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Sopatro e il sacrificio

Sopatro, un contadino non ateniese che vive nelle campagne dell’Attica, uccide in un eccesso d’ira un bue colpevole di aver calpestato e divorato le incruente offerte sacrificali in onore degli dèi. Consapevole di aver infranto la norma vigente che impedisce di uccidere essere animati, prescrivendo di offrire agli dèi i soli frutti della terra, Sopatro fugge a Creta. Nel frattempo, l’infrazione compiuta dal contadino genera una carestia, e i rappresentanti degli Ateniesi si recano a Delfi per chiedere alla Pizia come porre fine alla sterilità della terra. La profetessa risponde che è necessario richiamare in Attica Sopatro, rimettere in piedi il bue ucciso dopo averne gustato le carni, punire l’uccisore. Rientrato ad Atene, Sopatro chiede di essere ammesso nel novero dei cittadini e si propone per la funzione di abbattitore del bue a patto che tutti i cittadini prendano parte al rito. Gli Ateniesi accettano le sue condizioni. Il bue è sacrificato e le sue carni sono mangiate in un banchetto pubblico; si ricostituisce quindi l’immagine dell’animale con la sua pelle e della paglia, e il bue “resuscitato” è aggiogato a un aratro per riprendere il suo lavoro di aratore, al fianco dell’uomo. Infine, gli Ateniesi istruiscono un processo per l’uccisione dell’animale. La colpa è progressivamente scaricata da tutti i partecipanti al rito, fino a ricadere sul coltello sacrificale (machaira) che, riconosciuto colpevole in quanto incapace di difendersi, viene gettato in mare1.

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Creso non riesce a interpretare la profezia di Delfi

Indeciso se attaccare o meno il regno di Persia, Creso, ricchissimo e potentissimo re di Lidia, invia messi a Delfi a interrogare Apollo pitico: «Creso, re dei Lidi e di altre genti, […] chiede se debba marciare contro i Persiani». Per bocca della Pizia, il dio risponde che, intraprendendo la guerra, Creso avrebbe distrutto un grande impero. Certo che l’impero destinato alla distruzione sia quello persiano, Creso ricopre d’oro i Delfi e, per togliersi gli ultimi dubbi sulla spedizione, si rivolge di nuovo all’oracolo, chiedendo «se il suo regno sarebbe stato di lunga durata». Apollo risponde: «Quando un mulo diventerà re dei Medi, allora, o Lido dai piedi delicati, lungo l’Ermo ghiaioso fuggi e non fermarti e non vergognarti di essere vile». La risposta è accolta da Creso con gioia ed entusiasmo: un mulo – pensa – non potrà mai divenire re dei Medi. E questo significa che il suo regno non avrà certo fine con la guerra contro i Persiani. Fiducioso, il re lidio dà inizio alle ostilità, ma l’esito della guerra è disastroso: duramente sconfitto e per di più fatto prigioniero dai nemici, Creso è condannato al rogo e solo l’intervento di Apollo, che invia dal cielo una pioggia improvvisa, riesce a salvarlo dalle fiamme ordinate da Ciro. Conquistatasi la simpatia del re persiano per essere uomo caro agli dèi, Creso ottiene il permesso di inviare messi a Delfi per recare come offerta le sue catene di prigioniero e chiedere se gli dèi greci siano generalmente così ingrati verso i loro benefattori più generosi. La risposta della Pizia non si lascia attendere. Innanzitutto, la sconfitta di Creso era già stata predetta tempo prima da un oracolo delfico, che aveva preannunciato che la dinastia mermnade si sarebbe estinta al quarto discendente di Gige, ossia Creso. Inoltre, i vaticini resi da Apollo al re lidio si sono entrambi realizzati. Muovendo guerra contro i Persiani, Creso ha effettivamente distrutto un grande impero: il suo. In quel momento, un mulo era realmente re dei Medi: si trattava di Ciro, figlio di una principessa persiana (la cavalla) e di un uomo di rango inferiore (l’asino). Apollo ha detto a Creso la verità; è stato Creso a non comprenderla, dimostrandosi interprete per nulla saggio e accorto1.

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Temistocle interpreta l'oracolo di Delfi

Sotto la minaccia incombente dell’invasore persiano, gli Ateniesi inviano messi a Delfi a interrogare Apollo sul da farsi. Ma la Pizia fornisce loro un oracolo terribile, che presagisce rovina e distruzione, senza lasciare scampo alcuno alla popolazione attica: «O sventurati, perché ve ne state qui seduti? Lascia le tue case e le alte cime della tua città dalla rotonda cinta e fuggi agli estremi limiti del mondo». All’udir queste parole, gli inviati Ateniesi restano profondamente turbati, ma uno dei cittadini di Delfi consiglia loro di afferrare dei rami d’ulivo e, presentandosi in veste di supplici, di chiedere alla Pizia un secondo responso. Il nuovo vaticinio è anch’esso più che preoccupante, ma, a differenza del primo, lascia agli Ateniesi una speranza di salvezza: «Quando sarà preso tutto quello che è racchiuso fra il colle di Cecrope [l’acropoli] e l’antro del divino Citerone [ai confini fra Attica e Beozia], l’onniveggente Zeus concede alla Tritogenia [Atena, la dea protettrice di Atene] che solo un muro di legno sia inespugnabile; questo salverà te e i tuoi figli». Soddisfatti del nuovo responso, gli inviati fanno ritorno ad Atene e lo riferiscono all’assemblea, dove questo è discusso tra tutti i cittadini. L’interpretazione delle parole di Apollo suscita un vivo dibattito: anziani (presbyteroi) e cresmologi (“interpreti di oracoli”) ritengono che il “muro di legno”, in cui l’oracolo ha additato l’unica fonte possibile di salvezza, corrisponda alle antiche palizzate di legno che un tempo circondavano l’acropoli, e che pertanto è necessario rifugiarsi sulla parte più alta della città e resistere lì all’attacco persiano; altri, tra cui Temistocle, sostengono che il “muro di legno” della profezia delfica sia la flotta, e che dunque è necessario abbandonare la città e affrontare i Persiani sul mare, nei pressi dell’isola di Salamina. Così come era già accaduto in precedenza, quando aveva convinto i concittadini a utilizzare i proventi delle miniere d’argento scoperte nella regione del Laurio per l’allestimento di nuove navi da guerra, Temistocle riesce a persuadere il popolo ad accogliere la sua interpretazione dell’oracolo. I fatti gli danno ragione: la flotta ateniese sconfigge quella persiana, mentre tutti coloro che si sono rifugiati sull’acropoli finiscono preda dei nemici1.

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Creso e il mulo: interpretare l’oracolo di Apollo

La Pizia gli diede questo responso: «Quando un mulo diventerà re dei Medi, allora, o uomo della Lidia dai piedi delicati, sarà meglio per te fuggire lungo il fiume Ermo pieno di ciottoli, senza fermarti, senza vergognarti d’essere un vigliacco». Anziché insospettirsi davanti a una simile risposta, tanto chiara all’apparenza quanto palesemente assurda, il re scelse la strada più semplice: preferì interpretarla alla lettera, per mettersi l’animo in pace. Così facendo, però, Creso non comprese che Apollo aveva parlato in senso metaforico: il termine "mulo" non andava inteso in senso letterale, vale a dire come un animale nato dall’unione di un asino con una cavalla, ma come l’equivalente di "uomo nato da due genitori molto diversi" (nel caso specifico, da un padre umile e da una madre nobile). Come spiega più avanti lo stesso Erodoto, il "mulo" in questione era Ciro, il futuro re dei Persiani: sua madre era una donna meda di stirpe nobile (figlia di Astiage, re dei Medi), mentre suo padre era un semplice cittadino persiano (e, in quel momento, i Persiani erano sottomessi ai Medi) .

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Egeo e Teseo: l’oracolo oscuro di Delfi

Egeo, re di Atene, aveva sposato due donne, ma nessuna delle due era riuscito a dargli un figlio. Recatosi a Delfi, chiese ad Apollo se sarebbe mai divenuto padre. E la Pizia gli rispose così: «O tu che sei il più forte degli uomini, non sciogliere il piede che sporge dall’otre prima di essere ritornato sulla rocca di Atene». Egeo ritornò a casa senza aver capito il significato dell’oracolo. Ma ci fu qualcuno che lo capì immediatamente: sulla via del ritorno, il sovrano ateniese si fermò a Trezene, a casa del re Pitteo. Quando seppe del misterioso vaticinio, questi comprese subito che cosa aveva voluto dire il dio Apollo: fece ubriacare il suo ospite e disse alla figlia Etra di unirsi a lui. Il frutto di quella notte d’amore fu Teseo, l’eroe ateniese per eccellenza – che, molti anni dopo, provocò la morte del padre: quando, dopo aver ucciso il Minotauro, Teseo salpò dall’isola di Creta per tornare ad Atene, si dimenticò di ammainare le vele nere della sua nave e di sostituirle con le vele bianche (come aveva promesso di fare se l’impresa avesse avuto successo); quando il padre, che aspettava con ansia il ritorno di suo figlio, vide in lontananza le vele nere, si gettò per la disperazione nel mare che, in suo onore, sarebbe stato chiamato Egeo.

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