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Miti

Morte di Antigone

La figlia di Edipo ha violato la legge che vieta a ogni cittadino, sotto pena di essere lapidato, di prestare gli onori funebri a Polinice, caduto in battaglia dopo aver marciato contro Tebe. Il divieto è imposto dal re tebano, lo zio Creonte. Ma Antigone di nascosto getta simbolicamente sul cadavere del fratello alcune manciate di terra; colta in flagrante, viene catturata ed è trascinata al cospetto di Creonte. Il sovrano ordina che la nipote sia murata viva in una stanza scavata nella roccia, dove morirà o sopravvivrà senza mai più vedere la luce del sole: le mani di Creonte saranno pure nei riguardi della ragazza. Alla fine il re muta consiglio, decidendo di seppellire Polinice e liberare Antigone, ma questa si è ormai impiccata nella cella, appendendosi per il collo a un laccio di lino1. In altre versioni, Antigone riesce a sottrarre il cadavere alle guardie e lo getta sulla pira destinata a Eteocle, l’altro fratello. Creonte, dopo aver scoperto la violazione di Antigone, la dà da uccidere al figlio Emone, sposo promesso della ragazza, ma questi disubbidisce per pietà e l’eroina viene messa in salvo2. Secondo un'altra tradizione Antigone, insieme alla sorella Ismene, viene bruciata viva, nel tempio di Era, da Laodamante figlio di Eteocle3.

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Morte di un brigante

Un gruppo di briganti giunge nella città di Tebe per rapinare le case dei cittadini più ricchi. Il primo bersaglio è Crisero, un banchiere che custodiva con grande furbizia le sue ricchezze per eludere le tasse. Quando però i briganti arrivano presso la sua casa, Crisero, ancora sveglio, sente tutto, con passi felpati si avvicina alla porta e conficca un chiodo nella mano del capobanda. Poi si mette a chiamare tutti i vicini, urlando che la sua casa sta andando a fuoco. A quel punto i briganti, spaventati, devono prendere una decisione immediata: o scappare via lasciando il loro capo inchiodato alla porta o escogitare uno stratagemma per portarlo via con loro. Stabiliscono allora di troncargli l’avambraccio perché possa scappare. Lamaco, però, non riuscendo a tenere il passo dei suoi, li supplica di farlo morire: come avrebbe potuto, infatti, sopravvivere alla sua mano, abituata alle prodezze di tante rapine! Sarebbe stato preferibile morire di propria volontà per mano dei compagni. Ma, poiché non riesce a convincere nessuno, afferra con la mano che gli resta la sua spada, la bacia e si trafigge il petto, procurandosi una fine degna del suo grande valore, come sentenziano i compagni1.

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I gemelli: Anfione e Zeto

Antiope, sedotta da Zeus, è incinta e tenta di fuggire dalle ire del padre Nitteo: perciò viene accolta da Epopeo, re di Sicione. Ma Nitteo, sul punto di morire dal dolore, affida al figlio Lico il compito di punire Antiope. Lico uccide Epopeo e riporta a casa la sorella, la quale partorisce per strada – sul monte Citerone – due gemelli (Anfione e Zeto) che vengono esposti e raccolti da un pastore. Antiope viene affidata alla custodia della perfida Dirce, moglie di Lico, che la tormenta in ogni modo. Una volta cresciuti, i gemelli riusciranno a liberare la madre e a vendicarsi di Lico e di Dirce. In seguito fortificheranno Tebe con enormi mura1.

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Dioniso, il dio lo straniero, arriva a Tebe

All’arrivo di Dioniso a Tebe, le donne tebane negano che egli sia un dio: sono infatti convinte che Semele abbia mentito e che invece di unirsi a Zeus abbia avuto una relazione con un comune mortale. Per questo Dioniso le ha punite rendendole folli e spingendole sul Citerone a compiere riti bacchici: a guidare i riti è ora Agave, sorella di Semele e madre di Penteo, al quale Cadmo aveva affidato il regno. Cadmo e Tiresia, ormai vecchi, sapendo di non potersi opporre alla divinità partecipano alle danze in onore del dio. Penteo invece, adirato, fa catturare e imprigionare alcune baccanti. Dioniso in persona entra allora a Tebe avendo assunto le sembianze di un giovane proveniente dalla Lidia, si lascia catturare dal re che lo ritiene responsabile della diffusione dei misteri e dei riti orgiastici, continuando a negare la divinità di Dioniso. Il giovane, stimolando la curiosità di Penteo, lo persuade facilmente a travestirsi da donna e ad andare a spiare le Baccanti sul monte. Agave e le sue sorelle non riconoscono l’uomo e, scambiandolo per una bestia feroce, lo dilaniano, facendolo a brandelli. Agave stessa torna a Tebe reggendo esultante la testa del figlio. È infine Cadmo che fa rientrare Agave in sé: la donna, disperata, è sopraffatta dall’orrore per quanto ha compiuto. L’intera città è così messa in guardia dai pericoli derivanti dal disprezzare la divinità e dal rifiutarle un culto (Euripide, Bacch.).

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Suicidio di Evadne sul rogo di Capaneo

Capaneo, uno dei setti eroi andati in armi contro Tebe, nella guerra fratricida tra Eteocle e Polinice, muore fulminato dalla folgore di Zeus. La moglie Evadne sale sulla roccia che sovrasta la casa, in prossimità del rogo funebre del marito, e si slancia ella stessa nel rogo per il desiderio di morire con lui, come dice con foga esaltata: «È morte dolcissima morire assieme a chi amiamo […] unirò il mio corpo allo sposo amato nella fiamma splendente, stringendo la mia carne alla sua. Giungerò al talamo nuziale di Persefone, e non ti tradirò mai»1.

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Fuga di Antiope

Antiope era figlia del tebano Nitteo. Di lei si invaghì Zeus che trasformatosi in satiro s’introdusse furtivamente nel suo letto. La fanciulla fu costretta a fuggire a Sicione a causa delle minacce del padre. Dall’unione con il padre degli dèi nacquero due gemelli, ma la fanciulla fu costretta a fuggire da Tebe, gettando il padre nella disperazione e portandolo al suicidio1.

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Edipo: incesto, contaminazione e castigo

Edipo aveva ricevuto dall’oracolo di Delfi il vaticinio che avrebbe ucciso il padre e sposato la madre. Convinto di essere il figlio legittimo di Polibo e Merope, sovrani di Corinto, si condanna a un esilio volontario per eludere l’orribile verità dell’oracolo. In realtà, egli è il figlio del re di Tebe Laio e della moglie Giocasta che i genitori, in virtù dello stesso vaticinio, avevano consegnato a un pastore in tenera età perché fosse ucciso. Edipo, cresciuto, per caso si scontra a un trivio con Laio e la sua scorta e l’uccide senza conoscerne l’identità. Diventa re di Tebe, dopo avere liberato la città dal flagello della Sfinge, e sposa Giocasta vedova di Laio. La città è poco dopo afflitta da una pestilenza che richiede una nuova consultazione dell’oracolo di Delfi. La risposta è che occorre liberare Tebe dal miasma, punendo con la morte l’assassino di Laio. Edipo apre un’inchiesta per individuare il colpevole, avvicinando se stesso e la moglie all’orribile verità. Venuti a conoscenza dei fatti, Giocasta si darà la morte per impiccagione nella stanza che ha condiviso sul figlio; mentre Edipo userà le fibbie che adornavano i vestiti della donna per trafiggersi ripetutamente le pupille, proclamando: «non vedrete i mali che ha sofferto, né quelli che ha fatto soffrire, ma per il tempo che mi resta, vedrete soltanto nelle tenebre coloro che mai avrebbe dovuto e non conoscerete coloro che avrebbe voluto riconoscere»1.

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Il cane Lailaps e la caccia alla volpe

Procri figlia del re di Atene Eretteo sposa Cefalo, giovane cacciatore, ma le cose da subito non vanno bene. Secondo alcune fonti, lei lo tradisce per poi fuggire cercando riparo a Creta, presso Minosse1; il re cretese s’innamora della giovane donna e la seduce, promettendo di donarle un giavellotto dalla traiettoria infallibile e un cane meraviglioso, che era appartenuto a sua madre Europa, cui l’aveva donato Zeus; il cane, forgiato nel bronzo da Efesto e poi magicamente animato, era una di quelle creature immortali che l’artigiano divino sapeva produrre2. Come tutte le creature di Efesto, anche questo cane era perfetto: catturava qualunque cosa inseguisse. Procri – che era un’appassionata cacciatrice – acconsente di avere un rapporto con Minosse e ottiene il cane insieme al giavellotto. Secondo altri testi3, il cane è invece un dono di Diana, che lo regala a Procri per consolarla: la donna infatti era fuggita di casa e si era data a un’esistenza solitaria, dedita alla caccia nei boschi sacri alla dea, perché Cefalo l’aveva ingiustamente accusata di tradimento. Ritornata a casa e riconciliatasi con Cefalo – anche grazie al cane e all’arma prodigiosa, che lui desidera e ottiene – trascorre anni felici cacciando insieme al marito. A un certo punto troviamo Lailaps a Tebe coinvolto nel tentativo di cattura di una volpe straordinariamente astuta e feroce. Secondo alcuni racconti Lailaps era capitato da quelle parti vagando insieme a Cefalo, condannato all’esilio per aver ucciso senza volerlo la moglie in una battuta di caccia (Apollodoro); secondo altri, invece (Ovidio, Antonino Liberale), Cefalo vi era stato chiamato dai Cadmei che, conoscendo l’infallibilità di Lailaps, gli avevano chiesto aiuto contro il feroce selvatico. La volpe aveva tana presso Teumesso e da tempo rapinava impunita non solo le stalle ma anche le culle: i tebani le offrivano ogni mese uno dei loro figli, perché altrimenti ne avrebbe rapiti di più. Nessuno riusciva a catturarla, perché aveva avuto in sorte di sfuggire a chiunque la inseguisse. Lanciato contro la volpe, Lailaps correva come solo lui sapeva fare e la volpe fuggiva come solo lei poteva: l’uno le stava alle calcagna e sembrava sempre sul punto di prenderla, ma l’altra riusciva sempre a sottrarsi, con mille finte e rigiri. L’inseguimento non avrebbe avuto mai fine. Allora Zeus decise di cristallizzare questo prodigio e tramutò cane e volpe in rocce. Secondo alcune fonti Lailaps ottenne invece di essere innalzato in cielo dove divenne la stella Sirio della costellazione del Cane Maggiore45.

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L'enigma della Sfinge

«Era mandò la Sfinge, che era nata da Echidna e da Tifone e aveva il volto di donna, il corpo, le zampe e la coda di leone e le ali di uccello. Conosceva un enigma, appreso dalle Muse, e lo proponeva ai Tebani stando seduta sul monte Fichio. L’enigma era questo: "Qual è l’essere che ha una voce sola, che prima ha quattro, poi due e poi tre piedi?". Esisteva un oracolo secondo il quale i Tebani si sarebbero liberati dalla Sfinge quando avessero sciolto l’enigma: essi si riunivano spesso e cercavano di risolverlo, ma poiché non ci riuscivano la Sfinge afferrava uno di loro e lo divorava. Creonte, fratello di Laio che governava Tebe dopo la sua morte, proclamò che avrebbe ceduto il regno e la vedova del fratello, Giocasta, a colui che avesse sciolto l’enigma. Edipo lo venne a sapere e risolse il quesito, dicendo che l’essere a cui alludeva la Sfinge era l’uomo: quando è bambino infatti ha quattro piedi perché si muove sostenendosi su tutti e quattro gli arti, adulto ne ha due, vecchio ne ha tre perché si aiuta col bastone. La Sfinge si gettò dall’alto dell’acropoli. Edipo ebbe il regno e sposò sua madre senza saperlo; da lei ebbe due figli, Polinice ed Eteocle, e due figlie, Ismene e Antigone»1.

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ino_roma

La storia inizia nella città greca di Tebe, dove si trova la giovane donna Ino, sposa del re Adamante. Inoè anche sorella di Semele, dalla cui relazione amorosa con Zeus nasce Dioniso. A causa dell’ira di Giunone, però, Semele è stata fulminata. Dalle ceneri del suo corpo viene estratto il feto di Dioniso, che viene cucito nella coscia di Zeus per completarne la gestazione. Una volta nato (o rinato dalla coscia del padre), Dioniso viene affidato a Ino, che se ne occupa in qualità di zia materna. A questo punto la collera di Giunone per il tradimento di Zeus si rivolge contro di lei e la sua famiglia. Giunone fa in modo che Inovenga a sapere che Adamante, il marito, aveva una concubina. Resa folle dalla gelosia, Inobrucia i semi con cui si sarebbe dovuto ottenere il futuro raccolto. Quest’atto sconsiderato, che può provocare una grave carestia, suscita a sua volta l’ira furiosa di Adamante che uccide uno dei figli avuti con Ino. La giovane madre scappa con l’altro figlio, Melicerta, nel tentativo di salvargli la vita. Fuggono fino al mare in cui si gettano saltando da una rupe. Le divinità marine hanno pietà di loro e, nel mito greco, le divinizzano: lei prende il nome di Leucotea, la dea bianca, in ricordo della bianca schiuma del mare, e il figlio quello di Palemone. Nel mito romano, invece, la loro storia non termina qui. Dopo un viaggio per mare e, in seguito, nel Tevere, i due approdano nel centro di quella che sarà un giorno Roma, vicino al futuro Foro Boario, dove si trovano anche l’Ara Maxima di Ercole e il Tempio di Carmentis. Al loro arrivo, madre e figlio sono attaccati da un gruppo di Menadi, che vogliono impossessarsi del bambino. Inochiede aiuto ed è proprio Ercole che, udite le grida, viene in suo soccorso. Liberati dalle donne infuriate, madre e bambino vengono accompagnati da Carmentis, dea della profezia proveniente anche lei dalla Grecia. Questa provvede a rifocillarli offrendo loro quei biscotti che diventeranno in seguito un’offerta rituale e a tranquillizzarli, rivelando loro di essere al termine delle sofferenze: madre e bambino diventeranno delle divinità del Lazio e saranno conosciuti come Mater Matuta, cioè la divinità dell’aurora e dell’infanzia dei bambini, e Portunus, nome che indica il suo stretto rapporto con le acque navigabili1.

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Colpa di Laio, e divieto di diventare padre

Labdaco, re di Tebe, muore quando il figlio Laio ha appena un anno. Il trono della città è quindi occupato da Lico e poi dai gemelli Anfione e Zeto, che scacciano Laio; questi si rifugia allora a Pisa, nel Peloponneso, come ospite di Pelope, il quale gli affida il figlio Crisippo. Mentre Laio insegna al bambino a condurre il carro, viene preso da desiderio e gli fa violenza, inducendolo a uccidersi1. Pelope maledice Laio, augurandogli di non avere discendenti o, se dovesse generarne, di essere ucciso dal figlio2. Laio sposa Giocasta, ma nonostante l’oracolo di Apollo gli ripeta di astenersi dall’unirsi a lei per evitare la morte e salvare la città di Tebe, Laio trasgredisce l’ordine: vinto dai suoi impulsi e dalla mancanza di volontà, finisce per generare un figlio, Edipo3.

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Edipo e Laio: l'esposizione, l'oracolo, il parricidio

Quando Giocasta partorisce, Laio fa prontamente esporre il bambino da un pastore, dopo avergli mutilato i piedi con punte di ferro1. L’uomo decide però di salvarlo affidandolo a un pastore di Corinto, che lo dona a sua volta alla coppia regale della città, Merope e Polibo, che non ha figli propri. Qui Edipo viene allevato fino al giorno in cui, nel corso di un banchetto, un compagno lo apostrofa ingiuriosamente come bastardo. Turbato da questa insinuazione, Edipo decide di cercare la verità recandosi a Delfi, dove riceve un responso ancora più sconvolgente: egli è destinato a divenire assassino del padre e sposo della madre. Edipo fugge allora il più lontano possibile da Corinto, ma finisce per incontrare il suo fato proprio quando si sente ormai al sicuro, sotto le spoglie di un vecchio re su un carro che gli nega il passo al crocicchio sulla strada tra Delfi e Tebe. Il vecchio infatti non è altri che Laio. Ostile e aggressivo verso il giovane sconosciuto, rifiuta di cedergli il passo e lo colpisce violentemente sulla testa con la sferza per i cavalli. Edipo allora è costretto a difendersi e uccide il vecchio con il suo bastone di viandante2.

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Polinice contro Eteocle

Dal matrimonio incestuoso fra Edipo e Giocasta nascono due figlie, Antigone e Ismene, e due figli, Eteocle e Polinice. Dopo l’allontanamento di Edipo il regno di Tebe è retto da Creonte, ma ben presto tra i due fratelli si apre la lotta per il trono. Al netto delle diverse varianti del racconto, il mito racconta come Polinice raccogliesse ad Argo un esercito alleato, guidato da sette campioni, e attaccasse la sua città natale schierando per ognuna delle porte di Tebe un guerriero argivo. Eteocle a sua volta scelse un campione tebano per ogni porta; quando seppe che alla settima porta era schierato Polinice, decise di fronteggiare egli stesso il fratello. Fu così che Eteocle e Polinice si uccisero l’un l’altro in duello1.

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Antigone seppellisce Polinice

Dopo che Eteocle e Polinice si sono uccisi a vicenda, il primo viene sepolto con onore nella città di Tebe, che ha difeso a costo della propria vita. Quanto a Polinice, traditore della patria, lo zio Creonte, regnante a Tebe, emana un bando per vietarne la sepoltura, pena la morte. La sorella Antigone decide senza indugi di infrangere l’ordine e aggira la sorveglianza delle guardie per dare al fratello una sepoltura, sia pure simbolica; quando infine viene scoperta, persiste nella sua volontà di onorare il fratello, con una decisione che la porterà alla condanna a morte. Dopo uno straziante addio alla vita, Antigone viene rinchiusa in una caverna, seguita ben presto dal fidanzato Emone, figlio dello stesso Creonte, che disperato si dà la morte1.

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Anfione e Zeto

Antiope, figlia del dio-fiume Asopo, genera da Zeus i gemelli Anfione e Zeto. Antiope però deve abbandonarli presso il monte Citerone per fuggire l’ira del padre Nitteo, re di Tebe. Un pastore ha cura dei gemelli, che crescono forti: Zeto diviene pastore e cacciatore, mentre Anfione è il primo suonatore della lira inventata dal dio Ermes1. Lo zio paterno Lico ritrova Antiope a Sicione, la cattura riportandola a Tebe e la fa schiava presso sua moglie Dirce. I gemelli, ormai adulti, riconoscono la madre, la liberano e depongono Lico. La sovranità di Tebe viene data a Zeto, mentre Anfione la circonda di mura facendo muovere le pietre e gli alberi al suono della sua lira. Tebe ebbe così sette porte, come sette erano le corde dello strumento2.

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figli_niobe

Anfione sposa Niobe, figlia di Tantalo, che genera sei figlie femmine e sei maschi e per questo si vanta superiore a Latona, perché la dea ne aveva messi al mondo solo due. Per punire l’insulto, Artemide uccide le figlie e Apollo i figli con le loro frecce infallibili. Niobe si trasforma allora in roccia, piangendo per sempre il proprio lutto1. Secondo una diversa versione, fu lo stesso Anfione a schernire Latona per l’esiguo numero dei figli e per questo venne punito nell’Ade2. Zeto sposò Aedone, figlia di Pandareo, che generò Itilo. Aedone, forse in un accesso di follia, uccise con la spada il figlio e da allora si trasformò in usignolo, continuando a piangere il bambino3, mentre Zeto morì di crepacuore4. Furono sepolti insieme e a Tebe condivisero la tomba.

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La collana di Armonia

Apollodoro1ci racconta che, su richiesta di Cadmo, il dio fece una collana che il re tebano regalò come dono nuziale alla moglie Armonia. Da fonti più dettagliate2veniamo a sapere che, poiché Armonia era nata dalla relazione adulterina che Afrodite aveva avuto con Ares, Efesto, per vendicarsi di colei che era il frutto del tradimento, aveva avvelenato l’oro contenuto nel monile per far sì che la persona che l’avesse indossata fosse distrutta da una serie di disgrazie. E così avvenne: come racconta Stazio3, Cadmo e Armonia furono trasformati in draghi; la collana passò ad Agave che, in preda alla follia, massacrò il figlio Penteo; poi a Semele, che, dopo essere stata sedotta da Zeus, fu folgorata per averlo visto in tutto il suo splendore; poi a Giocasta, che commise incesto unendosi al figlio Edipo; poi ad Argia, figlia di Adrasto re di Argo, che convinse il marito Polinice a guidare una spedizione militare contro Tebe; infine la possedette Erifile, moglie dell’indovino Anfiarao, il quale, obbligato a partire insieme a Polinice per Tebe, vi trovò la morte.

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Colpa e sangue nella famiglia

Oreste, dopo aver ucciso la madre, viene accusato di averne versato il sangue consanguineo1. Antigone, nipote di Creonte, re di Tebe, contravviene al divieto imposto dallo zio di dare sepoltura al fratello Polinice, che aveva tentato l’assalto alla città, per ottenerne il trono, scontrandosi con l’altro fratello, Eteocle. Nel discorso in cui Creonte afferma la propria volontà di punire la nipote, ribadisce che neppure lei, benché figlia di sua sorella, sfuggirà al castigo dovuto2.

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Il cervello di Melanippo e la furia di Tideo

Tideo è uno sette condottieri contro Tebe; colpito a morte da Melanippo, viene a sua volta ucciso da Anfiarao. Quest’ultimo gli taglia la testa e la porta da Tideo che, in preda alla rabbia, ne mangia il cervello1.

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Miti sulla follia

Poiché il re di Tebe Penteo rifiuta il culto di Dioniso, la madre Agave diviene lo strumento di punizione di tale empietà, per mano del dio. In preda al furore bacchico, infatti, salita sul monte per compiere il rito, scambia Penteo per un cucciolo di leone e, con la bava alla bocca, le pupille che roteano e la mente sconvolta, fa a brani il suo corpo1. Anche le Miniadi, figlie del re di Orcomeno Minia, vengono punite per il medesimo atteggiamento di disprezzo nei confronti di Dioniso: poiché rimangono in casa, intente alla filatura, durante una festa in onore del dio, egli le conduce alla follia mistica fino a portarle all’uccisione del piccolo Ippaso, figlio di una di loro2. In un altro mito, Era tormenta con un pungolo Io, di cui Zeus si è invaghito, e la costringe a un folle vagabondaggio3. Ancora inviata da Era per gelosia è la follia di Eracle, nato dall’unione di Zeus e Alcmena: l’eroe è fuori di sé, con le pupille iniettate di sangue e la bava alla bocca; corre ansimando su e giù per le stanze e, credendo di avere davanti a sé i figli di Euristeo, agli ordini del quale ha compiuto le fatiche, uccide a uno a uno i figli, con le frecce del suo arco o fracassando loro il capo con la clava. Sul punto di uccidere il proprio padre, viene però colpito al petto da Atena, che lo induce al sonno. Ritornato alla ragione, al suo risveglio Eracle non trova altra via d’uscita al suo folle gesto che il suicidio, ma viene salvato da Teseo, che lo conduce con sé ad Atene (Euripide, Herc.). Infine, anche quella di Aiace Telamonio è follia omicida, come per Eracle. Venuto a contesa con Odisseo per il possesso delle armi di Achille e dopo la vittoria di quest’ultimo, Atena lo fa impazzire. Aiace compie un massacro di greggi credendo di uccidere i compagni achei, per vendicarsi del torto subito; una volta rientrato in sé, lo prende un dolore ancora più grande, tanto che, per lavare l’onta e allontanare la vergogna del gesto compiuto, si trafigge con la propria spada4.

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Anfione e Zeto fondano le mura di Tebe

Quando Nitteo di Tebe viene a sapere della gravidanza della figlia Antiope la caccia da Tebe e alla donna non rimane che rifugiarsi presso lo zio Lico e sua moglie Dirce. Lico però dà ordine di esporre i due gemelli Anfione e Zeto sul monte Citerone, prendendo poi a trattare Antiope come una schiava. I neonati vengono trovati da un pastore, che li alleva nella sua capanna. Zeto cresce dedicandosi alle attività manuali, mentre Anfione si specializza nella musica. La situazione cambia quando Antiope riesce a liberarsi dalla prigione in cui è rinchiusa e a ricongiungersi con i figli. I due la riconoscono e decidono immediatamente di vendicarla: è così che uccidono Lico e condannano sua moglie Dirce a essere trascinata viva da un toro fino a essere dilaniata. A questo punto, i due gemelli si insediano sul trono di Tebe al posto del prozio e si danno all’ampliamento della città. Anfione, da solo o con l’aiuto di Zeto, aggiunge al nucleo originario della Cadmea, opera di Cadmo, tutta la parte bassa e la cinta muraria, caratterizzata da sette varchi di accesso1.

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Le cinque età dell’umanità

Per prima venne la stirpe d’oro, all’epoca di Crono: gli uomini di questa epoca vivevano felici, senza dolori, in una condizione quasi divina; la morte li coglieva come un dolce sonno; la terra produceva spontaneamente ogni frutto. All’estinzione di questa stirpe, gli dèi sopperirono con la creazione di un’altra, d’argento: gli uomini di questa stirpe vivevano una lunghissima fanciullezza di cento anni, ma, una volta divenuti adulti, si abbandonavano a continue contese e non tributavano agli dèi i dovuti onori, motivo per cui anche questa stirpe andò incontro a una rapida estinzione. La terza stirpe fu quella degli uomini di bronzo, dediti unicamente alle opere di Ares e dunque votati a uno stato di guerra continua, che ne decretò la fine precoce. Quarta fu la stirpe degli eroi, ossia dei semidei: uomini che si segnalarono per la loro prodezza e giustizia, ma che furono man mano sterminati dalle grandi guerre del mito, come quella combattuta intorno alle mura di Tebe o a quelle di Troia; agli eroi, però, Zeus riservò un felice destino dopo la morte, trasportandoli nelle Isole dei Beati, ai confini dell’Oceano, a godere di una condizione simile a quella della stirpe aurea. Come quinta e ultima gli dèi crearono la stirpe di ferro, con cui Esiodo identifica gli uomini viventi alla sua epoca, condannati a un’esistenza di fatiche e di dolori sempre crescenti e senza rimedio1.

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La volpe di Teumesso e il paradosso della caccia

La località di Teumesso, in Beozia, era infestata da una volpe mostruosa, che divorava qualunque preda e sfuggiva a qualsiasi tentativo di cattura; si trattava, infatti, di un animale magico, inviato da Dioniso per punire i Tebani. Anfitrione, divenuto re di Tebe, si impegna a debellare il mostro e a questo scopo va a chiedere aiuto al re della vicina Atene, Cefalo, che dispone di un’arma formidabile: un cane chiamato Lailaps, "Bufera". Anche questo era un animale magico, che la moglie di Cefalo, Procri, aveva ricevuto in dono da Minosse, o secondo altre versioni dalla dea Artemide: Bufera aveva la facoltà di catturare qualunque preda inseguisse. Cefalo, quindi, andò in soccorso di Anfitrione e si recò nella piana di Teumesso, dove lanciò Bufera all’inseguimento della volpe. A questo punto, però, le due bestie si trovarono imprigionate in una corsa senza sosta: la volpe non poteva essere raggiunta, ma continuava a essere inseguita dal cane che la incalzava; il cane non poteva mancare la preda, ma d’altro canto non riusciva mai a raggiungere la volpe che era imprendibile. Zeus allora intervenne, pietrificando entrambi gli animali1.

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Cadmo e l’introduzione dell’alfabeto in Grecia

Secondo lo storico di Alicarnasso1, sotto la guida di Cadmo i Fenici si sarebbero stabiliti in Beozia portando con sé dalla loro terra natia «molti insegnamenti di diversa natura», comprese le lettere dell’alfabeto che, fino a quel momento, i Greci non conoscevano: gli Ioni, vale a dire la popolazione greca che in quel momento viveva nella regione beota, furono i primi a servirsi delle lettere fenicie, cambiandone successivamente sia i suoni che l’ordine. Lo stesso Erodoto dichiara di aver visto di persona a Tebe, la principale città della Beozia, incise su tre tripodi, alcune antichissime lettere “cadmee”, che egli attribuisce al tempo degli altrettanto mitici discendenti di Cadmo (Labdaco, Laio, Edipo, Eteocle ecc.). In un secondo tempo, gli Ioni si spostarono dall’altra parte dell’Egeo, nelle coste dell’Asia minore – che presero per l’appunto il nome di Ionia. Gli storici originari di quella regione (soprattutto il più famoso predecessore di Erodoto, Ecateo di Mileto) apportarono una sostanziale modifica alla tradizione che sarebbe stata difesa da Erodoto, attribuendo l’introduzione dell’alfabeto non a Cadmo, ma a Danao, il leggendario re dell’Egitto.

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Teuth, Thamus e il paradosso della scrittura

Un giorno il dio egizio Teuth, che era venerato a Naucrati, sul delta del Nilo, si recò a Tebe, la capitale dell’Egitto, a parlare con il re Thamus. Lo scopo del viaggio di Teuth era quello di mostrare al re tutte le tecniche che aveva inventato, perché le diffondesse tra gli Egiziani. Thamus gli chiese allora di elencargli via via tutte le sue coperte, sottolineando, di ognuna, l’utilità per gli uomini. Teuth cominciò a menzionarle una per una, mentre il re o le lodava o le criticava: le prime furono il numero e i calcoli, cui fecero seguito la geometria e l’astronomia, e poi i giochi (i dadi, ma anche una specie di scacchi), per finire con la scrittura, la cui invenzione Teuth giustificò dicendo che non solo avrebbe reso gli Egiziani più sapienti, ma avrebbe permesso loro di ricordare ogni cosa - perché ai suoi occhi la scrittura era un rimedio per la sapienza e per la memoria. Ma Thamus non lodò affatto quest’ultima scoperta (alla quale Teuth teneva moltissimo): anzi, la biasimò aspramente, assolvendo in parte Teuth (che, come tutti gli inventori, si era mostrato troppo indulgente nei confronti della sua scoperta), ma affermando che l’uso e la diffusione della scrittura avrebbe provocato l’effetto diametralmente opposto a quello che il suo creatore s’era immaginato. L’apprendimento della scrittura avrebbe infatti provocato non il ricordo e la memoria, bensì il suo contrario – l’oblio e la dimenticanza. E questo perché, chi si fosse affidato alla scrittura per ricordare, avrebbe tratto i suoi ricordi dall’esterno (da segni estranei – cioè le lettere) e non dall’interno (da se stesso). Le lettere (aveva concluso Thamus) non erano una medicina per la memoria, bensì una medicina per richiamare alla memoria; la sapienza appresa grazie alle lettere non era sapienza vera, ma solo una parvenza della vera sapienza.

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