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I figli di Bruto condannati a morte

Dopo la cacciata di Tarquinio fu svelata una congiura ai danni della neonata repubblica. Nella trama erano coinvolti anche i figli di Bruto, Tito e Tiberio; quando essa venne scoperta, a Bruto, in quanto console, toccò il duro compito di giustiziare i figli, condannati a morte come il resto dei congiurati. Denudati, legati a un palo e sferzati, infine decapitati, i due giovani attiravano su di sé gli sguardi di tutti i presenti, che ne commisuravano la sorte, mentre Bruto assistette impassibile alla loro esecuzione1.

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Severità di Tito Manlio verso il figlio

La vicenda ha inizio quando Lucio Manlio, il dittatore del 363 a.C., viene denunciato dai tribuni della plebe, che gli rimproverano tra l’altro di aver imposto al figlio Tito una sorta di domicilio coatto in campagna. Alla vigilia del processo, però, proprio il giovane Tito si presenta a casa del tribuno che stava imbastendo la procedura contro il padre, quindi estrae un pugnale e costringe il magistrato a giurare che il processo a carico di Manlio non sarà celebrato. La vicenda fa rumore, ma la plebe si mostra indulgente verso il gesto di Tito, ammirando il fatto che la durezza del padre non lo avesse allontanato dalla devozione cui era tenuto nei suoi confronti1.

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Bruto partecipa alla fondazione della repubblica

Bruto è figlio di una sorella di Tarquinio il Superbo; questi gli uccide il padre e il fratello, ma Bruto riesce a sfuggire alla follia omicida del sovrano fingendosi sciocco ed entra persino in intimità con i figli del re, che lo considerano il proprio zimbello. Più tardi, Bruto vendica lo stupro commesso da Sesto Tarquinio, figlio del Superbo, sulla castissima Lucrezia guidando la rivolta che conduce all’abbattimento della monarchia, per diventare infine membro della prima coppia consolare che guida la neonata repubblica. Quando viene a sapere che una vasta trama, mirante a riportare Tarquinio sul trono di Roma, ha coinvolto anche i suoi figli Tito e Tiberio, Bruto ne dispone l’immediata messa a morte e assiste personalmente all’esecuzione dei due giovani; e mentre tutti i presenti cedono alla commozione, il solo console mantiene un’espressione imperturbabile1.

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Coinvolgimento dei figli di Bruto nella congiura contro la repubblica

Dal suo esilio il Superbo fa giungere a Roma lettere destinate a giovani nobili un tempo a lui vicini e insoddisfatti della nuova situazione politica; in esse si chiede loro di aprire nottetempo le porte della città, per consentire agli esuli di fare ritorno e riconquistare il potere perduto. Tra le famiglie coinvolte nella trama spiccano i nomi dei Vitelli e degli Aquili: ai primi appartiene infatti anche la moglie di Bruto, mentre l’altro console è zio materno sia dei Vitelli sia degli Aquili, che hanno sposato altrettante sorelle di Collatino. La trama coinvolge presto i giovani Tito e Tiberio, figli di Bruto, ma legati per parte di madre a una delle famiglie implicate nella congiura; i due ragazzi hanno del resto un rapporto di amicizia con i figli del Superbo, sopravvissuto alla caduta della monarchia. Quando il piano viene alla luce, Bruto si trova pertanto a giudicare, nella sua qualità di console, i propri stessi figli; cosa che fa con inflessibile durezza, come si addice non solo all’uomo che ha giurato odio eterno verso la monarchia, ma anche al suo ruolo di padre, chiamato a incarnare i modelli di comportamento della propria cultura e a sancirne con severità l’eventuale violazione1.

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Il giudizio del padre e il rigore della memoria familiare

Decimo Silano apparteneva a una famiglia nota a Roma per la sua severità, quella dei Manli Torquati. Quando venne accusato di concussione dei provinciali della Macedonia, sui quali aveva esercitato il proprio mandato di governatore, suo padre Tito, console nel 165, lo sottopose a un vero e proprio processo privato, al termine del quale lo ritenne colpevole e gli intimò di scomparire per sempre dalla sua vista. La notte successiva Silano si impiccò, ma neppure il lutto riuscì a piegare il rigore paterno. Torquato non partecipò ai funerali del figlio e rimase in casa come se nulla fosse, mettendosi a disposizione di chi volesse interpellarlo: sedendo nell’atrio, fissava l’immagine del suo omonimo antenato, che da console, due secoli prima, aveva messo a morte il figlio colpevole di aver disobbedito al suo comando. Da uomo saggio qual era, sapeva infatti che le maschere degli avi sono collocate nella parte anteriore della casa perché i posteri leggano le iscrizioni che rievocano le loro virtù e ne imitino le azioni1.

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Bruto interpreta l’oracolo del bacio alla madre

Tarquinio, angosciato da prodigi funesti, decide di consultare l’oracolo di Apollo a Delfi, inviandogli i propri figli Tito e Arrunte, cui si affianca anche Bruto, più come zimbello che come compagno. Questi porta in dono ad Apollo un bastone di legno, suscitando lo scherno dei cugini, ignari della sua astuzia: nel cavo del bastone infatti Bruto ha nascosto una verga d’oro. Al quesito dei giovani, il dio risponde che a Roma il potere supremo sarà detenuto da quello che per primo avrà baciato la madre. Mentre Tito e Arrunte si avviano alla volta di Roma, per contendersi al più presto il bacio della madre, Bruto finge di inciampare e cadendo goffamente bacia la terra, madre di tutti gli uomini, adempiendo così l’oracolo senza che i cugini se ne accorgano1.

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