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Miti

L'inospitalità dei Bebrici

Durante la traversata degli Argonauti verso la Colchide, Giasone e i suoi compagni giungono nel paese dei Bebrici, a ovest del Bosforo. Non fanno in tempo a sbarcare che l’arrogante e crudele signore locale, Amico, informa i nuovi arrivati sull’indegna legge del posto: gli stranieri non possono ripartire senza che uno di essi abbia affrontato Amico al pugilato. Offeso dalla mala accoglienza di Amico, Polluce – secondo la tradizione eccellente pugilatore – si offre volontario, e inizia così lo scontro. Alla forza bruta di Amico, che cerca di fargli paura continuando ad attaccare nell’intento di ucciderlo, Polluce contrappone la sua intelligenza (metis) che gli permette di schivare i colpi e si rivela infine vittoriosa: dopo aver compreso le mosse del nemico, l’eroe lo colpisce di soppiatto all’orecchio, spezzandogli il collo. Alla morte del loro sovrano i Bebrici cercano di vendicarsi, ma vengono rapidamente messi in fuga dagli Argonauti come pecore da un branco di lupi. La giornata si conclude con un inno intonato da Orfeo in onore dell’eroe1.

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Cassandra, una straniera alla reggia di Argo

Argo. Reggia degli Atridi. Clitennestra accoglie Agamennone al ritorno da Troia. Disperata per l’uccisione della figlia Ifigenia, la regina ha segretamente preparato l’omicidio del marito e della sua concubina Cassandra, figlia di Priamo e sacerdotessa di Apollo, che Agamennone ha portato come bottino da Troia. Clitennestra dissimula i suoi propositi e dispone per l’eroe un’accoglienza fastosa. Agamennone prega la moglie di voler accogliere Cassandra in casa, perciò Clitennestra le si rivolge invitandola a scendere dal carro e a sopportare la sua condizione di schiavitù. Ma Cassandra resta ferma sul carro, in silenzio. Clitennestra e con lei il coro degli anziani di Argo credono che la donna non reagisca perché non capisce il greco: la regina allora rientra in casa, irritata dall’atteggiamento apparentemente superbo della profetessa; il coro invece esprime pietà per la prigioniera. A un certo punto Cassandra si alza e si muove verso la reggia, intonando un lungo grido inarticolato e invocando Apollo. Con parole oscure e nel mezzo dello stupore generale profetizza tutto quanto sta per succedere, ovvero la sua morte e quella di Agamennone per mano di Clitennestra, ma anche le successive disgrazie che colpiranno la discendenza degli Atridi1.

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Dioniso, il dio lo straniero, arriva a Tebe

All’arrivo di Dioniso a Tebe, le donne tebane negano che egli sia un dio: sono infatti convinte che Semele abbia mentito e che invece di unirsi a Zeus abbia avuto una relazione con un comune mortale. Per questo Dioniso le ha punite rendendole folli e spingendole sul Citerone a compiere riti bacchici: a guidare i riti è ora Agave, sorella di Semele e madre di Penteo, al quale Cadmo aveva affidato il regno. Cadmo e Tiresia, ormai vecchi, sapendo di non potersi opporre alla divinità partecipano alle danze in onore del dio. Penteo invece, adirato, fa catturare e imprigionare alcune baccanti. Dioniso in persona entra allora a Tebe avendo assunto le sembianze di un giovane proveniente dalla Lidia, si lascia catturare dal re che lo ritiene responsabile della diffusione dei misteri e dei riti orgiastici, continuando a negare la divinità di Dioniso. Il giovane, stimolando la curiosità di Penteo, lo persuade facilmente a travestirsi da donna e ad andare a spiare le Baccanti sul monte. Agave e le sue sorelle non riconoscono l’uomo e, scambiandolo per una bestia feroce, lo dilaniano, facendolo a brandelli. Agave stessa torna a Tebe reggendo esultante la testa del figlio. È infine Cadmo che fa rientrare Agave in sé: la donna, disperata, è sopraffatta dall’orrore per quanto ha compiuto. L’intera città è così messa in guardia dai pericoli derivanti dal disprezzare la divinità e dal rifiutarle un culto (Euripide, Bacch.).

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Tarpea

Lo sdegno dovuto al ratto delle loro donne induce gli abitanti di tre città della Sabina (Cenina, Crustumerio e Antemne) a imbracciare le armi contro Roma. Dopo che le loro spedizioni si rivelano fallimentari, un più vasto conflitto è scatenato da Tito Tazio, re della città di Curi e figura egemone presso tutti i Sabini. A differenza dei suoi predecessori, Tazio ricorre a un piano lucido, spinto fino all’inganno. La guerra ha inizio con un curioso colpo di mano: Tarpea, la giovane figlia del custode del Campidoglio, Spurio Tarpeo, si reca a prendere dell’acqua per una cerimonia sacra e in questa occasione si lascia corrompere dall’oro del nemico. La donna consente ai Sabini di impossessarsi della rocca, ma una volta ottenuto l’ambito accesso, questi la uccidono brutalmente, lanciandole addosso i loro pesanti scudi fino a soffocarla: prima di spalancare proditoriamente le porte della rocca, Tarpea aveva infatti chiesto come contraccambio ciò che i Sabini portavano al braccio sinistro. La giovane avrebbe inteso riferirsi in questo modo ai bracciali d’oro e agli anelli preziosi che i Sabini usavano indossare; ma poiché anche gli scudi venivano tradizionalmente sostenuti col braccio sinistro, la richiesta di Tarpea poté agevolmente prestarsi a un macabro e deliberato malinteso. Non mancano peraltro versioni del racconto secondo cui, lungi dall’essere una traditrice, Tarpea avrebbe tentato di far cadere in trappola i nemici in forza del suo ambiguo riferimento alla mano sinistra: ella avrebbe realmente mirato alla consegna degli scudi dopo l’ingresso in Campidoglio, fidando nell’imminente arrivo delle truppe romane sui Sabini disarmati, ma Tazio e i suoi avrebbero colto l’intenzione fraudolenta e optato per un sanguinario “contro-dono”12.

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Il sacrificio, tra verginità e matrimonio

Al momento fatale in cui il coltello sta per colpire il collo di Ifigenia immolata sull’altare in Aulide, Artemide sostituisce la fanciulla con una cerva, la trasferisce nel selvaggio paese dei Tauri, ne fa la sua sacerdotessa addetta al sacrificio degli stranieri che si accostano a questa terra. Ma da qui Ifigenia riesce a fuggire col fratello Oreste e a lei, ormai in salvo, Atena predice la fondazione del rituale di Brauron in onore della dea Artemide, dove otterrà un heroon con speciali tributi1. In un altro mito eziologico del rituale brauronio, un’orsa, introdottasi nel santuario di Artemide, viene uccisa; ne consegue una pestilenza e, per riparazione, le fanciulle, prima di sposarsi, devono "fare l’orsa"2. Analogamente, nel mito cultuale di Munichia viene uccisa un’orsa nel santuario di Artemide, cosa che provoca una pestilenza; un oracolo ordina di sacrificare una vergine alla dea, e un tal Embaro offre la propria figlia in cambio del sacerdozio perpetuo per la sua famiglia, ma invece nasconde la fanciulla e al suo posto sacrifica una capra camuffata con i suoi abiti; da questo sacrificio, accolto nonostante il carattere ingannevole, deriva un rituale del tipo della arkteia a Brauron (Suda, s.v. Embaros eimi).

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L'asino Lucio comprato dai cinaedi

Il povero Lucio, trasformato in asino, sta per essere venduto. Quando vede il suo compratore, si accorge che si trattava di un uomo devoto alla dea Siria e insieme di un vecchio cinaedus. In effetti, giunto a casa, l’uomo spalanca la porta e urla: «Ragazze! Guardate un po’che bel servetto vi ho portato dal mercato». Ma le ragazze non erano altro che un corteo di cinaedi come lui, che alla vista dell’asino saltano di gioia, fanno urletti e strepitano, tutti eccitati. Lucio viene condotto fuori e legato nei pressi della mangiatoia. Lì vicino c’è un giovane schiavo, piuttosto corpulento. Quando vede l’asino, sospira rincuorato: «Sei venuto, finalmente, a darmi manforte in questo duro lavoro! Che tu possa vivere a lungo, piacere ai padroni e dare così sollievo alla mia povera schiena!». Il giovane, infatti, era il concubino di quei mezzi uomini; e non era il solo. Un giorno, dopo essersi vestiti di colori sgargianti e truccati in volto e sugli occhi, tornano portandosi dietro un robusto contadino, oggetto del loro illecito piacere, che cercano di eccitare in ogni modo. Lucio, non potendo sopportare le abominevoli pratiche cui era costretto ad assistere, tenta di urlare, ma tutto quello che ottiene è un raglio, comunque sufficiente a far accorrere i vicini1.

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Poesia e purificazione a Sparta

Nel VII secolo a.C. Sparta vive varie crisi ed è visitata e risollevata da due poeti-purificatori stranieri: Terpandro di Antissa fu chiamato da Lesbo, mentre la città era in preda a una lotta intestina, e con la sua musica pose fine alla discordia civile; da Creta, invece, fu chiamato Taleta di Gortina, che pure con la musica guarì la città da una terribile pestilenza1.

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L'altare sacrificale prodigioso di Erice

Sulla vetta del monte Erice, nella Sicilia nord-occidentale, si erge un altare (bomos) di Afrodite. È il più grande altare a cielo aperto che esista per via del gran numero di vittime che, ogni giorno dell’anno, le genti del luogo e gli stranieri bruciano in onore della dea, da mattina fino a sera. L’offerente sceglie e acquista la vittima direttamente sul posto: se Afrodite accetta il sacrificio, l’animale si reca spontaneamente all’altare sotto la guida della dea; in caso contrario, scompare. Il giorno seguente, al sorgere delle prime luci dell’alba, i resti dei sacrifici del giorno prima non sono più visibili, e l’altare risulta interamente ricoperto di rugiada e di un’erba fresca, che ricresce ogni notte1.

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primo_lectisternium

«I duumviri dei sacri riti, fatto allora per la prima volta nella città di Roma un lectisternium, per otto giorni cercarono di placare Apollo, Latona, e Diana, Ercole, Mercurio e Nettuno, stesi su tre letti addobbati con la massima sontuosità che quei tempi consentivano. Tale sacrificio fu celebrato anche privatamente. Aperte in città tutte le porte delle case e posta ogni cosa all’aperto, a disposizione di chiunque volesse servirsene, si ospitarono i forestieri, a quanto si racconta, senza alcuna distinzione, noti e ignoti, e si conversò in modo affabile e bonario anche con i nemici; ci si astenne dalle dispute e dai litigi; si tolsero anche, in quei giorni, le catene ai carcerati, e ci si fece poi scrupolo di incatenare nuovamente coloro ai quali gli dei erano così venuti in aiuto».

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Polinice contro Eteocle

Dal matrimonio incestuoso fra Edipo e Giocasta nascono due figlie, Antigone e Ismene, e due figli, Eteocle e Polinice. Dopo l’allontanamento di Edipo il regno di Tebe è retto da Creonte, ma ben presto tra i due fratelli si apre la lotta per il trono. Al netto delle diverse varianti del racconto, il mito racconta come Polinice raccogliesse ad Argo un esercito alleato, guidato da sette campioni, e attaccasse la sua città natale schierando per ognuna delle porte di Tebe un guerriero argivo. Eteocle a sua volta scelse un campione tebano per ogni porta; quando seppe che alla settima porta era schierato Polinice, decise di fronteggiare egli stesso il fratello. Fu così che Eteocle e Polinice si uccisero l’un l’altro in duello1.

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Antigone seppellisce Polinice

Dopo che Eteocle e Polinice si sono uccisi a vicenda, il primo viene sepolto con onore nella città di Tebe, che ha difeso a costo della propria vita. Quanto a Polinice, traditore della patria, lo zio Creonte, regnante a Tebe, emana un bando per vietarne la sepoltura, pena la morte. La sorella Antigone decide senza indugi di infrangere l’ordine e aggira la sorveglianza delle guardie per dare al fratello una sepoltura, sia pure simbolica; quando infine viene scoperta, persiste nella sua volontà di onorare il fratello, con una decisione che la porterà alla condanna a morte. Dopo uno straziante addio alla vita, Antigone viene rinchiusa in una caverna, seguita ben presto dal fidanzato Emone, figlio dello stesso Creonte, che disperato si dà la morte1.

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Romolo organizza il ratto delle Sabine

Romolo capisce ben presto che la città da lui fondata non avrebbe superato la prima generazione per l’assoluta mancanza di donne. In un primo tempo invia delegazioni presso le città limitrofe a chiedere loro di «mescolare la stirpe», ma le risposte ricevute sono sprezzanti; il fondatore decide allora di ricorrere all’astuzia. Organizza a Roma un grande spettacolo, al quale sono invitati i popoli vicini; a un segnale convenuto i giovani romani si lanciano sulle donne presenti, avendo cura di rapire solo le vergini. Le ragazze sono quindi condotte alla presenza di Romolo, che le unisce in matrimonio ad altrettanti cittadini, invitandole ad amare i mariti che la sorte ha assegnato a ciascuna1.

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I Latini vengono spinti all'esogamia

Nella città del re Latino si verifica un singolare prodigio: sull’alloro sacro posto al centro della reggia si era infatti installato uno sciame di api. L’indovino di corte spiega che il fenomeno preannuncia l’arrivo di un gruppo di stranieri: sono appunto i Troiani di Enea, i cui primi ambasciatori entrano infatti in scena di lì a poco. L’oracolo di Fauno, dio fatidico e padre dello stesso Latino, conferma l’interpretazione del prodigio e mette in guarda il re dal cedere Lavinia a un partner locale, perché il futuro genero del re verrà da lontano1. È intorno a questo vaticinio che si accende il conflitto con la regina Amata, che ha scelto per la figlia un partner, Turno, che non solo appartiene alla consanguinea popolazione dei Rutuli, ma è legato alla stessa Amata da uno stretto rapporto di parentela, in quanto figlio di sua sorella Venilia.

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Ceculo discende da Vulcano

A Preneste vivono due fratelli, forse divinità locali; la loro sorella, mentre siede presso la fiamma di un focolare, è colpita da una scintilla e in seguito a questo episodio rimane incinta. Dopo il parto, il bambino viene esposto nel tempio di Giove e qui ritrovato da alcune sacerdotesse; ha gli occhi più piccoli del normale per via del fumo che sale dal focolare acceso in permanenza nel santuario e per questo viene chiamato Ceculo, il “Piccolo cieco”, e considerato figlio di Vulcano, il dio che governa il fuoco. Sin qui la vicenda di Ceculo è dunque del tutto analoga a quella di tanti altri eroi fondatori: concepiti in modo anomalo, spesso esposti dopo la loro nascita ma capaci di sopravvivere in seguito a eventi in apparenza fortuiti, che segnalano in realtà la benevolenza divina nei loro confronti e la forza irresistibile del fato che li destina a grandi cose. Dopo un’adolescenza trascorsa nelle campagne dei Lazio e nella pratica del brigantaggio, Ceculo decide di fondare una città alla quale dà il nome di Preneste e per popolarla organizza uno spettacolo cui invita i popoli confinanti, chiedendo loro di abitare con lui in ragione della sua origine divina. La rivendicazione viene confermata dallo stesso Vulcano, che avvolge con un cerchio di fiamme la moltitudine confluita a Preneste1.

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