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Miti

Stupro e suicidio di Lucrezia

Una sera, mentre si discuteva nella tenda di Sesto Tarquinio su quale fosse la migliore delle mogli, Collatino propose di mettersi immediatamente a cavallo per raggiungere le proprie donne, così da ottenere in poche ore il verdetto su quella cui spettasse la palma della vittoria. A differenza delle nuore del re, sorprese in sontuosi banchetti, la moglie di Collatino, Lucrezia, fu trovata seduta in casa a lavorare la lana in compagnia delle ancelle. Sesto Tarquinio, eccitato dalla bellezza e dall’onestà della donna, pochi giorni dopo si recò nuovamente da lei all’insaputa del marito. Dopo averla tentata in ogni modo, capì che la donna era irremovibile anche di fronte al pericolo di morte, perciò fece leva sulla paura del disonore: minacciò di ucciderla e di porle accanto nel letto un servo strangolato, simulando in tal modo un adulterio colto in flagrante e debitamente vendicato. Fu questa paura a determinare la vittoria della violenza sull’indomabile pudicizia. Sesto Tarquinio se ne andò tutto fiero di aver espugnato l’onore della donna, che immediatamente mandò a chiamare il padre, il marito e lo zio materno Bruto ai quali, afflitta, raccontò l’accaduto. All’udire il misfatto gli uomini giurarono vendetta e cercarono di rassicurare Lucrezia tormentata dall’idea della colpa. Ma la donna, dopo aver pronunciato le sue ultime parole famose («d’ora in poi nessuna, prendendo esempio da Lucrezia, vivrà da impudica»), prese un coltello e si inferse nel petto una ferita mortale1.

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Stupro e metamorfosi di Callisto

Callisto fa parte della schiera di Artemide e come la dea vive godendo delle caccie sui monti e nella natura selvaggia. Ha fatto voto alla dea di preservare la sua verginità. Ma Zeus se ne invaghisce e riesce ad unirsi a lei. Artemide, piena di collera, la trasforma in orsa per punire la colpa di non avere mantenuto la verginità promessa, oppure, secondo un’altra variante, Zeus la trasforma nella costellazione dell’Orsa maggiore1.

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Stupro di Cassandra

Cassandra, la vergine figlia di Ecuba e Priamo, è amata da Apollo che le fa dono della virtù profetica in cambio della rinuncia alla sua verginità, accettando di unirsi a lui. Ma dopo avere ricevuto il dono della profezia, rifiuta di concedersi al dio che, irato, la punisce togliendole la capacità di persuadere gli altri della veridicità delle sue previsioni sul futuro. Un altro episodio di violenza aggressiva contrassegna la vicenda di Cassandra, in quanto Aiace Oileo, con un atto sacrilego, viola la sua verginità quando, durante il sacco di Troia, si era rifugiata presso il tempio di Atena, aggrappata alla statua della dea. Ma Aiace la strappa via facendo vacillare il simulacro divino, provocando così la collera di Atena1.

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Il peplo di Filomela

Filomela subisce violenza dal cognato Tereo, che per impedirle di comunicare l’accaduto le taglia la lingua. Ma Filomela riesce a svelare alla sorella Procne la violenza subita in quanto le invia un peplo su cui ha tessuto lettere che svelano l’atto di Tereo1.

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Callisto: perdita della verginità e castigo di Artemide

Al seguito della dea Artemide e, per questo, tenuta alla verginità, Callisto viene sedotta da Zeus che, per avere rapporti sessuali con la giovane, si trasforma nella stessa Artemide, cosa che rivela che soltanto sotto le sembianze della dea il dio sa di potere esaudire il suo desiderio d’amore per la giovane. In seguito Artemide, durante un bagno nei boschi, vede Callisto nuda, che mostra, nel corpo, i segni evidenti di una gravidanza incipiente. La dea punisce la ninfa, per avere disatteso il patto di verginità, tramutandola in un'orsa. In seguito essa troverà la morte colpita dalle frecce di Artemide stessa, ma verrà tramutata da Zeus nella costellazione dell'orsa maggiore1.

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Zeus inghiotte Metis

I Titani, sconfitti da Zeus, su consiglio di Gaia, invitano quest’ultimo a salire al trono. Conquistato quindi il primato assoluto nel cielo, il Cronide prende come prima moglie Metis, divinità dotata di una saggezza speciale che la pone al di sopra degli altri, dèi e uomini. In procinto di partorire Atena, Zeus, ingannandola con le sue parole, la inghiotte, inglobando con essa anche i consigli che essa è capace di dispensare. In questo modo aggira il rischio che la dea partorisca, dopo Atena, un altro figlio dal «cuore violento», più potente del padre1. Un’altra versione racconta una storia leggermente diversa: Metis, costretta all’unione con Zeus, ricorre a tutta una serie di metamorfosi per sottrarsi al suo abbraccio. Rimasta incinta, viene inghiottita dal padre degli dèi, perché andava dicendo in giro che avrebbe generato un figlio destinato a diventare il signore del cielo23.

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Nemesis tenta di fuggire da Zeus

La dea Nemesis è vittima degli appetiti sessuali di Zeus ai quali si sforza disperatamente di sottrarsi, sopraffatta dalla vergogna (aidos) e dallo sdegno (Nemesis). Braccata dal padre degli dèi, si lancia in una fuga disperata per terra e per mare, mutando più volte aspetto e prendendo di volta in volta la forma di quante sono le fiere che la terra nutre. Altri raccontano che anche Zeus fu costretto a trasformarsi per unirsi a lei e che la raggiunse infine, prendendo la forma di un cigno unendosi a lei che si era mutata in oca. Il frutto di questa unione fu, secondo alcuni, la bella Elena. Dall’accoppiarsi dei due dèi trasformati in uccelli, nella schermaglia amorosa, venne fuori un uovo che, custodito da Leda, diede infine alla luce Elena. Altri ancora invece sostituiscono alla dea Nemesis, il nome della mortale Leda, alla quale si unì Zeus, prendendo le sembianze di un cigno1.

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Demetra insidiata da Poseidone

Errando alla ricerca della figlia, Demetra fu inseguita dal signore del mare, desideroso di unirsi a lei. La dea mutò il proprio aspetto in cavalla e si mise a pascolare insieme ad altre. Poseidone, scoprendo di essere stato ingannato, mutò anche egli il suo aspetto nella forma di un cavallo per accoppiarsi finalmente alla dea che s’infuriò per l’accaduto1.

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Unione tra Peleo e Teti

Teti non farà mistero di fronte ad Efesto dell’umiliazione subita, per essere stata obbligata a unirsi a un mortale. Erano stati Zeus e Poseidone infatti che, pur attratti dall’Oceanide, stabilirono di darla in moglie a Peleo, dopo essere stati avvertiti da Themis che avrebbe concepito un figlio più forte del padre. Mentre Peleo la tiene stretta, la dea si trasforma in fuoco, in acqua, in belva feroce, finché, ripreso il suo aspetto, non può che cedere alle nozze1.

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Fuga di Antiope

Antiope era figlia del tebano Nitteo. Di lei si invaghì Zeus che trasformatosi in satiro s’introdusse furtivamente nel suo letto. La fanciulla fu costretta a fuggire a Sicione a causa delle minacce del padre. Dall’unione con il padre degli dèi nacquero due gemelli, ma la fanciulla fu costretta a fuggire da Tebe, gettando il padre nella disperazione e portandolo al suicidio1.

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Stupro e castigo di Io

Io, sacerdotessa di Era, fu violentata da Zeus (phtheirein) che, scoperto dalla sua sposa, si affrettò a giurare di non averla tradita e toccandola la trasformò in una giovenca di colore bianco. Era chiese dunque a Zeus che le consegnasse la giovenca e le diede come guardia il fortissimo Argo Panopte. Grazie all’aiuto di Hermes che uccise con una pietra Argo, Io cominciò una fuga per terre e per mare e, una volta giunta in Egitto, riacquistò la vecchia forma e diede alla luce, sulle rive del Nilo, Epafo1.

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Castigo di Cassandra

La troiana Cassandra, giovane figlia di Priamo e di Ecuba, rifiutò di unirsi al dio Apollo che le aveva insegnato l’arte della mantica. Come ritorsione, il dio tolse credibilità ai suoi vaticini. Nel corso dell’assedio a Troia, fu inseguita e violentata dal locrese Aiace sotto la statua di Atena che, incapace di sostenere la vista della scena, volse indietro gli occhi. Nelle Troiane di Euripide, all’interno di un drammatico confronto tra Atena e Poseidone, la dea spiega il suo sdegno nei confronti degli Achei che fino ad allora aveva sostenuto, perché non punirono mai l’eroe per l’atto di hybris commesso nei suoi confronti e all’interno del suo santuario1.

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Lo stupro di Lucrezia e lo spazio della casa

Durante l’assedio di Ardea, città dei Rutuli, gli ufficiali più in vista dell’esercito, tra cui Sesto Tarquinio, figlio del re, e il suo congiunto Tarquinio Collatino, prendono a discutere su chi di essi abbia la moglie più casta. La discussione si anima e Collatino invita i commilitoni a verificare in prima persona la superiorità della sua Lucrezia su tutte le altre. In effetti, mentre le nuore del re vengono sorprese nel pieno di un festino e in compagnia di coetanee, Lucrezia è seduta in piena notte al centro dell’atrio, impegnata a filare la lana insieme alle serve. Collatino si aggiudica così la gara delle mogli. È in quel momento che Sesto Tarquinio, eccitato dalla bellezza e dalla provata castità di Lucrezia, viene preso dalla smania di averla a tutti i costi. Così, qualche giorno dopo Sesto torna nella casa di Collatino; di notte, quando capisce che tutti sono sprofondati nel sonno, sguaina la spada e si reca nella stanza di Lucrezia, immobilizzandola con la mano puntata sul petto. Vedendo però che la donna è irremovibile e non cede nemmeno di fronte alla minaccia della morte, aggiunge all’intimidazione il disonore e si dice pronto a sgozzare un servo e a porlo, nudo, accanto a lei dopo averla uccisa, perché si dica che è morta nel corso di un infamante adulterio. Con questa minaccia, la libidine di Tarquinio ha la meglio sull’ostinata castità di Lucrezia. L’indomani, la matrona manda a chiamare il padre e il marito, pregandoli di venire accompagnati da un amico fidato. Arrivano così Spurio Lucrezio con Publio Valerio, Collatino con Lucio Giunio Bruto. Alla vista dei congiunti, Lucrezia racconta la propria vicenda, quindi induce i presenti a giurare che Tarquinio non resterà impunito. Tutti formulano il loro giuramento, poi cercano di consolare la donna; ma Lucrezia, afferrato il coltello che tiene nascosto sotto la veste, se lo pianta nel cuore e crolla a terra esanime1.

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Morte di Virginia

Quanto al mito di Virginia, la ragazza uccisa dal padre per sottrarla alle voglie colpevoli del decemviro Appio Claudio, il quale ha ordito un inganno per impadronirsi della vergine, in uno dei passaggi del racconto la vediamo muoversi nel Foro, ma è significativo che le fonti sentano il bisogno di motivare tale presenza: c’erano lì degli spazi adibiti a scuole. Inoltre, la ragazza è accompagnata dalla nutrice; e un po’più avanti il fidanzato Icilio, quando apostrofa il decemviro, afferma tra l’altro: «La fidanzata di Icilio non rimarrà fuori della casa di suo padre»1. Quando poi, prima del processo2, Virginio porta con sé nel Foro la figlia, questa è accompagnata da un certo numero di matrone e da molti difensori; di lì a poco però quella folla arretra, intimidita dall’atteggiamento violento di Appio Claudio, e la vergine resta in piedi, preda abbandonata all’oltraggio. È a questo punto che il padre, vista svanire ogni speranza di salvezza, chiede di portare un momento con sé la figlia verso il tempio della dea Cloacina e lì la uccide, per garantirne la libertà nell’unico modo in cui era possibile3. In quella situazione non solo le donne che le erano vicine, ma neppure i concittadini potevano assicurarle che la pudicizia di Virginia fosse rispettata, e quindi la ragazza non poteva più aspirare a ricoprire il ruolo che il suo statuto di vergine prescriveva e che aveva il suo preciso posto nella vita della comunità .

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Appio Claudio attenta alla verginità di Virginia

Il decemviro Appio Claudio è preso dal desiderio di violare una vergine plebea di straordinaria bellezza, figlia di Lucio Virginio. Appio tenta dapprima di sedurre la ragazza con l’offerta di un compenso, ma, ostacolato dal pudore di lei, sceglie di ricorrere alla violenza. Incarica un suo cliente di dichiarare che la vergine era figlia di una sua schiava e dunque di sua proprietà. Quello obbedisce, ma dal momento che una gran folla accorre per impedire quell’ingiustizia, il cliente cita la ragazza in giudizio presso il tribunale di Appio, il quale acconsente a che l’uomo la conduca a casa sua. Ma Icilio, cui la giovane era promessa, protesta e ottiene che sia mandato a chiamare il padre di lei, impegnato in una campagna di guerra. Intanto Appio stabilisce che Virginia sia data in schiava a chi la rivendica. Virginio chiede allora un momento perché, in disparte con la figlia, possa interrogare la nutrice sulla sua nascita. Conduce quindi la giovane nei pressi delle Botteghe nuove e, afferrato un coltello, le trafigge il petto. I Romani piansero il delitto di Appio, la funesta bellezza della fanciulla e l’ineluttabile decisione paterna1.

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Marte possiede Rea Silvia

Un mattino, la Vestale Silvia si reca ad attingere l’acqua per i riti sacri. Giunta al ruscello, stanca e accaldata, siede all’ombra di alcuni salici, finendo per assopirsi. Marte la vede, la desidera e la possiede, pur se col suo potere divino nasconde quell’atto furtivo. Silvia si sveglia in preda al languore, e non ne comprende le ragioni. Non sa, infatti, di essere già incinta e di portare in grembo il fondatore della rocca romana1.

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Tentativo di stupro di Gitone

Encolpio è appena tornato alla pensione dove alloggia col suo amico Ascilto quando vede Gitone seduto in un angolo del letto ad asciugarsi le lacrime. «Che succede?», gli chiede preoccupato. Ma il ragazzo non fiatava. Solo dopo che Encolpio lo ha pregato, mescolando le suppliche alla collera, Gitone, suo malgrado, parla: «Questo tuo amico qui presente è tornato di fretta poco prima di te e ha tentato di portarmi via con la forza il pudore. E poiché io mi son messo a gridare, ha impugnato una spada e mi ha detto: “Se credi di essere Lucrezia, hai trovato il tuo Tarquinio!”». «Che hai da dire a tua discolpa?», ruggisce Encolpio. Quello fa spallucce: «Pensa a te, piuttosto, che, per Ercole, pur di essere invitato a cena fuori, ti sei messo a lodare quel poetastro di Agamennone!». Così, da una terribile lite, i due scoppiano in una grassa risata. Ma quando Encolpio si ricorda dell’affronto che Gitone ha subìto, gli è chiaro che con Ascilto non si possa più andare d’accordo1.

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Ascilto rischia la violenza sessuale

Encolpio era stato trascinato per sbaglio in un lupanare e stava per andarsene. Ma ecco che gli pare di vedere l’amico Ascilto tutto trafelato e col fiatone. «Che cosa ci fai qui?», gli chiede. E quello, asciugandosi il sudore: «Ah, sapessi cosa mi è accaduto! Mi ero perso e non sapevo più tornare all’ostello, quando un padre di famiglia si offre assai cordialmente di farmi da guida. Ma, imboccati una serie di vicoli angusti e oscuri, mi porta fin qui e, offertomi del denaro, inizia a chiedermi del sesso. La stanza era già pronta e lui già mi aveva messo le mani addosso, e se non fossi stato più robusto di lui, mi avrebbe castigato per bene»1.

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Un processo per stupro

Marco Claudio Marcello cita in giudizio il tribuno della plebe Gaio Scantinio Capitolino per aver importunato suo figlio, trascinandolo nel disonore dello stupro. Scantinio ribatte che non possono costringerlo a presentarsi, poiché gode dell’immunità che la sua carica gli conferisce, e chiede l’aiuto dei suoi colleghi perché lo appoggino. Ma quelli si rifiutano di intervenire. Quando il giovane è chiamato a testimoniare, tiene gli occhi fissi a terra e non proferisce parola. Col suo verecondo silenzio contribuisce più che con ogni altra cosa alla sua vendetta. Scantinio, infatti, con la sola testimonianza di colui che aveva cercato di adescare, viene condannato1.

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Stupri in occasione dei baccanali

La diffusione dei riti in onore di Bacco preoccupa il console Postumio, che decide di svolgere delle indagini. Scopre allora che le cose erano degenerate da quando la sacerdotessa Paculla Annia aveva cambiato il rito da diurno in notturno e aveva preso a iniziare al culto anche gli uomini. In tale promiscuità, allorché i maschi erano mescolati alle femmine e il favore della notte stimolava la licenza più sfrenata, nessuna infamia era vietata. La maggior parte degli stupri erano commessi dagli uomini tra loro piuttosto che sulle donne; e se qualcuno era meno disposto a sopportare il disonore o più svogliato al delitto veniva sacrificato. Negli ultimi anni si era perfino stabilito che non fosse iniziato nessuno al di sopra dei vent’anni, poiché si riteneva che i ragazzi di quell’età fossero più disposti a tollerare lo stupro1.

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Quartilla si approfitta di Encolpio, Ascilto e Gitone

La libidinosa Quartilla ha affittato per un giorno l’intera pensione dove Encolpio, Ascilto e Gitone alloggiano, ordinando che nessuno li disturbi, desiderosa, a suo dire, di iniziarli ai riti orgiastici di Priapo. I tre sono quindi in trappola, circondati da lei e dalle sue ancelle vogliose. Preoccupato per i possibili esiti, Encolpio non riesce a proferir parola. Potrebbe urlare, ma sa che nessuno sarebbe accorso in loro aiuto. Lo conforta però il fatto di essere in compagnia. Del resto, quelle sono solo tre donnicciole, e certamente assai deboli: se mai avessero voluto tentare un qualche assalto, sarebbe stato facile avere la meglio; se la sarebbero vista contro di loro, che, se non altro, erano di sesso maschile e avevano anche il vantaggio di indossare abiti più succinti, che garantivano ampiezza di movimenti; e se mai si fosse arrivato a combattere, sarebbero stati comunque tre contro tre1.

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Metamorfosi di Cenide, da femmina a maschio

Giovane e ambita principessa tessala, Cenide accende con la sua bellezza il desiderio di Nettuno ed è costretta a subirne la violenza. Il dio del mare per ricompensarla le offre di regalarle ciò che più desidera, e la ragazza chiede di non esser più donna per non dover sopportare nuovamente lo stesso destino; Nettuno le concede così il grande dono della metamorfosi in uomo, a cui aggiunge di suo anche quello dell’invulnerabilità. Divenuta Ceneo, Cenide inizia dunque una nuova vita come giovane eroe; dotato di un corpo capace di resistere alle aggressioni e addirittura impenetrabile a qualsiasi tipo di ferita, il giovane ben presto sperimenta i vantaggi della sua nuova identità: nella battaglia contro i Centauri tiene valorosamente testa all’immane violenza dei suoi avversari. Nonostante la loro incredulità, che li spinge a ricordare con disprezzo il suo passato di ragazza e a schernirlo come “mezzo uomo”, l’eroe dà prova di straordinaria virilità. I Centauri riusciranno ad avere la meglio su di lui soltanto attaccandolo in gruppo: il giovane Ceneo finirà allora per scomparire sotto il gigantesco cumulo di tronchi di albero che essi gli scagliano contro1.

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Ippolito muore travolto dai propri cavalli

Ippolito, figlio di Teseo e di un’Amazzone, benché oramai in età da matrimonio, preferisce starsene in disparte dalle femmine e continuare a cacciare nei boschi in compagnia degli amici di scorribande, di cavalli e di cani1. Per Ippolito il rifiuto di ogni esperienza erotica è una scelta consapevole e un motivo di vanto. Offesa per il disprezzo che il ragazzo manifesta nei confronti della sua sfera di potere, Afrodite destina il ragazzo a essere oggetto di una passione incontenibile da parte di chi meno avrebbe dovuto desiderarlo, ossia Fedra, giovane moglie di Teseo. Inorridito da questa passione, Ippolito rifiuta le avances della matrigna che, per vendicarsi, lo denuncia al padre accusandolo di averla violentata. Teseo maledice il figlio, invocando Poseidone, che in questo modo realizza la preghiera del padre: mentre Ippolito corre in riva al mare sul suo carro, un toro esce dalle onde terrorizzando i cavalli. Alle giumente rese ingovernabili dalla paura, Ippolito rivolge poche disperate parole, cercando di calmarle «Fermatevi, non mi uccidete, creature allevate alla mia mangiatoia!»2. Ma il carro esce di strada e Ippolito, intrappolato nelle briglie, è fatto a pezzi.

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Protezione contro il dio Silvano

(Varrone) ricorda che tre dèi sono impiegati a protezione della donna sgravata affinché il dio Silvano non entri durante la notte per farle violenza. Afferma che per indicare i tre dèi protettori, tre uomini di notte girano attorno al limitare della casa, e che dapprima percuotono il limitare con la scure, poi col pestello, e infine la spazzano con la scopa. Così mediante tre segni della coltura si proibirebbe al dio Silvano di entrare, perché gli alberi non si tagliano o potano senza la scure, la farina non si ottiene senza il pestello, le biade non si ammucchiano senza la scopa. Da questi tre oggetti sarebbero stati denominati i tre dèi, Intercidona dal taglio della scure, Pilunno dal pestello e Deverra dalla scopa. Con la loro protezione si difenderebbero i neonati dalla violenza del dio Silvano1.

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Odisseo e le pene infernali

Nell’XI libro dell’Odissea1, Odisseo non solo evoca le ombre dei morti, ma ha anche una visione dell’Hades. Egli vede infatti anche il gigante Tizio, colpevole di aver violentato Leto, madre di Apollo e Artemide: egli giace disteso mentre due avvoltoi gli rodono il fegato. Il vecchio Tantalo, invece, soffre la fame e la sete pur essendo immerso in un lago sul quale si protendono alberi carichi di frutti, poiché ogni volta che tenta di bere o di mangiare l’acqua si ritira e i rami si allontanano. Di Tantalo Omero non racconta la colpa, tramandata invece da Pindaro2: secondo la versione più diffusa egli avrebbe imbandito la carne del figlio Pelope agli dèi. Il terzo eroe condannato a una pena senza fine è Sisifo, obbligato a spingere un enorme masso sul pendio di una collina dalla quale ricade ogni volta che ha raggiunto la sommità. Anche in questo caso Omero tace la colpa di Sisifo, che ci è invece svelata dallo storico Ferecide3, secondo il quale egli, unico tra i mortali, sarebbe sfuggito temporaneamente al mondo dei morti, e in seguito sarebbe riuscito a imprigionare addirittura Thanatos (il dio “morte”) .

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Colpa di Laio, e divieto di diventare padre

Labdaco, re di Tebe, muore quando il figlio Laio ha appena un anno. Il trono della città è quindi occupato da Lico e poi dai gemelli Anfione e Zeto, che scacciano Laio; questi si rifugia allora a Pisa, nel Peloponneso, come ospite di Pelope, il quale gli affida il figlio Crisippo. Mentre Laio insegna al bambino a condurre il carro, viene preso da desiderio e gli fa violenza, inducendolo a uccidersi1. Pelope maledice Laio, augurandogli di non avere discendenti o, se dovesse generarne, di essere ucciso dal figlio2. Laio sposa Giocasta, ma nonostante l’oracolo di Apollo gli ripeta di astenersi dall’unirsi a lei per evitare la morte e salvare la città di Tebe, Laio trasgredisce l’ordine: vinto dai suoi impulsi e dalla mancanza di volontà, finisce per generare un figlio, Edipo3.

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Nascita di Erittonio

Quando Atena si reca da Efesto per chiedergli delle armi, il dio viene preso dal desiderio di possedere la dea guerriera e la insegue. Ma Atena è più veloce ed Efesto non riesce a raggiungerla; il suo seme allora viene sparso sulla coscia della dea. Atena si pulisce con una pezza di lana dal seme di Efesto e lo getta nella terra. Da questo seme Gaia concepisce un essere, Erittonio, che Atena raccoglie e del quale fa una sorta di figlio adottivo1.

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Bruto partecipa alla fondazione della repubblica

Bruto è figlio di una sorella di Tarquinio il Superbo; questi gli uccide il padre e il fratello, ma Bruto riesce a sfuggire alla follia omicida del sovrano fingendosi sciocco ed entra persino in intimità con i figli del re, che lo considerano il proprio zimbello. Più tardi, Bruto vendica lo stupro commesso da Sesto Tarquinio, figlio del Superbo, sulla castissima Lucrezia guidando la rivolta che conduce all’abbattimento della monarchia, per diventare infine membro della prima coppia consolare che guida la neonata repubblica. Quando viene a sapere che una vasta trama, mirante a riportare Tarquinio sul trono di Roma, ha coinvolto anche i suoi figli Tito e Tiberio, Bruto ne dispone l’immediata messa a morte e assiste personalmente all’esecuzione dei due giovani; e mentre tutti i presenti cedono alla commozione, il solo console mantiene un’espressione imperturbabile1.

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Fedeltà coniugale di Lucrezia

Al tempo del re Tarquinio il Superbo alcuni ufficiali romani impegnati nell’assedio di Ardea decidono di montare a cavallo e di piombare a Roma e a Collazia – il piccolo centro da cui viene uno di essi, Lucio Tarquinio Collatino – per verificare come le loro donne trascorrano il tempo in assenza dei mariti. Ma mentre le altre mogli vengono sorprese nel mezzo di sontuosi banchetti in compagnia delle proprie coetanee, la sola moglie di c, Lucrezia, siede a tarda notte al centro dell’atrio, circondata dalle ancelle e impegnata nella filatura della lana. La bellezza e la castità di Lucrezia accendono però in Sesto Tarquinio, uno dei figli del re, il desiderio di possedere la donna. Trascorso qualche tempo, Sesto si presenta nuovamente a Collazia e viene accolto dall’ignara Lucrezia, cui fa violenza durante la notte vincendo la disperata resistenza della donna. L’indomani Lucrezia convoca i familiari e spiega loro l’accaduto, quindi si trafigge con un pugnale1.

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Lo zio materno interviene nella vicenda di Virginia

La vicenda è ambientata alla metà del V secolo a.C., quando a Roma le magistrature ordinarie vengono sospese e tutti i poteri sono conferiti a una commissione di dieci uomini incaricata di redigere un codice scritto di leggi, le future XII Tavole. Appio Claudio, la figura più eminente del collegio decemvirale, si invaghisce della bella Virginia, orfana di madre, e per goderne i favori costringe un proprio cliente a rivendicare la ragazza come sua schiava, approfittando del fatto che il padre della ragazza, Virginio, è impegnato con l’esercito in una campagna di guerra. Lo zio materno di Virginia, Numitorio, entra in gioco in tre momenti diversi del racconto: prima quando la ragazza cerca rifugio presso di lui per sottrarsi ai maneggi di Appio; poi quando avverte Virginio del pericolo che incombe sulla figlia; infine, dopo che Virginia è stata trafitta a morte dal padre come unico mezzo per serbarne inviolata la pudicizia, quando insieme con il promesso sposo della ragazza, Icilio, promuove una rivolta popolare mostrando alla folla il cadavere della vergine e sottolineando la particolare odiosità del crimine di cui Appio si era macchiato1.

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Rea Silvia e lo zio Amulio

Dopo essersi impadronito del regno, Amulio impone alla figlia del fratello il sacerdozio di Vesta, che comportava l’obbligo della verginità, e uccide durante una battuta di caccia il figlio di Numitore. Il ruolo di patruus ricoperto da Amulio diventa rilevante allorché la Vestale subisce violenza dal dio Marte e rimane incinta dei futuri fondatori di Roma: mentre infatti Numitore cerca in ogni modo di prendere tempo, suggerendo di attendere il parto per verificare che nascano effettivamente due gemelli, come il dio aveva profetizzato, Amulio è mosso invece da un’ira incontenibile e impone che Ilia venga battuta a morte con le verghe, poiché ha macchiato il suo corpo di sacerdotessa1. Non mancano tuttavia versioni della storia nelle quali proprio ad Amulio era addebitata la violenza contro la donna, che il re avrebbe aggredito assumendo l’aspetto del dio Marte; i due gemelli sarebbero dunque frutto di una relazione incestuosa. Questa variante rientra nella caratterizzazione di Amulio come tiranno, dato che l’ethos del despota trova proprio nell’infrazione delle norme relative alla sessualità il suo campo privilegiato di espressione; d’altro canto, essa rappresenta il totale rovesciamento del ruolo di custode dell’integrità sessuale dei figli del fratello tradizionalmente attribuito allo zio paterno .

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Incesto tra Fauno e Fauna

Tra i molteplici aspetti della sua identità divina Fauno esprime anche quello di una sessualità onnivora e insofferente verso ogni limite; non stupisce dunque che avesse desiderato unirsi anche alla figlia Fauna. Quest’ultima però era nota per la sua ritrosia, al punto da evitare ogni contatto con gli uomini; persino il suo nome era ignoto a tutti, anzi pronunciarlo era vietato, ragione per cui era conosciuta semplicemente attraverso la perifrasi “Buona Dea”; oppone dunque una tenace resistenza alle pressioni paterne, anche quando il dio la colpisce con un bastone di legno di mirto o la costringe a ubriacarsi perché ceda al suo desiderio; Fauno si trasforma allora in serpente e solo così può unirsi con la figlia1.

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