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Miti

I gemelli: Eracle e Ificle

È sera, e Alcmena ha appena messo a letto i suoi bambini: Eracle, di dieci mesi, ed Ificle, di una notte più giovane. Dopo essere stati allattati e dondolati nello scudo di bronzo che funge da culla, i due si addormentano in un sonno profondo. Ma nel cuore della notte Era suscita contro di loro due terribili serpenti, dai denti aguzzi e dalle lingue velenose. Non appena i mostri si avvicinano alla culla per mordere i bambini Zeus produce una forte luce e i due infanti si svegliano: Ificle è preso da terrore, e con i piedini respinge la coperta di lana nel tentativo di fuggire; Eracle invece afferra prontamente i serpenti stringendoli in una terribile morsa. Nel frattempo Alcmena, sentendo le grida della nutrice, sveglia il marito Anfitrione e tutta la casa accorre nella stanza dei gemelli. Qui con loro grande stupore trovano Eracle che, ridendo, depone ai piedi del padre i due serpenti ormai morti. Alcmena prende in braccio Ificle spaventato, mentre Eracle torna a dormire sotto una pelliccia. L’indomani i genitori consultano l’indovino Tiresia per avere un responso su quanto accaduto.1.

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Dioniso, il dio lo straniero, arriva a Tebe

All’arrivo di Dioniso a Tebe, le donne tebane negano che egli sia un dio: sono infatti convinte che Semele abbia mentito e che invece di unirsi a Zeus abbia avuto una relazione con un comune mortale. Per questo Dioniso le ha punite rendendole folli e spingendole sul Citerone a compiere riti bacchici: a guidare i riti è ora Agave, sorella di Semele e madre di Penteo, al quale Cadmo aveva affidato il regno. Cadmo e Tiresia, ormai vecchi, sapendo di non potersi opporre alla divinità partecipano alle danze in onore del dio. Penteo invece, adirato, fa catturare e imprigionare alcune baccanti. Dioniso in persona entra allora a Tebe avendo assunto le sembianze di un giovane proveniente dalla Lidia, si lascia catturare dal re che lo ritiene responsabile della diffusione dei misteri e dei riti orgiastici, continuando a negare la divinità di Dioniso. Il giovane, stimolando la curiosità di Penteo, lo persuade facilmente a travestirsi da donna e ad andare a spiare le Baccanti sul monte. Agave e le sue sorelle non riconoscono l’uomo e, scambiandolo per una bestia feroce, lo dilaniano, facendolo a brandelli. Agave stessa torna a Tebe reggendo esultante la testa del figlio. È infine Cadmo che fa rientrare Agave in sé: la donna, disperata, è sopraffatta dall’orrore per quanto ha compiuto. L’intera città è così messa in guardia dai pericoli derivanti dal disprezzare la divinità e dal rifiutarle un culto (Euripide, Bacch.).

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Tiresia e la sessualità maschile e femminile

Passeggiando sul monte Cillene, Tiresia scorge due serpenti intenti ad accoppiarsi. Li separa, o li uccide, e, in seguito a questo gesto, viene tramutato in femmina. Sette anni dopo, ritrovandosi di fronte alla medesima situazione, Tiresia interviene e riottiene il sesso primigenio. Divenuto celebre per questa vicenda, viene interpellato da Zeus ed Era, per dirimere una contesa nata fra i coniugi. Essi avevano discusso per sapere chi, tra uomo e donna, provasse il piacere maggiore nell'atto sessuale. Tiresia, unico al mondo ad avere fatto tutte e due le esperienze, afferma che, se immaginiamo il godimento amoroso fatto di dieci parti, alla donna ne spettano di certo nove, all'uomo una sola. Era, incollerita con Tiresia, per avere svelato il segreto del genere femminile, lo punisce con la cecità, mentre Zeus, come risarcimento, gli attribuisce il dono della profezia e la possibilità di vivere a lungo, fino a sette generazioni di uomini1.

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Castigo e dono dell'arte mantica per Tiresia

Deposte vesti e ornamenti, la dea Atena sta facendo il bagno alla fonte Ippocrene (presso la vetta del monte Elicona) insieme alla sua compagna più cara, la ninfa Cariclo, madre di Tiresia, il futuro indovino tebano. È l’ora del meriggio e il caldo asfissiante suscita la sete di Tiresia che si aggira per i monti insieme ai suoi cani. Avvicinatosi alla sacra fonte per dissetarsi, il giovane vede Atena nuda e immediatamente perde la vista. Disperata per la tragica sorte del figlio, Cariclo accusa la dea dell’accaduto, rimproverandole di aver tradito la loro amicizia. Benché dispiaciuta per le accuse ingiuste di Cariclo, Atena ha pietà della compagna. Dapprima, le obietta che non è per colpa sua che il figlio ha perso la vista, ma in osservanza alle «leggi di Crono», che vietano ai mortali di osservare un dio, a meno che non sia il dio stesso a volerlo. Quindi, come compenso della cecità ormai irrevocabile, la dea concede a Tiresia grandi doni, facendone un indovino (mantis) di nobile fama, in grado di riconoscere gli uccelli fausti e infausti e di fornire vaticini ai mortali. Gli dona inoltre un lungo bastone, che ne guiderà i passi benché cieco, una vita longeva, e il singolare privilegio, attestato già da Omero1, di conservare intatte le sue facoltà intellettuali, il suo noos, anche una volta morto2. Il noos gioca un ruolo importante anche in un’altra versione del mito, in cui Atena ripaga Tiresia per la perdita della vista «trasferendo al suo noos i guizzi dello sguardo»3. Infine, in una tradizione attestata da Apollodoro4, la cecità di Tiresia è compensata da Atena con un udito eccezionale: la dea «gli purifica le orecchie in modo che possa intendere il linguaggio degli uccelli».

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Odisseo, evocazione dei morti

Giunto all’ingresso dell’Hades seguendo le correnti del fiume Oceano fino all’estremo occidente, Odisseo prepara un sacrificio per i morti, versando in una fossa scavata in terra latte e miele, vino, acqua e farina. Per Tiresia, invece, secondo le indicazioni ricevute da Circe, sgozza un montone nero. Le anime si accalcano per bere il sangue dell’animale, ma Odisseo le tiene lontane minacciandole con la spada, e permette solo all’indovino di avvicinarsi. Dopo aver saputo da Tiresia di essere vittima della collera di Poseidone e aver ricevuto una profezia riguardante la sua morte, Odisseo gli chiede come può comunicare con l’anima della madre Anticlea, che scorge proprio di fronte a lui, ma che non ricambia il suo sguardo né il suo saluto. Tiresia gli rivela che solo consentendo ai defunti di gustare il sangue potrà entrare in contatto con loro. Dopo averlo bevuto, infatti, Anticlea riconosce immediatamente il figlio e gli dà notizie recenti di Itaca, ma quando Odisseo cerca di abbracciarla, l’anima (psyche) rivela la sua natura immateriale, simile alla consistenza del fumo1.

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Le vacche del Sole nell'Odissea

Nell’isola bella del Sole vivevano le vacche «dalla fronte spaziosa» e le grasse pecore che appartenevano al dio Iperione. Quando la nave di Odisseo, l’ultima rimasta, si avvicinò alle spiagge siciliane, l’eroe itacese sentì i muggiti delle vacche e i belati delle pecore. Memore dei consigli che gli avevano dato l’indovino Tiresia e la maga Circe, che l’avevano ammonito di non fermarsi nell’isola del Sole «che rende felici i mortali» perché gli sarebbe toccata una grande sciagura, Odisseo pregò i compagni di non fermarsi e procedere oltre. Ma Euriloco lo rimproverò dicendogli che, poiché avevano vagato troppo a lungo nel mare, avevano bisogno di fermarsi almeno per una notte per poi ripartire dopo aver mangiato ed essersi riposati. Odisseo accettò a malincuore, ma prima si fece promettere che, se avessero incontrato una mandria di vacche o un gregge di pecore, non avrebbero ucciso nessun’animale, ma si sarebbero sfamati mangiando soltanto le provviste che avevano ricevuto da Circe. Ottenuta dai suoi uomini questa promessa, l’eroe fece legare la nave agli scogli, e tutti scesero a terra. Ma il giorno dopo non riuscirono a ripartire a causa dei forti venti, e non poterono farlo nemmeno nei giorni seguenti. Finché ebbero cibo e bevande, non ci fu nessun problema; ma quando le provviste finirono, dovettero ricorrere alla caccia e alla pesca, anche se né gli uccelli catturati né i pesci pescati erano sufficienti a placare la fame dei compagni di Odisseo. Ma un giorno che questi si era recato nell’interno dell’isola per supplicare gli dèi perché gli permettessero di partire di nuovo verso la sua amata Itaca, Euriloco riuscì a convincere i compagni a sacrificare le più belle tra le vacche del Sole, «dall’ampia fronte e dalle corna lunate». Quando Odisseo fece ritorno all’accampamento, gli animali erano già stati uccisi, cotti e mangiati. L’ira del Sole fu terribile: avvisato dalla messaggera Lampezia, Iperione chiese a Zeus di vendicare subito l’offesa ricevuta, minacciando di abbandonare per sempre la terra e di scendere nell’oltretomba per illuminare il buio regno dei morti. Allora Zeus, il signore delle nuvole, gli promise che avrebbe fatto giustizia: quando, dopo sette giorni di bagordi, la nave riuscì finalmente a partire alla volta di Itaca, il re degli dèi la colpì con un’improvvisa tempesta. Solo Odisseo si salvò, anche se fu costretto ad attraversare una seconda volta lo stretto di Messina, scampando per miracolo prima alle fauci di Cariddi e poi alle teste di Scilla, e raggiungendo, dopo dieci giorni passati alla deriva, Ogigia, l’isola di Calipso.

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Odisseo e il rito necromantico

Odisseo, ottenuto il consenso per il ritorno a casa dalla maga Circe, viene avvertito dalla stessa dea che prima di volgere la prua verso Itaca dovrà consultare l’anima dell’indovino Tiresia nel mondo dei morti e che lì dovrà compiere uno speciale rito. Giunto al fiume Oceano, l’eroe scava una fossa e versa la libagione dei morti, invoca le anime, quindi offre in sacrificio una pecora e un montone. Il sangue degli animali sgozzati richiama immediatamente le anime dal sottosuolo: esse si accalcano emettendo grida raccapriccianti, assetate di sangue, ma Odisseo bada a che non ne bevano prima dell’apparizione di Tiresia. L’indovino per primo beve il sangue, quindi gli predice il futuro e gli indica la via del ritorno fino all’ultimo viaggio. Gli dice infine che i morti che berranno il sangue gli diranno cose vere. Grazie a questo rito, l’eroe può così parlare con i morti e ascoltare le loro parole1.

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Edipo e la peste di Tebe

Per scongiurare il terribile flagello, il cognato Creonte viene inviato da Edipo, re della città, a consultare l’oracolo di Apollo. Il responso rivela che l’epidemia è una punizione per l’uccisione del precedente re tebano Laio, il cui assassino è ancora impunito nella città. Per far cessare la peste occorre allora individuare il colpevole, liberando così la città dalla contaminazione. Edipo lancia una maledizione sull’empio, che altri non è se non lui stesso, come gli rivela l’indovino Tiresia e come scoprirà al termine di un’indagine accurata (Sofocle, Oed. rex).

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Lo spazio della liminarità: Oto ed Efialte minacciano l’Olimpo

Odisseo, sceso nell’Ade per ottenere consigli dall’indovino Tiresia, vede tra le anime che vagano nel mondo dei morti anche Ifimedea, che generò a Poseidone i due figli Oto ed Efialte, destinati a vita breve. A nove anni, i due erano già alti nove braccia e larghi nove cubiti; più tardi, minacciarono gli dèi di portar loro guerra anche sul monte Olimpo e a questo scopo tentarono di porre il monte Ossa sull’Olimpo e poi il Pelio sull’Ossa. Ci sarebbero certo riusciti, se non li avesse fermati Apollo, uccidendoli prima che divenissero adulti1.

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