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Vecchiaia della Sibilla

Mentre guida Enea attraverso l’Averno, la Sibilla racconta la sua storia. Febo, innamoratosi di lei, le offriva in cambio del suo amore qualunque cosa desiderasse. Allora la Sibilla raccolse un mucchio di polvere e chiese tanti anni quanti erano i granelli in quella manciata. Una dimenticanza, però, le fu fatale: non ricordò di precisare che quegli anni dovevano essere di gioventù. Di certo Febo le avrebbe concesso una perenne giovinezza, se solo la Sibilla avesse accettato l’amore che invece rifiutò. «E ormai – continuò – l’età più felice mi ha voltato le spalle e la gravosa vecchiaia avanza col suo passo tremante. Ho vissuto sette secoli e ancora mi attendono trecento estati e trecento autunni. Verrà il momento in cui il mio corpo si rattrappirà e la vecchiaia consumerà le mie membra riducendole a un mucchietto d’ossa. Allora chiunque dubiterà che io sia piaciuta a un dio»1.

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Camilla: le donne e la passione per l'oro

Tra gli uomini che, nel Lazio, prendono parte alla guerra contro Enea c’è anche una donna, Camilla, che guida un’ala di cavalieri e truppe rivestite di bronzo. Costei, una vergine, non è avvezza, nonostante le mani femminili, alla navetta e al fuso di Minerva, ma a sopportare le dure battaglie e a superare perfino i venti nella corsa campestre. Fu assai valorosa in guerra, finché non venne fuori la sua natura di donna. Quando in campo aperto, fra tutti i nemici, vide Cloreo brillare nella sua armatura frigia, splendente di fibbie d’oro, aureo il suo arco, aureo anche l’elmo, solo lui voleva catturare, lui solo inseguiva, nella mischia di guerra, desiderosa di indossare l’oro predato al nemico, prezioso bottino di guerra. Così, accecata da quell’oro e incauta, ardeva per una passione femminile. Di quella distrazione approfittò Arrunte: scaglia la lancia mirando alla vergine, e il suo colpo va a segno. Febo gli concede di abbattere la confusa Camilla. Lei si accascia dolente, le armi l’abbandonano e la sua vita fugge via tra le ombre1.

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Iapige, medico per amore

Iapige, figlio di Iaso, fra tutti era il preferito di Febo. Il dio, preso da intenso amore, gli offrì in dono le sue arti: la divinazione, la cetra e le rapide frecce. Ma Iapige, per prolungare il tempo che rimaneva a suo padre, ormai in fin di vita, preferì conoscere le proprietà terapeutiche delle erbe e apprendere la pratica curativa. Apollo acconsentì e Iapige divenne un abile guaritore, in grado di curare ogni patologia grazie all’arte magistrale a lui donata dal dio1.

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La guarigione miracolosa di Enea

Nel bel mezzo della battaglia, una freccia trafigge Enea. L’eroe perde sangue e avanza a fatica sorreggendosi sulla lancia. Iapige si adopera invano con la sua mano curativa e le potenti erbe di Febo e invano cerca di rimuovere con la pinza la punta del dardo. Venere allora, scossa per l’immeritata sofferenza del figlio, coglie sull’Ida cretese il dittamo, uno stelo folto di foglie che in cima ha una chioma di fiori purpurei, lo infonde nelle acque di un fiume e, impartendo su di esso in segreto un potere teurgico, vi spruzza un succo di salubre ambrosia e profumata panacea, un’erba usata come rimedio contro ogni male. Iapige, ignaro, cura la ferita con l’acqua di quella fonte e subito ogni dolore fugge dal corpo di Enea e l’emorragia si arresta. La freccia viene via senza sforzo, quasi seguendo la mano, ed Enea recupera le energie. Lo stesso medico avverte come dietro le sue mani agisca l’opera di un dio1.

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Esculapio salva Ippolito

Quando Ippolito, in seguito alla maledizione del padre, cade dal carro e muore sfracellandosi contro le rocce, l’indignazione della dea Diana, che lo ama molto, è grande. Allora Esculapio, mosso a pietà, subito estrae le sue erbe, tocca tre volte il petto del ragazzo e tre volte pronuncia parole salutifere. Così Ippolito solleva il capo da terra e gli viene restituita la vita. E perché un simile dono non susciti invidia, Diana gli aggiunge anni ulteriori, gli assegna un volto irriconoscibile e gli impone il nome di Virbio, che significa “uomo per due volte” (bis vir). Giove però, temendo che quell’atto sia di cattivo esempio, perché sminuisce le leggi degli inferi, scaglia un fulmine contro Esculapio, che ha osato superare i limiti della propria arte. Ma Febo si lamenta di quel castigo e Giove, per placarlo, trasforma Esculapio in un dio1.

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