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Miti

Sacrificio delle figlie di Eretteo

Eretteo, re di Atene, durante la guerra contro gli Eleusini, riceve il responso oracolare secondo il quale, per ottenere la vittoria, deve sacrificare una delle sue figlie. La madre Prassitea induce alla accettazione volontaria del sacrificio eroico per la patria, in quanto fonte di gloria imperitura. Viene sacrificata la figlia più giovane, ma anche le altre, a seguito di un voto, si tolgono la vita1.

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Altalene rituali: miti eziologici di impiccagione e feste femminili

Erigone è la fanciulla figlia dell’ateniese Icario, ucciso da pastori ubriachi. Alla vista del padre morto Erigone si impicca ai rami del pino sotto il quale era stato sepolto il cadavere, e prega che altrettanto facciano le fanciulle Ateniesi fino a che il padre non sia vendicato. E infatti molte fanciulle di Atene vengono trovate impiccate ai rami di pino. Gli Ateniesi allora puniscono i pastori assassini e istituiscono in onore di Erigone, trasformata nella costellazione della Vergine, una festa in cui si appendono manichini ai rami degli alberi1. Carila è una fanciulla di Delfi, che durante una carestia si reca dal re a chiedere un po’di grano. Ma il re la respinge. Carila, umiliata, si impicca e, da quel momento, la carestia aumenta. L’oracolo allora impone l’istituzione di una festa, da tenere ogni nove anni, in cui viene distribuito del grano, e viene sospeso ad un albero un manichino di nome Carila, con un laccio al collo, poi seppellito nel luogo del suicidio della fanciulla2.

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Il filo di Arianna

Figlia del re di Creta Minosse, si era innamorata perdutamente di Teseo, il giovane principe ateniese giunto nell’isola per liberare Atene dal tributo cruento di sette fanciulle e sette fanciulli che ogni anno il Minotauro, un mostro nato dall’unione contro natura della madre Pasifae con un toro, reclamava. Il mostro era richiuso nel labirinto, un palazzo costruito da Dedalo, fatto di stanze e corridoi tanto intricati che, una volta entrati, era impossibile uscirne. Arianna aiuta Teseo nell’impresa di uccidere il suo mostruoso fratellastro, con la promessa di tornare insieme ad Atene e lì sposarsi. Consegna infatti a Teseo un gomitolo di filo da svolgere dall’ingresso del labirinto, sicché l’eroe, dopo avere incontrato e ucciso il Minotauro, può ritrovare agevolmente l’uscita riavvolgendo il filo del gomitolo. Fuggono dunque i due da Creta ma, fatta sosta a Nasso, mentre Arianna dorme, Teseo fugge lasciandola sola e disperata o, secondo altri, è rapita da Poseidone1.

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Il cane Lailaps e la caccia alla volpe

Procri figlia del re di Atene Eretteo sposa Cefalo, giovane cacciatore, ma le cose da subito non vanno bene. Secondo alcune fonti, lei lo tradisce per poi fuggire cercando riparo a Creta, presso Minosse1; il re cretese s’innamora della giovane donna e la seduce, promettendo di donarle un giavellotto dalla traiettoria infallibile e un cane meraviglioso, che era appartenuto a sua madre Europa, cui l’aveva donato Zeus; il cane, forgiato nel bronzo da Efesto e poi magicamente animato, era una di quelle creature immortali che l’artigiano divino sapeva produrre2. Come tutte le creature di Efesto, anche questo cane era perfetto: catturava qualunque cosa inseguisse. Procri – che era un’appassionata cacciatrice – acconsente di avere un rapporto con Minosse e ottiene il cane insieme al giavellotto. Secondo altri testi3, il cane è invece un dono di Diana, che lo regala a Procri per consolarla: la donna infatti era fuggita di casa e si era data a un’esistenza solitaria, dedita alla caccia nei boschi sacri alla dea, perché Cefalo l’aveva ingiustamente accusata di tradimento. Ritornata a casa e riconciliatasi con Cefalo – anche grazie al cane e all’arma prodigiosa, che lui desidera e ottiene – trascorre anni felici cacciando insieme al marito. A un certo punto troviamo Lailaps a Tebe coinvolto nel tentativo di cattura di una volpe straordinariamente astuta e feroce. Secondo alcuni racconti Lailaps era capitato da quelle parti vagando insieme a Cefalo, condannato all’esilio per aver ucciso senza volerlo la moglie in una battuta di caccia (Apollodoro); secondo altri, invece (Ovidio, Antonino Liberale), Cefalo vi era stato chiamato dai Cadmei che, conoscendo l’infallibilità di Lailaps, gli avevano chiesto aiuto contro il feroce selvatico. La volpe aveva tana presso Teumesso e da tempo rapinava impunita non solo le stalle ma anche le culle: i tebani le offrivano ogni mese uno dei loro figli, perché altrimenti ne avrebbe rapiti di più. Nessuno riusciva a catturarla, perché aveva avuto in sorte di sfuggire a chiunque la inseguisse. Lanciato contro la volpe, Lailaps correva come solo lui sapeva fare e la volpe fuggiva come solo lei poteva: l’uno le stava alle calcagna e sembrava sempre sul punto di prenderla, ma l’altra riusciva sempre a sottrarsi, con mille finte e rigiri. L’inseguimento non avrebbe avuto mai fine. Allora Zeus decise di cristallizzare questo prodigio e tramutò cane e volpe in rocce. Secondo alcune fonti Lailaps ottenne invece di essere innalzato in cielo dove divenne la stella Sirio della costellazione del Cane Maggiore45.

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Nascita del minotauro

Mentre Minosse, aspirante al trono di Creta, offriva un sacrificio a Poseidone, per dimostrare ai propri concittadini il proprio legame speciale con il dio gli chiese di far emergere un toro dal mare e promise che glielo avrebbe sacrificato. Poseidone fece allora apparire per lui un toro bellissimo, ma Minosse mandò il toro tra le sue mandrie e ne sacrificò un altro. Riuscì così a diventare re di Creta e fu il primo ad avere il dominio sul mare (la “talassocrazia”), ma il dio, adirato con lui, rese furioso l’animale e fece in modo che Pasifae se ne invaghisse. Innamorata del toro, la regina si fa aiutare dall’ingegnoso Dedalo, fuggito da Atene a causa di un omicidio. Dedalo costruì una vacca di legno e la pose su delle ruote, dentro la face cava, le cucì addosso la pelle di una vacca che aveva scuoiato, la collocò nel prato dove il toro era solito pascolare e vi fece salire Pasifae. Sopraggiunse il toro che si unì a lei come se fosse realmente una vacca. Dopo questa unione, la regina generò Asterio, detto Minotauro, che aveva la testa di toro e il corpo di uomo. In seguito a certi oracoli, Minosse lo rinchiuse, ben custodito, nel celebre labirinto, un edificio costruito da Dedalo che, con i suoi tortuosi corridoi, impediva di trovare l’uscita1.

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Tributo per il minotauro

Non molto tempo dopo Minosse, che aveva il dominio del mare, armò una flotta contro Atene. La guerra si protraeva e Minosse non riusciva a conquistare Atene; allora pregò Zeus di ottenere riparazione dagli Ateniesi: la città fu colpita da carestia e pestilenza1. Per tentare di porre fine all’epidemia, gli Ateniesi, sulla base di una antica profezia celebrarono una serie di sacrifici umani, che però non ebbero alcun esito. Essi pertanto chiesero all’oracolo cosa avrebbero dovuto fare per porre fine al contagio: il dio rispose che avrebbero dovuto subire una pena scelta da Minosse, che impose loro di mandare sette giovani e sette fanciulle, inermi, in pasto al Minotauro. Il Minotauro era rinchiuso in un labirinto, dove colui che entrava non poteva più uscire perché i suoi intricati corridoi impedivano di trovare l’uscita2.

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Teseo e il minotauro

«Teseo salpò alla volta di Creta e vi giunse. La figlia di Minosse, Arianna, si innamora di lui e promette di aiutarlo, a patto che lui acconsenta a portarla ad Atene e a farla sua sposa. Teseo acconsente e giura: allora Arianna chiede a Dedalo di rivelarle il modo di uscire dal labirinto. E su consiglio di Dedalo consegna a Teseo, nel momento in cui entra nel labirinto, un filo; Teseo lo legò alla porta ed entrò tirandoselo dietro. Trovò il Minotauro nella parte più interna del labirinto, lo uccise a forza di pugni, poi, seguendo il filo a ritroso, riguadagnò l’uscita»1.

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Contesa per gli onori ad Atene

Una disputa ha luogo per l’Attica tra Atena e Poseidone: con un colpo di tridente, il dio fa sgorgare un mare sull’Acropoli, ma è Atena, che vi ha piantato l’olivo, che ottiene l’Attica e il diritto di dare il proprio nome alla città di Atene. Per dirimere la contesa tra gli dèi si fa ricorso a uno o più giudici che le differenti versioni identificano con i primi re del paese (Cecrope, Cranao, Erisittone) oppure con i Dodici dèi1. Anche il territorio di Argo è oggetto di disputa, e i giudici sono questa volta Foroneo, figura di fondatore e figlio del fiume Inaco, affiancato da Cefiso e Asterione, divinità fluviali del luogo: questa terra è assegnata ad Era, e Poseidone che gliela contendeva si adira facendo sparire l’acqua dei fiumi2. Nel caso di Corinto, la disputa tra Helios e Poseidone è risolta da una divinità primordiale quale Briareo, che assegna al dio solare la città e l’Acrocorinto (da Helios poi ceduto ad Afrodite), e al sovrano del mare la regione dell’Istmo3. Poseidone e Atena entrano in conflitto anche per la città di Trezene, ed è Zeus stesso questa volta a dirimere la disputa, stabilendo che i due contendenti la possiedano in comune: Atena vi è quindi onorata con il titolo di Polias (“Protettrice della polis”), Poseidone con quello di Basileus (“Re”), e le monete della città hanno come effigie sia il tridente del dio sia il volto della dea4.

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Purificazione di Delo

Nell’inverno del 426/5 a.C. gli Ateniesi, seguendo un oracolo, purificarono Delo: le tombe furono trasferite e si vietò che sull’isola da quel momento si praticassero sepolture o si avessero parti1. Dai tempi di Teseo, Atene mandava ogni anno a Delo la nave Paralo e, fino a quando non fosse ritornata, un’antica legge imponeva che la città si mantenesse pura, evitando le esecuzioni capitali2.

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Epimenide cretese purifica Atene

La città di Atene era vittima di una grave pestilenza. Per purificare la città e guarire dal morbo, fu chiamato da Creta Epimenide. La pestilenza ebbe fine dopo che il purificatore cretese ebbe lasciate libere dall’Areopago, dove le aveva radunate, pecore bianche e nere: ai suoi assistenti disse di sacrificarle al dio del luogo dove si fossero fermate. Secondo un’altra tradizione, Epimenide, individuata la causa della pestilenza nell’eccidio perpetrato qualche decennio prima dalla famiglia degli Alcmeonidi a danno dei seguaci dell’aspirante tiranno Cilone, avrebbe compiuto il sacrificio umano di due giovani, Cratino e Ctesibio, e la sciagura sarebbe passata. Superata la crisi, Epimenide ritornò a Creta senza accettare il denaro che gli offriva la città per la sua prestazione1.

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Sopatro e il sacrificio

Sopatro, un contadino non ateniese che vive nelle campagne dell’Attica, uccide in un eccesso d’ira un bue colpevole di aver calpestato e divorato le incruente offerte sacrificali in onore degli dèi. Consapevole di aver infranto la norma vigente che impedisce di uccidere essere animati, prescrivendo di offrire agli dèi i soli frutti della terra, Sopatro fugge a Creta. Nel frattempo, l’infrazione compiuta dal contadino genera una carestia, e i rappresentanti degli Ateniesi si recano a Delfi per chiedere alla Pizia come porre fine alla sterilità della terra. La profetessa risponde che è necessario richiamare in Attica Sopatro, rimettere in piedi il bue ucciso dopo averne gustato le carni, punire l’uccisore. Rientrato ad Atene, Sopatro chiede di essere ammesso nel novero dei cittadini e si propone per la funzione di abbattitore del bue a patto che tutti i cittadini prendano parte al rito. Gli Ateniesi accettano le sue condizioni. Il bue è sacrificato e le sue carni sono mangiate in un banchetto pubblico; si ricostituisce quindi l’immagine dell’animale con la sua pelle e della paglia, e il bue “resuscitato” è aggiogato a un aratro per riprendere il suo lavoro di aratore, al fianco dell’uomo. Infine, gli Ateniesi istruiscono un processo per l’uccisione dell’animale. La colpa è progressivamente scaricata da tutti i partecipanti al rito, fino a ricadere sul coltello sacrificale (machaira) che, riconosciuto colpevole in quanto incapace di difendersi, viene gettato in mare1.

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Temistocle interpreta l'oracolo di Delfi

Sotto la minaccia incombente dell’invasore persiano, gli Ateniesi inviano messi a Delfi a interrogare Apollo sul da farsi. Ma la Pizia fornisce loro un oracolo terribile, che presagisce rovina e distruzione, senza lasciare scampo alcuno alla popolazione attica: «O sventurati, perché ve ne state qui seduti? Lascia le tue case e le alte cime della tua città dalla rotonda cinta e fuggi agli estremi limiti del mondo». All’udir queste parole, gli inviati Ateniesi restano profondamente turbati, ma uno dei cittadini di Delfi consiglia loro di afferrare dei rami d’ulivo e, presentandosi in veste di supplici, di chiedere alla Pizia un secondo responso. Il nuovo vaticinio è anch’esso più che preoccupante, ma, a differenza del primo, lascia agli Ateniesi una speranza di salvezza: «Quando sarà preso tutto quello che è racchiuso fra il colle di Cecrope [l’acropoli] e l’antro del divino Citerone [ai confini fra Attica e Beozia], l’onniveggente Zeus concede alla Tritogenia [Atena, la dea protettrice di Atene] che solo un muro di legno sia inespugnabile; questo salverà te e i tuoi figli». Soddisfatti del nuovo responso, gli inviati fanno ritorno ad Atene e lo riferiscono all’assemblea, dove questo è discusso tra tutti i cittadini. L’interpretazione delle parole di Apollo suscita un vivo dibattito: anziani (presbyteroi) e cresmologi (“interpreti di oracoli”) ritengono che il “muro di legno”, in cui l’oracolo ha additato l’unica fonte possibile di salvezza, corrisponda alle antiche palizzate di legno che un tempo circondavano l’acropoli, e che pertanto è necessario rifugiarsi sulla parte più alta della città e resistere lì all’attacco persiano; altri, tra cui Temistocle, sostengono che il “muro di legno” della profezia delfica sia la flotta, e che dunque è necessario abbandonare la città e affrontare i Persiani sul mare, nei pressi dell’isola di Salamina. Così come era già accaduto in precedenza, quando aveva convinto i concittadini a utilizzare i proventi delle miniere d’argento scoperte nella regione del Laurio per l’allestimento di nuove navi da guerra, Temistocle riesce a persuadere il popolo ad accogliere la sua interpretazione dell’oracolo. I fatti gli danno ragione: la flotta ateniese sconfigge quella persiana, mentre tutti coloro che si sono rifugiati sull’acropoli finiscono preda dei nemici1.

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Aracne e la tessitura

La giovane Aracne aveva raggiunto una grande reputazione nell’arte di tessere la lana, sorpassando tutte le altre donne della Lidia. Ma, durante una festa, si vantò della sua bravura in modo troppo insolente, giungendo perfino a sfidare Atena. La dea prese allora le sembianze di una vecchia e si recò dalla ragazza per consigliarle di moderare la sua audacia. Ma, avendo visto che Aracne persisteva nel suo atteggiamento, riprese il suo aspetto consueto e decise di accettare la sfida: chi delle due fosse stata la più brava a realizzare una tela su un tema specifico avrebbe vinto. Atena ricamò sulla sua tela la contesa che aveva sostenuto con Poseidone per il possesso di Atene, mentre Aracne vi raffigurò tutti gli amori adulterini consumati tra gli dèi maschi (soprattutto Zeus e Poseidone) e le donne mortali. Furibonda per l’insolenza dimostrata dalla ragazza, che aveva avuto l’ardire di sfidarla, ma anche gelosa per la sua abilità nel ricamo, Atena strappò la splendida tela tessuta da Aracne e la percosse con la spola. Incapace di sopportare l’umiliazione, Aracne si impiccò; la dea allora la trasformò in un ragno, condannandola, insieme ai suoi discendenti, a tessere per sempre le sue tele .

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Il seme di Efesto e la nascita di Erittonio

Un giorno il dio Efesto si infiamma di desiderio per Atena e cerca di possederla. Ma la dea, vergine e temperante, fugge di fronte al dio, che la insegue con difficoltà a causa della sua zoppia. Quando Efesto la raggiunge non riesce comunque a prenderla, ma eiacula nella gamba della dea. Atena, disgustata, asciuga lo sperma con un pezzo di lana e lo getta a terra. Dal seme caduto a terra nasce Erittonio, uno dei primi re di Atene1.

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Miti sulla follia

Poiché il re di Tebe Penteo rifiuta il culto di Dioniso, la madre Agave diviene lo strumento di punizione di tale empietà, per mano del dio. In preda al furore bacchico, infatti, salita sul monte per compiere il rito, scambia Penteo per un cucciolo di leone e, con la bava alla bocca, le pupille che roteano e la mente sconvolta, fa a brani il suo corpo1. Anche le Miniadi, figlie del re di Orcomeno Minia, vengono punite per il medesimo atteggiamento di disprezzo nei confronti di Dioniso: poiché rimangono in casa, intente alla filatura, durante una festa in onore del dio, egli le conduce alla follia mistica fino a portarle all’uccisione del piccolo Ippaso, figlio di una di loro2. In un altro mito, Era tormenta con un pungolo Io, di cui Zeus si è invaghito, e la costringe a un folle vagabondaggio3. Ancora inviata da Era per gelosia è la follia di Eracle, nato dall’unione di Zeus e Alcmena: l’eroe è fuori di sé, con le pupille iniettate di sangue e la bava alla bocca; corre ansimando su e giù per le stanze e, credendo di avere davanti a sé i figli di Euristeo, agli ordini del quale ha compiuto le fatiche, uccide a uno a uno i figli, con le frecce del suo arco o fracassando loro il capo con la clava. Sul punto di uccidere il proprio padre, viene però colpito al petto da Atena, che lo induce al sonno. Ritornato alla ragione, al suo risveglio Eracle non trova altra via d’uscita al suo folle gesto che il suicidio, ma viene salvato da Teseo, che lo conduce con sé ad Atene (Euripide, Herc.). Infine, anche quella di Aiace Telamonio è follia omicida, come per Eracle. Venuto a contesa con Odisseo per il possesso delle armi di Achille e dopo la vittoria di quest’ultimo, Atena lo fa impazzire. Aiace compie un massacro di greggi credendo di uccidere i compagni achei, per vendicarsi del torto subito; una volta rientrato in sé, lo prende un dolore ancora più grande, tanto che, per lavare l’onta e allontanare la vergogna del gesto compiuto, si trafigge con la propria spada4.

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La volpe di Teumesso e il paradosso della caccia

La località di Teumesso, in Beozia, era infestata da una volpe mostruosa, che divorava qualunque preda e sfuggiva a qualsiasi tentativo di cattura; si trattava, infatti, di un animale magico, inviato da Dioniso per punire i Tebani. Anfitrione, divenuto re di Tebe, si impegna a debellare il mostro e a questo scopo va a chiedere aiuto al re della vicina Atene, Cefalo, che dispone di un’arma formidabile: un cane chiamato Lailaps, "Bufera". Anche questo era un animale magico, che la moglie di Cefalo, Procri, aveva ricevuto in dono da Minosse, o secondo altre versioni dalla dea Artemide: Bufera aveva la facoltà di catturare qualunque preda inseguisse. Cefalo, quindi, andò in soccorso di Anfitrione e si recò nella piana di Teumesso, dove lanciò Bufera all’inseguimento della volpe. A questo punto, però, le due bestie si trovarono imprigionate in una corsa senza sosta: la volpe non poteva essere raggiunta, ma continuava a essere inseguita dal cane che la incalzava; il cane non poteva mancare la preda, ma d’altro canto non riusciva mai a raggiungere la volpe che era imprendibile. Zeus allora intervenne, pietrificando entrambi gli animali1.

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Egeo e Teseo: l’oracolo oscuro di Delfi

Egeo, re di Atene, aveva sposato due donne, ma nessuna delle due era riuscito a dargli un figlio. Recatosi a Delfi, chiese ad Apollo se sarebbe mai divenuto padre. E la Pizia gli rispose così: «O tu che sei il più forte degli uomini, non sciogliere il piede che sporge dall’otre prima di essere ritornato sulla rocca di Atene». Egeo ritornò a casa senza aver capito il significato dell’oracolo. Ma ci fu qualcuno che lo capì immediatamente: sulla via del ritorno, il sovrano ateniese si fermò a Trezene, a casa del re Pitteo. Quando seppe del misterioso vaticinio, questi comprese subito che cosa aveva voluto dire il dio Apollo: fece ubriacare il suo ospite e disse alla figlia Etra di unirsi a lui. Il frutto di quella notte d’amore fu Teseo, l’eroe ateniese per eccellenza – che, molti anni dopo, provocò la morte del padre: quando, dopo aver ucciso il Minotauro, Teseo salpò dall’isola di Creta per tornare ad Atene, si dimenticò di ammainare le vele nere della sua nave e di sostituirle con le vele bianche (come aveva promesso di fare se l’impresa avesse avuto successo); quando il padre, che aspettava con ansia il ritorno di suo figlio, vide in lontananza le vele nere, si gettò per la disperazione nel mare che, in suo onore, sarebbe stato chiamato Egeo.

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