riprendere col suo giovane amante le vecchie abitudini. Così, quando finalmente quel terzo incomodo di Ascilto se ne va, riscossi i primi baci, Encolpio stringe forte Gitone tra le braccia e trae il godimento promesso in modo così pieno da fare invidia. E si intrattiene ancora a giocherellare col suo fratellino, quando d’un tratto si sente un terribile trambusto: qualcuno, scardinato il chiavistello, irrompe con fragore e, colti in flagrante i due, riempie la stanza di risate e di applausi. «Ma bravo, fratello! È questo che fai?», esclama Ascilto, in piedi davanti a loro, che di andarsene aveva fatto solo finta. In un lampo si sfila la cinghia e, prima che Encolpio se ne renda conto, oltre agli insulti, lo riempie di nerbate assai poco amichevoli. «Così impari», esclama, «a non voler condividere nulla col tuo amico Ascilto1.

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Encolpio tra omosessualità ed eterosessualità

Quando Encolpio, che fingeva di essere uno schiavo, sente dall’ancella Criside che la sua padrona spasimava per lui e desiderava incontrarlo, disse: «E sia. Portami da lei». La serva lo conduce nel fitto di un boschetto. Lì appare la padrona: era davvero perfetta, più armoniosa di una statua greca, tanto che Encolpio non avrebbe potuto catturarne a parole la bellezza. Il giovane, per la prima volta, sente di aver dimenticato Doride, il suo primo amore. «Se non ti dispiace una donna che ha sperimentato per la prima volta quest’anno l’amore di un uomo, ti potrò procurare una “sorella”. Tu hai già – mi sono informata – un “fratellino”, ma cosa ti proibisce di adottare anche me? Mi offro con lo stesso grado di parentela. Tu degnati solo di far la conoscenza dei miei baci». «Ma sono io, al contrario», risponde Encolpio, «che ti prego di voler ammettere quest’umile servo nel corteo dei tuoi ammiratori. E riguardo al mio “fratellino”, perché tu non possa pensare ch’io venga a mani vuote al tempio di Amore, ecco, se lo vuoi, è tuo. Te lo regalo». «Ma come», esclama lei, «mi fai dono della persona senza la quale non puoi vivere? Colui dai cui baci dipendi? Che ami nello stesso modo in cui io vorrei che tu amassi me?». E la sua voce, nel dirlo, era così seducente che a Encolpio pare di sentir cantare le Sirene. «Qual è il tuo nome?», le chiede rapito. «Circe», risponde lei. Ed Encolpio pensa che per lei non ci sia nome più adatto1.

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Appio Claudio attenta alla verginità di Virginia

Il decemviro Appio Claudio è preso dal desiderio di violare una vergine plebea di straordinaria bellezza, figlia di Lucio Virginio. Appio tenta dapprima di sedurre la ragazza con l’offerta di un compenso, ma, ostacolato dal pudore di lei, sceglie di ricorrere alla violenza. Incarica un suo cliente di dichiarare che la vergine era figlia di una sua schiava e dunque di sua proprietà. Quello obbedisce, ma dal momento che una gran folla accorre per impedire quell’ingiustizia, il cliente cita la ragazza in giudizio presso il tribunale di Appio, il quale acconsente a che l’uomo la conduca a casa sua. Ma Icilio, cui la giovane era promessa, protesta e ottiene che sia mandato a chiamare il padre di lei, impegnato in una campagna di guerra. Intanto Appio stabilisce che Virginia sia data in schiava a chi la rivendica. Virginio chiede allora un momento perché, in disparte con la figlia, possa interrogare la nutrice sulla sua nascita. Conduce quindi la giovane nei pressi delle Botteghe nuove e, afferrato un coltello, le trafigge il petto. I Romani piansero il delitto di Appio, la funesta bellezza della fanciulla e l’ineluttabile decisione paterna1.

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teti_achille

Disonorato da Agamennone, che gli ha sottratto la schiava Briseide, Achille si allontana dai compagni, se ne va sulla spiaggia e piange, guardando il mare. Tende le braccia e chiama la madre, la accusa di averlo generato a vita breve senza che Zeus gli conceda in cambio l’onore dovuto. Dalle profondità del mare Teti sente il pianto del figlio e accorre subito, gli si avvicina accarezzandolo e gli chiede perché pianga. Achille allora si lascia andare ai singhiozzi e risponde: «Perché raccontare a te che sai tutto?». Replicando alle richieste del figlio, Teti fa in modo di restaurarne l’onore, chiedendo vendetta a Zeus dell’affronto di Agamennone1.

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Anfione e Zeto

Antiope, figlia del dio-fiume Asopo, genera da Zeus i gemelli Anfione e Zeto. Antiope però deve abbandonarli presso il monte Citerone per fuggire l’ira del padre Nitteo, re di Tebe. Un pastore ha cura dei gemelli, che crescono forti: Zeto diviene pastore e cacciatore, mentre Anfione è il primo suonatore della lira inventata dal dio Ermes1. Lo zio paterno Lico ritrova Antiope a Sicione, la cattura riportandola a Tebe e la fa schiava presso sua moglie Dirce. I gemelli, ormai adulti, riconoscono la madre, la liberano e depongono Lico. La sovranità di Tebe viene data a Zeto, mentre Anfione la circonda di mura facendo muovere le pietre e gli alberi al suono della sua lira. Tebe ebbe così sette porte, come sette erano le corde dello strumento2.

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Servio Tullio nasce dal focolare

All’epoca di Tarquinio Prisco, nella reggia di Roma vive Ocresia, una schiava originaria di Corniculum e qui catturata dopo la conquista della città. In occasione di alcuni riti sacri, a Ocresia viene ordinato di versare del vino sul focolare acceso; la schiava si accorge allora che fra le ceneri è comparso un fallo. La regina Tanaquilla comprende immediatamente che quel fenomeno ha origine soprannaturale e ordina all’ancella di sedere presso il focolare; Ocresia concepisce così il futuro Servio Tullio, il cui padre è dunque lo stesso dio del fuoco Vulcano. Di questa circostanza si ha conferma di lì a non molto, quando il capo di Servio ancora bambino viene circondato da una corona di fiamma1. In altre varianti del racconto, il fallo comparso tra le braci rimanda non a Vulcano, ma al Lare, divinità tutelare della famiglia che nell’area del focolare riceveva il proprio culto. Per questo fu Servio a istituire i Compitalia, le feste celebrate nei primi giorni dell’anno in onore dei Lari dei crocicchi (compita) e officiate dagli abitanti del medesimo vicinato2. Durante i Compitalia vigeva tra l’altro una carnevalesca inversione dei ruoli fra schiavi e padroni; proprio ai Lari, sia quelli domestici che quelli dei crocicchi, usavano del resto sacrificare gli schiavi, per altri versi esclusi dalle pratiche religiose della casa e della città.

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Anche Romolo e Remo nascono dal focolare

Durante il regno del crudele Tarchezio, nel focolare della reggia di Alba Longa si manifesta un fallo; viene allora consultato l’oracolo di Teti (Tethys) e la dea risponde che a quella apparizione doveva congiungersi una vergine, perché il bambino così concepito sarebbe divenuto famoso per valore, fortuna e forza. Tarchezio ordina alla figlia di unirsi al fallo, ma questa invia al suo posto una schiava; quando quest’ultima genera due gemelli, Tarchezio li consegna a un certo Terazio con l’ordine di ucciderli. A questo punto il mito si incanala nella direzione consueta: i bambini riescono a salvarsi, allontanano dal trono di Alba il crudele Tarchezio e diventano infine i fondatori di Roma (Plutarco, Rom. 2, 4-6).

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