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Miti

Il coraggio di Clelia

Tra gli ostaggi di Porsenna vi erano anche ragazze di nobili famiglie romane. Una di queste, Clelia, ebbe l'ardire di scappare, insieme alle sue compagne, attraversando a nuoto il Tevere, mentre i nemici le scagliavano contro una fitta pioggia di dardi. Porsenna in un primo momento chiese la restituzione di Clelia, poi iniziò a provare ammirazione per il coraggio della fanciulla e fece sapere ai Romani che, se avessero consegnato l’ostaggio, lo avrebbe rimandato illeso. In segno di rispetto della parola data i Romani cedettero Clelia a Porsenna, che non solo ne lodò il comportamento, ma le concesse la metà degli ostaggi. Anche i Romani apprezzarono l’impresa di Clelia e premiarono il suo coraggio con un nuovo genere di onore, una statua equestre sulla via Sacra1.

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Anna Perenna sfama la plebe

Quando la plebe si rifugia sul monte Sacro e il cibo inizia a scarseggiare, una vecchia di nome Anna, povera ma di grande alacrità, si mette a preparare con mano tremante delle focacce rustiche che, ogni mattino, distribuisce fumanti al popolo. La plebe è così riconoscente alla sua generosità, che, ritornata la pace, le dedicò una statua in ricordo dell’aiuto che quella aveva portato loro1.

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Stupro di Cassandra

Cassandra, la vergine figlia di Ecuba e Priamo, è amata da Apollo che le fa dono della virtù profetica in cambio della rinuncia alla sua verginità, accettando di unirsi a lui. Ma dopo avere ricevuto il dono della profezia, rifiuta di concedersi al dio che, irato, la punisce togliendole la capacità di persuadere gli altri della veridicità delle sue previsioni sul futuro. Un altro episodio di violenza aggressiva contrassegna la vicenda di Cassandra, in quanto Aiace Oileo, con un atto sacrilego, viola la sua verginità quando, durante il sacco di Troia, si era rifugiata presso il tempio di Atena, aggrappata alla statua della dea. Ma Aiace la strappa via facendo vacillare il simulacro divino, provocando così la collera di Atena1.

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Castigo di Cassandra

La troiana Cassandra, giovane figlia di Priamo e di Ecuba, rifiutò di unirsi al dio Apollo che le aveva insegnato l’arte della mantica. Come ritorsione, il dio tolse credibilità ai suoi vaticini. Nel corso dell’assedio a Troia, fu inseguita e violentata dal locrese Aiace sotto la statua di Atena che, incapace di sostenere la vista della scena, volse indietro gli occhi. Nelle Troiane di Euripide, all’interno di un drammatico confronto tra Atena e Poseidone, la dea spiega il suo sdegno nei confronti degli Achei che fino ad allora aveva sostenuto, perché non punirono mai l’eroe per l’atto di hybris commesso nei suoi confronti e all’interno del suo santuario1.

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Trimalcione e lo schiavo

Trimalcione aveva invitato a cena molti ospiti, tra cui Abinna, che sovrintendeva ai lavori per la costruzione di quella che sarebbe stata la sua tomba monumentale. «Mi raccomando», aveva appena finito di dire, «alla mia destra voglio la statua di mia moglie Fortunata che regge una colomba». Proprio allora, tra i vari servitori, entrò uno schiavetto niente affatto brutto. Trimalcione gli si getta addosso e inizia a baciarlo. In tutta risposta, Fortunata prende a insultare il marito, chiamandolo sporcaccione e svergognato, poiché non è in grado di contenere la sua libidine. Trimalcione, offeso da quel rimbrotto, le rovescia in faccia il contenuto del suo calice, e di nuovo giù a litigare. Lei lo accusa di averle fatto quasi perdere un occhio, lui si difende dicendo di aver baciato un ragazzo assolutamente morigerato, non per la sua bellezza, ma per la sua sobrietà, un giovane degno di tanta attenzione. Del resto, lui stesso, a quattordici anni, era stato il favorito del suo padrone – non è mica vergognoso fare quello che il padrone ordina – e al contempo anche della padrona. E così era diventato il signore di quella casa, tanto che il padrone lo aveva nominato coerede del suo patrimonio. Ma Fortunata, intanto, è scoppiata a piangere e non dà segno di calmarsi. Così Trimalcione, esasperato, sbotta: «Ho cambiato idea, Abinna. Ricordati di non mettere nella mia tomba la statua di questa qui. Non sia mai che anche da morto mi tocchi litigare!»1.

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Atteone muore sbranato dai propri cani

Atteone è figlio di Autonoe e di Aristeo ma era stato allevato Centauro Chirone, dal quale aveva imparato tutti i segreti della caccia, che praticava sul monte Citerone in Beozia. Le fonti più antiche raccontano che le sue disgrazie erano iniziate quando aveva fatto arrabbiare Zeus, insidiando Semele; ma la versione più diffusa lo vuole invece in contrasto con Artemide, dea dei boschi, degli animali selvatici, e delle fasi giovanili (pre-matrimoniali) della vita umana. Secondi alcuni Artemide lo prende di mira perché si era vantato di saper cacciare meglio di lei1; secondo altri, invece, perché – volente o per sbaglio – l’aveva vista mentre nuda faceva il bagno2, violando con il suo sguardo la proverbiale refrattarietà della dea (eternamente vergine) al desiderio maschile. Per punire il ragazzo Artemide decide allora di agire sui suoi cani: li fa improvvisamente impazzire, inviando loro un attacco di rabbia per cui non riconoscono il ragazzo e lo attaccano3; ovvero trasforma Atteone in un cervo, ingannando così i cani che lo azzannano pensando di sbranare la preda. Ma la storia non finisce con la morte dello sfortunato giovane. Dei numerosi segugi che formavano la sua muta, sappiamo che, riavutisi dall’allucinazione provocata dalla dea, avevano cercato disperatamente il loro compagno, riempiendo le selve di ululati strazianti. Giunti finalmente presso l’antro del Centauro Chirone, ne suscitarono la compassione al punto che egli costruì un’immagine del ragazzo per lenire così la loro struggente nostalgia4.

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Il poeta Arione salvato dal delfino

Arione originario di Metimna (sull’isola di Lesbo) era un famoso citaredo, che girava in tournée per il Mediterraneo. Da Corinto, dove era accolto alla corte del tiranno Periandro, era partito alla volta dell’Italia e della Sicilia per una serie di spettacoli. Vi aveva guadagnato parecchi soldi. Imbarcatosi poi su di una nave corinzia per ritornare in Grecia, fu vittima di un’imboscata da parte dell’equipaggio che, volendosi impossessare dei suoi denari, gli intimò di uccidersi o di gettarsi in mare. Egli disse che si sarebbe tuffato fra i flutti ma chiese di potersi esibire un’ultima volta. Acconsentirono: abbigliatosi come si addiceva a un performer di successo, si mise a suonare e cantare, mentre i marinai lo ascoltavano estasiati. Poi si gettò in mare, tutto agghindato com’era. Credendo che fosse morto, la ciurma fece vela verso Corinto per godersi il frutto della rapina. Ma Arione si era salvato, nonostante fosse appesantito da tutto l’apparato che indossava, perché un delfino lo aveva preso in groppa e portato a nuoto fino a capo Tenaro. I briganti furono puniti mentre, per onorare il delfino e ricordare il prodigioso salvataggio, Arione fece erigere a capo Tenaro una statua in bronzo raffigurante un uomo sulla groppa di un delfino1. Secondo una versione assai più dettagliata dei fatti, il poeta – per la fretta di tornare a Corinto – non aveva risospinto in mare l’animale il quale era quindi morto sulla riva: il tiranno, saputo l’accaduto, aveva allora ordinato di erigergli una tomba e aveva convocato i marinai briganti proprio in quel luogo, facendoli giurare «per i mani del delfino» ([lq:per delphini manes) che Arione era morto. A quel punto, il poeta era uscito dal sepolcro, sbugiardandoli. Mentre i delinquenti furono crucifissi in loco, il delfino ebbe addirittura l’onore di essere trasformato in costellazione dagli dèi2.

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Integrazione di Esculapio a Roma

Nel 293 a. c. una pestilenza infuriava nel Lazio. Stremati dai lutti i Romani mandarono a consultare l’oracolo di Delfi, che rispose in questo modo: «Ciò che qui cerchi, Romano, avresti dovuto cercarlo in luogo più vicino! E dunque in luogo più vicino cercalo. Per ridurre i tuoi lutti non di Apollo, ma del figlio di Apollo hai bisogno». Il Senato, ottenuto il responso, fece indagare sul luogo in cui viveva il figlio di Apollo, finché inviò i propri messaggeri a Epidauro. In questa città infatti era onorato Esculapio (Asklepios per i Greci, Aesculapius per i Romani), divinità della medicina, il figlio di Apollo e della ninfa Coronide. Giunti a Epidauro gli ambasciatori si presentarono al consiglio e pregarono che fosse loro concesso il dio, affinché con il proprio attivo intervento (praesens) ponesse fine al flagello. La maggioranza era contraria a lasciar partire la divinità, ma durante la notte al Romano apparve Esculapio, in tutto simile alla statua custodita nel tempio. Con la destra tiene un bastone, con la sinistra si liscia la lunga barba: «lascerò il mio simulacro» dice «ma osserva bene il serpente che si attorciglia intorno al mio bastone, così domani potrai riconoscerlo». Ciò detto la visione si dilegua. Il giorno dopo gli anziani di Epidauro, ancora incerti sulla decisione da prendere, si riuniscono nel tempio e chiedono che sia Esculapio stesso a esprimere il proprio volere attraverso un segno divino. Ed ecco che un grande serpente, irto di creste d’oro, si avanza sibilando, suscitando il terrore dei presenti. Ma il sacerdote riconosce la divinità e tutti venerano il numen che ha voluto manifestarsi in questo modo. Il serpente / Esculapio annuisce (adnuit) con le creste e fa vibrare la lingua, confermando in questo modo il proprio “impegno” (rata pignora) a seguire gli ambasciatori: scivolato fuori dal tempio, si imbarca sulla nave romana che lo condurrà fino all’isola Tiberina, là dove sorgerà il suo tempio1. In un’altra versione del racconto è ancora il serpente sacro al dio che, pur senza manifestare proporzioni e attributi visibilmente soprannaturali, sale spontaneamente sulla nave dei Romani2.

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La madre degli dei arriva a Roma

In una delle fasi più drammatiche della seconda guerra punica, infatti, fu richiesto il suo trasferimento a Roma, dove la dea sarebbe stata onorata col nome di Mater magna. In quell’occasione furono consultati gli Oracoli Sibillini, che così recitarono: «La madre manca, o Romani, la madre v’ordino di cercare. Quando verrà con casta mano sia accolta». L’oracolo di Delfi, consultato a sua volta per sciogliere l’ambiguità dell’oracolo, indicò che la “madre” di cui andare in cerca era la Madre degli dèi. Inizialmente Attalo I, il re di Pergamo, si oppose alla richiesta, ma la dea stessa parlò dai penetrali del proprio tempio, invitandolo a lasciarla andare nella città «degna di accogliere qualsiasi divinità». Il nero simulacro della Mater magna venne dunque imbarcato su una nave, costruita per l’occasione, e navigò tranquillo fino alle foci del Tevere, dove trovò ad attenderla cavalieri, senatori e plebe di Roma. A questo punto però la nave si incagliò, e a dispetto di ogni sforzo, non ci fu più modo di farla proseguire. Turbati dal prodigio gli uomini, spossati, abbandonano le funi con cui avevano invano tentato di disincagliare l’imbarcazione. Vi era tra i presenti Claudia Quinta, nobile discendente del vecchio Clauso, donna elegante e onesta, ma sulla cui castità correvano voci maligne. Staccatasi dal gruppo delle matrone, Claudia prima compie un gesto di purificazione, bagnandosi con l’acqua del fiume, dopo di che, inginocchiata e con i capelli sciolti, prega la dea di comprovare davanti a tutti la propria castità. Pronunziate queste parole Claudia tirò senza sforzo la corda e il viaggio della Mater riprese felicemente fino alla destinazione finale1.

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camillo_giunone

Dopo aver preso gli auspici e aver ordinato ai soldati di armarsi, il dittatore Camillo disse: «mi accingo a distruggere Veio per tuo impulso, Apollo Pizio, e a te prometto solennemente (voveo) la decima parte del bottino. E prego te, Giunone Regina, che ora hai in tutela Veio, di seguirci vincitori nella città che accoglierà anche te, in un tempio degno della tua grandezza». I Veienti ignorano che gli dèi li hanno abbandonati e che già aspirano a nuovi templi nella città vincitrice: combattono valorosamente, ma alla fine, in un ulteriore intreccio di prodigi sfavorevoli, la città cade in mano romana. I vincitori si accingono a portar via le prede di cui si sono impadroniti, e giunge il momento di trasportare a Roma anche la statua di Giunone Regina: ma «più alla maniera di chi venera, che non di chi rapisce». Un gruppo di giovani, dopo essersi purificati e con indosso una veste candida, pieni di religioso rispetto si accingono a metter mano al simulacro della dea, che secondo il costume etrusco nessuno aveva il diritto di toccare se non il sacerdote di una certa gens. Uno di essi, non si sa per divina ispirazione o per gioco, chiese: «vuoi venire a Roma, Giunone?». Tutti i presenti esclamarono che a queste parole la dea aveva annuito (adnuisse), altri dissero addirittura che aveva parlato, esprimendo a voce il proprio assenso. Dopo di ciò la statua fu portata via senza bisogno di macchinari particolari, «facile e lieve», per essere condotta sull’Aventino dove il voto di Camillo l’aveva destinata: e dove egli stesso consacrò il tempio a lei dedicato1.

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enea_latino

Quando Enea arriva nel Lazio si rivolge proprio a lui per stipulare un’alleanza. L’incontro permette a Enea di accedere al palazzo regale di Latino in cui vede che le statue lignee rappresentanti gli antenati divini e umani condividono lo stesso spazio, sono disposte cioè le une dopo le altre senza soluzione di continuità1.

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Contesa per la fondazione di Roma e morte di Remo

Dalla cima dell’Aventino Remo scorge per primo sei avvoltoi, ma Romolo, che aveva invece scelto come punto di osservazione il Palatino, ne vede un numero doppio ed esce vincitore dalla contesa. Quando Romolo prende a innalzare le mura della nuova città, Remo irride all’iniziativa del fratello e scavalca facilmente la cerchia ancora in costruzione, venendo per questo ucciso da Romolo, monito per chiunque in futuro oserà violare la cinta urbana. Questa versione presenta peraltro una serie di varianti, volte ad attenuare o cancellare l’elemento disturbante del fratricidio: talora l’uccisione di Remo è imputata all’iniziativa di un certo Celere, variamente identificato in uno dei lavoranti impegnati nella costruzione del muro, nell’individuo che presiedeva alla costruzione stessa o in un ufficiale dell’esercito o della cavalleria. Altre versioni fanno invece perire Remo in un momento precedente, nel corso dei disordini succeduti alla presa degli auspici, e un racconto isolato parla persino di un Remo sopravvissuto alla morte del fratello. La coppia gemellare, disfatta dal fratricidio, si ricostituisce peraltro in effigie: dopo la scomparsa di Remo scoppia una pestilenza, oppure si verificano terremoti o disordini, che gli oracoli ordinano di espiare attraverso la costruzione di una statua d’oro di Remo da collocare accanto al trono romuleo1.

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