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Miti

Impresa giovanile di Romolo e Remo: origine dei Lupercalia

Il Palatino era in festa: i pastori celebravano i consueti sacrifici in onore di Fauno. Mentre i sacerdoti erano intenti a preparare le viscere di una capretta, d’un tratto si odono le urla di un pastore: «Romolo, Remo, i predoni rubano i nostri animali!». I gemelli si attivano immediatamente e nudi come sono si lanciano all’inseguimento, da una parte Romolo con il gruppo dei Quintili, dall’altra Remo con il gruppo dei Fabi. Remo per primo riesce a recuperare gli animali rapiti e, tornando al banchetto, consuma le viscere; poco dopo torna anche Romolo, che al vedere la tavola vuota e le ossa spolpate si mette a ridere. Per questo ogni anno i Luperci corrono nudi1.

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Odisseo e la caccia

Invitato al palazzo del nonno Autolico sul Parnaso, Odisseo partecipa insieme agli zii ad una battuta di caccia al cinghiale, nel corso della quale fa mostra di tutto il suo coraggio. Benché ferito a un ginocchio, nello scontro con l’animale, riesce ad avere la meglio. Soccorso e curato dagli zii, Odisseo giunge al palazzo con la sua preda che gli vale la consegna di ricchi doni da parte di Autolico e festeggiamenti a palazzo con un banchetto. Approdati sull’isola di Circe, Odisseo e i suoi compagni patiscono la fame per due giorni, fino a quando l’eroe non decide di andare in esplorazione e, per intervento divino, si imbatte in un grande cervo, la cui uccisione viene, ancora una volta, celebrata con un banchetto. Meno fortunata è la caccia dei compagni di Odisseo sull’isola di Scilla quando, perseguitati dalla fame e benché vincolati da un giuramento, si risolvono a cacciare le vacche sacre al Sole. Il banchetto che segue, con animali solitamente destinati al sacrificio, provoca la reazione degli dèi che si abbatte violenta sulle navi1.

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L'ariete dal vello d'oro

Nefele (la “Nuvola”, probabilmente un’Oceanina) ha due figli da Atamante, re di Beozia: si chiamano Frisso ed Elle. Ma Atamante sposa in seguito una mortale, Ino(o Demodice) dalla quale pure ha due figli. Costei vuole eliminare la prima discendenza del marito e minaccia Frisso: secondo alcuni cercando di sedurlo (Pindaro), secondo altri invece provocando una carestia e inducendo Atamante a credere che essa si sarebbe risolta solo se avesse sacrificato Frisso a Zeus. Per sottrarre i figli alla pericolosa situazione, Nephele manda a prenderli un ariete prodigioso che aveva avuto in dono da Hermes. L’animale era ricoperto da un fulgido manto di lana d’oro – era perciò chiamato Chrysomallos –, poteva volare e soprattutto parlare come un umano. Aveva perciò avvisato i due ragazzi dei pericoli che incombevano su di loro (Ecateo). Come si capisce, non si trattava di un montone qualunque e la sua origine era infatti semi-divina: era figlio di Poseidone (Nettuno) e della bellissima Teofane1. Lo avevano concepito quando il dio aveva cercato di sottrarre la ragazza ai suoi molti pretendenti, trasferendola nell’isola di Crumissa e mutando la forma di lei e di tutti gli abitanti dell’isola in quella di un gregge di pecore. Anche in quella forma Theofane spiccava comunque per bellezza. Ma i pretendenti l’avevano inseguita fin lì: sbarcati e non vedendo nessun essere umano, avevano iniziato a uccidere le pecore per farne banchetto. Vista la situazione, Nettuno trasformò quelli in lupi, mentre presa egli stesso le sembianze di un ariete, si accoppiò con Theofane. Da questa unione era nato, appunto, l’ariete dal vello d’oro. Come questo fosse finito nelle mani di Hermes e perché il dio l’avesse donato a Nefele non è dato sapere, ma è chiaro che si trattava di una bestia di rango divino. Frisso ed Elle salgono quindi in groppa all’ariete e con questo iniziano a sorvolare terre e mari. Giunti sopra le acque che separano il continente europeo da quello asiatico, Elle scivola dalla cavalcatura, precipita in mare e vi muore: da quel momento quel luogo sarà chiamato Ellespontos (il “Mare di Elle”). Frisso invece giunge sano e salvo in Colchide, dove decide di sacrificare l’ariete ad Ares (o a Zeus/ Il motivo di questa uccisione non è precisato dalle fonti. In alcuni racconti è Nefele stessa che fa promettere al figlio, una volta tratto in salvo, il sacrificio dell’animale (Igino); un'altra versione vuole che sia Hermes (precedente "proprietario" dell’animale) a suggerire a Frisso di sacrificare la bestia; oppure sarebbe stato l’animale stesso, una volta compiuta la missione di salvataggio, a rivolgere a Frisso parole umane e a suggerirgli di sacrificarlo a Zeus Fyxios (“dei fuggitivi”)2. Si sarebbe trattato insomma di qualche cosa di più che un semplice assenso della vittima, come il rito classico normalmente prevedeva dall’animale condotto all’altare: Crisomallo, già un prodigio di per sé, avrebbe organizzato uno stupefacente auto-sacrificio. Il suo manto splendente, rimosso dal cadavere, viene appeso a un albero nel bosco sacro di Ares e custodito da un enorme drakon (e lì rimarrà fino a quando Giasone non riuscirà a prenderlo, con l’aiuto di Medea). Altri dicono che il montone non fu sacrificato: si sarebbe volontariamente spogliato del proprio manto per donarlo a Frisso e, così privo del vello, sarebbe volato in cielo per diventare la costellazione dell’Ariete – per questo tale costellazione sarebbe poco luminosa (Eratostene). Diversamente, sarebbe stata Nefele a fissare l’immagine dell’Ariete prodigioso nel cielo dopo la sua morte per mano di Frisso3.

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Scilla e Cariddi

Poco prima che lasci l’isola Eea, Circe spiega a Odisseo i pericoli che affronterà nel corso del viaggio. La dea fa menzione di due scogli, uno che svetta con la cima appuntita fino al cielo, l’altro più basso, su cui fa mostra di sé un albero di fico. All’interno del primo vive Scilla, una creatura che uggiola come un cucciolo di cane – e che sembra quindi innocua – ma che in realtà è un mostro tremendo che si ciba di uomini, pescecani, cetacei e di altri mostri marini. Scilla ha dodici piedi invisibili, sei colli lunghissimi, e, su ciascuno di essi, una testa azzannatrice munita di una triplice fila di denti. Nello scoglio più in basso, Cariddi non si lascia mai vedere in superficie, ma la sua enorme bocca assorbe e vomita di continuo, tre volte al giorno, tutto ciò che le capita a tiro. Quando Odisseo arriva nello stretto infestato da queste due orrende creature, dimentica tutte le raccomandazioni fattegli da Circe. La dea gli aveva spiegato che non avrebbe dovuto tentare di difendersi con le armi, ma l’eroe si predispone a una battaglia contro i mostri. Mentre assieme alla sua ciurma è intento a guardare con terrore il vorticare del mare dalle parti di Cariddi, ecco che Scilla si avventa all’improvviso sui suoi compagni. L’eroe assiste impotente alla loro fine, ma riesce a mettere in salvo il resto della flotta. Dopo il pasto sacrilego delle vacche del Sole, però, si trova a passare di nuovo dallo stretto. Qui Cariddi inghiotte tutte le barche e tutti i suoi compagni. Solo Odisseo si salva, aggrappandosi all’albero di fico, mentre Scilla non si accorge di lui1.

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Sopatro e il sacrificio

Sopatro, un contadino non ateniese che vive nelle campagne dell’Attica, uccide in un eccesso d’ira un bue colpevole di aver calpestato e divorato le incruente offerte sacrificali in onore degli dèi. Consapevole di aver infranto la norma vigente che impedisce di uccidere essere animati, prescrivendo di offrire agli dèi i soli frutti della terra, Sopatro fugge a Creta. Nel frattempo, l’infrazione compiuta dal contadino genera una carestia, e i rappresentanti degli Ateniesi si recano a Delfi per chiedere alla Pizia come porre fine alla sterilità della terra. La profetessa risponde che è necessario richiamare in Attica Sopatro, rimettere in piedi il bue ucciso dopo averne gustato le carni, punire l’uccisore. Rientrato ad Atene, Sopatro chiede di essere ammesso nel novero dei cittadini e si propone per la funzione di abbattitore del bue a patto che tutti i cittadini prendano parte al rito. Gli Ateniesi accettano le sue condizioni. Il bue è sacrificato e le sue carni sono mangiate in un banchetto pubblico; si ricostituisce quindi l’immagine dell’animale con la sua pelle e della paglia, e il bue “resuscitato” è aggiogato a un aratro per riprendere il suo lavoro di aratore, al fianco dell’uomo. Infine, gli Ateniesi istruiscono un processo per l’uccisione dell’animale. La colpa è progressivamente scaricata da tutti i partecipanti al rito, fino a ricadere sul coltello sacrificale (machaira) che, riconosciuto colpevole in quanto incapace di difendersi, viene gettato in mare1.

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Arte divinatoria di Teoclimeno

Mentre Telemaco è sul punto di imbarcarsi per lasciare Pilo e far ritorno a Itaca, gli si fa incontro il mantis Teoclimeno, discendente di Melampo e figlio di «Polifede magnanimo, che Apollo fece indovino». Teoclimeno è un esule, fuggito da Argo per aver ucciso un uomo della sua stessa tribù. Incalzato dai parenti del morto, che intendono vendicare con le proprie mani il congiunto, Teoclimeno non ha altra via di scampo che supplicare Telemaco di accoglierlo sulla sua nave e di portarlo con sé in salvo. Il saggio figlio di Odisseo acconsente alla richiesta di aiuto. Appena giunti a Itaca, Teoclimeno dà subito prova, al cospetto di Telemaco, delle sue competenze divinatorie: un falco, che ghermisce tra gli artigli una colomba, vola incontro al giovane eroe, da destra; il mantis riconosce nel rapace «un messaggero di Apollo», destinato ad annunciare la restaurazione dell’autorità regale di Odisseo. Udita con piacere e speranza la parola mantica dell’indovino, Telemaco lo affida alle cure di un amico e si reca alla capanna di Eumeo, uno dei pochi uomini rimasti fedeli al padre. Telemaco e Teoclimeno si incontrano di nuovo poco dopo nel corso di un solenne banchetto alla reggia di Itaca. Qui, dopo che Telemaco ha appena finito di rispondere a una delle tante richieste di matrimonio con la madre Penelope, la dea Atena, la protettrice più premurosa della famiglia regale itacese, suscita tra i pretendenti un inestinguibile riso: ormai votati a morte certa per l’imminente ritorno di Odisseo, i principi di Itaca «ridono con mascelle altrui», quasi fossero già scheletri che digrignano i denti, mangiano carni cosperse di sangue e hanno gli occhi pieni di lacrime. Naturalmente, tale spettacolo, che è ancora di là a venire per quanto i proci siano già condannati, non è visibile al momento a nessuno dei presenti, eccetto Teoclimeno. Il mantis percepisce (noeo) la rovina che si sta per abbattere sui pretendenti, riuscendo sia ad ascoltare gemiti e singhiozzi dei principi massacrati sia a scorgere i muri imbrattati di sangue e le ombre dei defunti che scendono all’Erebo avvolte da una tetra oscurità. L’agghiacciante visione è riservata unicamente al mantis, tant’è che, udita la sua profezia, i proci prendono a ridere di lui e invitano i giovani ad accompagnarlo in piazza «se qui gli par notte!». Ma Teoclimeno, ormai consapevole di quello che sta per succedere, esce dal palazzo da sé, prima che la strage abbia inizio1.

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Fantasma di Patroclo prima del funerale

Dopo aver ucciso Ettore, Achille torna al campo greco ed esorta i compagni a radunarsi intorno al corpo di Patroclo per piangerlo insieme, poiché questo è l’onore (geras) che spetta ai morti. Addormentatosi dopo il banchetto funebre, l’eroe vede in sogno l’amico, che lo esorta a celebrare il prima possibile il suo funerale: finché il suo cadavere non sarà bruciato, infatti, egli sarà respinto dagli altri defunti e costretto ad aggirarsi al di qua del fiume che segna il confine con il mondo dei morti1.

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Teseo e Piritoo prigionieri nell'Ade

Teseo e l’inseparabile amico Piritoo scendono agli inferi per rapire niente meno che Persefone, sposa di Hades, ma quando giungono nell’aldilà cadono in un tranello. Hades li invita a banchetto in modo apparentemente cortese, ma li fa sedere sul trono detto «dell’oblio». Teseo e Piritoo vi rimangono attaccati, trattenuti da indissolubili spire serpentine. Piritoo rimane per sempre prigioniero di Hades, mentre Teseo è successivamente liberato da Eracle1.

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Odisseo e le pene infernali

Nell’XI libro dell’Odissea1, Odisseo non solo evoca le ombre dei morti, ma ha anche una visione dell’Hades. Egli vede infatti anche il gigante Tizio, colpevole di aver violentato Leto, madre di Apollo e Artemide: egli giace disteso mentre due avvoltoi gli rodono il fegato. Il vecchio Tantalo, invece, soffre la fame e la sete pur essendo immerso in un lago sul quale si protendono alberi carichi di frutti, poiché ogni volta che tenta di bere o di mangiare l’acqua si ritira e i rami si allontanano. Di Tantalo Omero non racconta la colpa, tramandata invece da Pindaro2: secondo la versione più diffusa egli avrebbe imbandito la carne del figlio Pelope agli dèi. Il terzo eroe condannato a una pena senza fine è Sisifo, obbligato a spingere un enorme masso sul pendio di una collina dalla quale ricade ogni volta che ha raggiunto la sommità. Anche in questo caso Omero tace la colpa di Sisifo, che ci è invece svelata dallo storico Ferecide3, secondo il quale egli, unico tra i mortali, sarebbe sfuggito temporaneamente al mondo dei morti, e in seguito sarebbe riuscito a imprigionare addirittura Thanatos (il dio “morte”) .

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ercole_caco

A quel tempo, gli abitanti che vi risiedevano erano afflitti da un grande male: un altro mostro a tre teste, Caco, faceva razzie e uccideva gli abitanti dei dintorni. Questo mostro aveva una forza soprannaturale che gli uomini non potevano vincere. Ma Ercole, essere divino, ci riuscì. E questo accadde non solo perché Ercole avesse voglia di fare del bene agli abitanti del Lazio, ma anche perché il mostro aveva osato recargli danno. Mentre il nostro infatti si concedeva un pisolino, Caco rubò alcune delle preziose vacche tirandole per la coda e facendole camminare all’indietro fino a una grotta. Svegliatosi Ercole, cercò invano le vacche scomparse. Le orme degli animali indicavano infatti la direzione opposta e Ercole non riuscì a trovarle. Quando, nonostante la perdita, decise di rimettersi in cammino, le vacche, che gli erano rimaste, muggirono, e le altre, che si trovavano dentro la grotta, risposero rivelando così il loro nascondiglio. Allora Ercole si lanciò verso la grotta e, dopo aver rimosso la pesante pietra che serviva da porta, affrontò Caco tra vapori e fuliggine. Lottarono a lungo, alla fine Ercole ebbe la meglio e, ucciso il mostro, ne portò il cadavere all’aperto. Gli abitanti del Lazio, visto «il volto e il petto villoso di setole della mezza belva» giacere inerti, ringraziarono il benefattore e costruirono un grande altare in suo onore (l’Ara Maxima, che oggi si trova inglobata nella cripta della chiesa romana di Santa Maria in Cosmedin), presso il quale ogni anno si celebravano un grande sacrificio e un banchetto1.

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irieo_orione

Narra, così, di quando Giove e Mercurio, questa volta insieme a Nettuno, visitarono il contadino della Beozia Irieo, e lo ricambiarono dell’ospitalità rendendolo addirittura padre pur in assenza della moglie, morta da tempo. Fecondarono infatti con la loro urina, mescolata alla terra, la pelle di un bue da cui nacque un figlio, chiamato appunto Orione1.

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primo_lectisternium

«I duumviri dei sacri riti, fatto allora per la prima volta nella città di Roma un lectisternium, per otto giorni cercarono di placare Apollo, Latona, e Diana, Ercole, Mercurio e Nettuno, stesi su tre letti addobbati con la massima sontuosità che quei tempi consentivano. Tale sacrificio fu celebrato anche privatamente. Aperte in città tutte le porte delle case e posta ogni cosa all’aperto, a disposizione di chiunque volesse servirsene, si ospitarono i forestieri, a quanto si racconta, senza alcuna distinzione, noti e ignoti, e si conversò in modo affabile e bonario anche con i nemici; ci si astenne dalle dispute e dai litigi; si tolsero anche, in quei giorni, le catene ai carcerati, e ci si fece poi scrupolo di incatenare nuovamente coloro ai quali gli dei erano così venuti in aiuto».

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Edipo e Laio: l'esposizione, l'oracolo, il parricidio

Quando Giocasta partorisce, Laio fa prontamente esporre il bambino da un pastore, dopo avergli mutilato i piedi con punte di ferro1. L’uomo decide però di salvarlo affidandolo a un pastore di Corinto, che lo dona a sua volta alla coppia regale della città, Merope e Polibo, che non ha figli propri. Qui Edipo viene allevato fino al giorno in cui, nel corso di un banchetto, un compagno lo apostrofa ingiuriosamente come bastardo. Turbato da questa insinuazione, Edipo decide di cercare la verità recandosi a Delfi, dove riceve un responso ancora più sconvolgente: egli è destinato a divenire assassino del padre e sposo della madre. Edipo fugge allora il più lontano possibile da Corinto, ma finisce per incontrare il suo fato proprio quando si sente ormai al sicuro, sotto le spoglie di un vecchio re su un carro che gli nega il passo al crocicchio sulla strada tra Delfi e Tebe. Il vecchio infatti non è altri che Laio. Ostile e aggressivo verso il giovane sconosciuto, rifiuta di cedergli il passo e lo colpisce violentemente sulla testa con la sferza per i cavalli. Edipo allora è costretto a difendersi e uccide il vecchio con il suo bastone di viandante2.

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Odisseo e Telemaco progettano la strage dei proci

Odisseo prepara con Telemaco la strage dei Proci, gli domanda quanti e quali siano per poterli assalire insieme, loro due soltanto, con l’aiuto di Atena. Nell’ordire il piano Odisseo pretende dal figlio assoluta segretezza e chiede a Telemaco di precederlo a palazzo, dove egli arriverà come mendicante e dove il figlio dovrà sopportare che il padre venga umiliato senza reagire. A un cenno del suo capo toglierà le armi dalla sala dei banchetti, lasciando solo quelle per loro due1. Con l’aiuto di Atena il piano concertato tra padre e figlio andrà a segno2.

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Atreo e Tieste

Secondo un oracolo, a Micene doveva essere re un figlio di Pelope, quello che fosse in possesso del segno della regalità1. Ma la moglie di Atreo, Erope, tradisce il marito con il fratello Tieste, consegnandogli in dono il vello d’oro che era in suo possesso2; Atreo viene così ingiustamente costretto all’esilio, ma successivamente torna a Micene e caccia il fratello3. Quando poi Atreo scopre il tradimento della moglie Erope, decide di vendicarsi nel modo più orribile. Richiamato il fratello, lo invita a un banchetto di riconciliazione che si rivela in realtà una terribile trappola: uccisi i figli del fratello, Atreo li imbandisce come carni4. Tieste riconosce la verità, vomita il pasto sacrilego e rovescia la tavola pronunciando una maledizione sulla casa di Atreo: che questa possa essere rovesciata nello stesso modo5.

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Fedeltà coniugale di Lucrezia

Al tempo del re Tarquinio il Superbo alcuni ufficiali romani impegnati nell’assedio di Ardea decidono di montare a cavallo e di piombare a Roma e a Collazia – il piccolo centro da cui viene uno di essi, Lucio Tarquinio Collatino – per verificare come le loro donne trascorrano il tempo in assenza dei mariti. Ma mentre le altre mogli vengono sorprese nel mezzo di sontuosi banchetti in compagnia delle proprie coetanee, la sola moglie di c, Lucrezia, siede a tarda notte al centro dell’atrio, circondata dalle ancelle e impegnata nella filatura della lana. La bellezza e la castità di Lucrezia accendono però in Sesto Tarquinio, uno dei figli del re, il desiderio di possedere la donna. Trascorso qualche tempo, Sesto si presenta nuovamente a Collazia e viene accolto dall’ignara Lucrezia, cui fa violenza durante la notte vincendo la disperata resistenza della donna. L’indomani Lucrezia convoca i familiari e spiega loro l’accaduto, quindi si trafigge con un pugnale1.

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Differenze tra Romolo e Remo

In uno degli episodi che li vedono congiuntamente protagonisti, Romolo e Remo stanno celebrando un sacrificio in onore del dio Fauno quando vengono avvertiti che si è verificato un furto di bestiame nelle campagne circostanti e corrono in direzioni diverse. Remo in questo caso è più rapido e rientra prima del fratello nel luogo del sacrificio; lui e i suoi seguaci consumano allora le carni senza attendere l’arrivo di Romolo, al quale vengono lasciate le sole ossa1. In questo racconto (che costituisce il mito di fondazione dei Lupercalia, celebrati ogni anno il 15 febbraio da due gruppi di giovani che percorrono in direzioni opposte il perimetro del Palatino) Remo riesce dunque a risolvere più rapidamente del fratello la situazione di crisi per la quale è stato chiamato in causa; al tempo stesso, però, egli viola il principio della commensalità e dell’equa distribuzione delle carni fra due figure gerarchicamente paritetiche, impegnate nella celebrazione del medesimo rito. In un successivo momento della saga è invece Remo a lasciarsi catturare dai pastori di Alba Longa e Romolo a organizzare le forze in vista della sua liberazione; lo stesso nome Remus viene connesso da una parte della tradizione all’aggettivo remores, con il quale si designavano gli individui caratterizzati da lentezza nel corpo e ottusità nella mente2.

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