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Miti

Perseo contro Medusa

Polidette, re di Serifo, si era innamorato di Danae, la madre di Perseo. Per potere sedurre la donna aveva bisogno di allontanarne il figlio o, ancora meglio, di eliminarlo: per questo gli impone di portargli la testa della Gorgone. Perseo, dopo essersi procurato dalle Ninfe i sandali alati, una speciale bisaccia (la kibisis) e l’elmo dell’invisibilità di Ade, giunse a volo sull’Oceano e trovò le tre Gorgoni (Steno, Euriale e Medusa; quest’ultima era l’unica mortale delle tre) immerse nel sonno. Le Gorgoni avevano teste avvolte da scaglie di serpenti, zanne grosse come quelle dei cinghiali, mani di bronzo e ali d’oro con cui potevano volare. Tramutavano in pietra coloro che le guardavano. Perseo, guidato e aiutato da Atena, si avvicinò alle Gorgoni addormentate e, tenendo la testa girata e lo sguardo rivolto a uno scudo di bronzo in cui vedeva riflessa l’immagine di Medusa e le tagliò la testa. Quando la testa della Gorgone fu troncata, dal suo corpo balzò fuori Pegaso, il cavallo alato, e Crisaore, padre di Gerione, che essa aveva concepito da Poseidone. Perseo mise la testa della Medusa nella kibisis e tornò indietro, sfuggendo all’inseguimento delle due Gorgoni superstiti grazie all’elmo che lo rendeva invisibile1.

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Le Graie e l’unico occhio condiviso

Le Graie, le Vecchie, sono sorelle delle Gorgoni, nate già canute, con un solo occhio e un solo dente per tutte e tre, che si scambiano l’una con l’altra. In loro si imbatte Perseo, incaricato di uccidere Medusa, il quale riesce a impadronirsi di occhio e dente, dicendo che li avrebbe restituiti solo se gli avessero indicato la via per recarsi da certe Ninfe, dalle quali ottenere l’equipaggiamento per uccidere Medusa (sandali alati, una bisaccia e un elmo). Conosciuta la via, restituisce occhio e dente1.

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Erisittone e la Fame divina

Un giorno il re Erisittone, che era solito disprezzare gli dèi, profanò con la scure un bosco sacro a Cerere. Quest’ultima gli predisse una punizione, ma Erisittone portò avanti comunque il suo delitto. Tutte le Driadi allora, Ninfe degli alberi, pregarono Cerere di punirlo facendolo dilaniare dalla Fame. Questa ha capelli ispidi, occhi infossati, un pallore sul volto, labbra biancastre per l’inedia, fauci rognose per la muffa e pelle ruvida attraverso la quale si possono scorgere gli organi interni; dalle anche incurvate le sporgono ossa scarne, la magrezza fa apparire più grandi le articolazioni, le rotule delle ginocchia sono gonfie e i malleoli le sporgono con eccessiva protuberanza. Cerere acconsentì alla richiesta e, mentre Erisittone dormiva, Fame si insinuò in lui e sparse nelle sue vene una sensazione di digiuno. Al risveglio, un ardente desiderio di mangiare gli incendiò le viscere. Il re iniziò allora a cibarsi di ogni tipo di alimento, fino ad assottigliare le sue ricchezze, ma quella funesta fame non si attenuava e l’ardore della gola, impossibile da sedare, si manteneva vivo. Infine, poiché la violenza del male aveva consumato ogni risorsa, prese a strapparsi a morsi le sue stesse membra e a nutrirsi del suo stesso corpo1.

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Idmone e il cinghiale nella palude

L’indovino Idmone partecipa all’impresa degli Argonauti pur sapendo che non sarebbe tornato in patria. Durante la sosta presso Lico, re dei Mariandini, l’eroe viene colpito a morte da un cinghiale che si nascondeva nel canneto di una palude1. Significativa è la menzione in questo contesto anche delle Ninfe: come i boschi, anche le paludi erano infatti popolate di queste creature (le Limniadi), che in questo caso sono esse stesse intimorite dalla fiera. All’accorrere degli altri eroi segue la sconfitta del cinghiale.

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Il canto del dio Tiberino per Olibrio e Probino

Nel 395, allorché si celebrava il consolato di Olibrio e Probino, apparvero fuochi nel cielo e rimbombarono in segno d’assenso i tuoni di Giove. Tiberino, richiamato da quel suono, lasciò la sua grotta e, seguendo il corso del fiume, discese fino all’isola Tiberina. Lì intonò una lode ai due fratelli, chiedendo alle Ninfe di convocare tutti i fiumi italici, affinché presiedessero al banchetto della festa1.

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Giuturna, Lara e il castigo del silenzio

Un tempo Giove si innamorò di Giuturna, che però gli sfuggiva nascondendosi tra i boschi e nelle profondità dell’acqua. Il dio convocò allora le Ninfe del Lazio, chiedendo loro di bloccare la fanciulla sull’orlo del Tevere. Tutte obbedirono tranne Lara, che informò dell’accaduto non solo Giuturna ma anche Giunone. Per aver parlato oltre misura, il dio la punì strappandole la lingua e relegandola alla palude infera1. A Giuturna, invece, Giove conferì lo statuto di divinità dei fiumi e dei laghi2.

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Il regno d’oro di Saturno nel Lazio

Saturno, scacciato da Giove, aveva trovato riparo nel Lazio, allora ricoperto di boschi e abitato da Fauni e Ninfe e da un popolo nato dai tronchi degli alberi, privo di costumi e tradizioni, ignaro di ogni arte, che viveva disperso sui monti. Saturno riunì queste rozze genti e diede loro delle leggi. L’età del suo regno fu chiamata “aurea” poiché allora regnava la pace tra il suo popolo1.

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