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Miti

Nascita degli Sparti

Alla vana ricerca della sorella Europa, Cadmo riceve da Apollo l’ordine di prendere come guida una vacca e fondare una città là dove questa si fosse fermata. Viene così fondata la Cadmea. Volendo sacrificare la vacca ad Atena, l’eroe invia alcuni suoi compagni ad attingere acqua alla fonte di Ares, ma la maggior parte di costoro è sterminata da un serpente posto a custodia del luogo. Cadmo, adirato, uccide a sua volta l’animale e su consiglio di Atena o di Ares semina i denti serpentini. Da questi spuntano dalla terra degli uomini armati, gli Sparti, che iniziano a combattere tra loro e si uccidono a vicenda. Allo scontro sopravvivono cinque Sparti, dai quali discendono le principali famiglie dell’aristocrazia tebana1.

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Nascita di Asclepio

La tessala Coronide è incinta di Apollo, ma accetta di unirsi con uno straniero d’Arcadia, Ischi. Apollo, scoperta la tresca, non tollera che nel grembo dell’eroina il puro seme divino si mescoli con quello di un mortale e invoca la sorella Artemide, la quale balza nella stanza di Coronide per colpirla con il micidiale arco. Ma l’eroina è ancora gravida e il dio non può permettere che la sua discendenza perisca; perciò, quando vengono celebrate le esequie di Coronide, si lancia verso la pira funebre e strappa dal ventre della donna il piccolo Asclepio. Il bambino viene poi condotto sul Pelio, dove è affidato alle cure del Centauro Chirone1.

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Longevità degli Iperborei

Gli Iperborei abitano all’estremo Nord della terra. Sono particolarmente devoti ad Apollo, che soggiorna periodicamente nel loro paese e qui è onorato con splendide ecatombi. Ignari di malattie, vecchiaia, fatiche e battaglie, gli Iperborei non incorrono nel castigo di Nemesi, la quale punisce con severità coloro che commettono ingiustizia1. La loro prodigiosa esistenza può raggiungere i mille anni2.

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Morte di Niobe

Niobe, madre di dodici figli, sei maschi e sei femmine, osa mettersi a paragone con Latona, che ha generato soltanto Apollo e Artemide. È un oltraggio molto grave contro la poco prolifica dea e il castigo non tarda ad arrivare: le due divinità assalgono l’eroina armate entrambe del terribile arco; Apollo uccide i figli maschi di Niobe, Artemide le femmine1.

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Asclepio e la resurrezione dei morti

Asclepio, figlio di Apollo e della mortale Coronide, apprende dal Centauro Chirone l’arte medica e la tecnica chirurgica. In breve tempo diventa guaritore espertissimo, proteggendo i mortali da tutte le specie di morbi. Ma anche il sapere è servo del guadagno: un giorno, corrotto dalla brama di ricchezza, in cambio di un cospicuo compenso il figlio di Apollo resuscita un morto. Interviene allora Zeus, per folgorare Asclepio e insieme a lui l’uomo appena ritornato alla vita1. In un’altra versione del mito2, Asclepio riceve da Atena il sangue sgorgato dalle vene della Gorgone: quello delle vene di sinistra è utilizzato per far morire gli uomini, quello delle vene di destra per guarirli e per risvegliare i defunti. Inoltre, Zeus interviene perché teme che i mortali imparino da Asclepio l’arte di curarsi e quindi si soccorrano tra di loro3. In Diodoro Siculo, Zeus agisce su istigazione di Ade, il quale si lamenta perché il suo potere è sminuito da quando le cure di Asclepio hanno ridotto drasticamente il numero dei morti4. Infine, secondo Zenobio, Zeus uccide Asclepio affinché costui non sembri agli uomini un dio5.

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Cassandra, una straniera alla reggia di Argo

Argo. Reggia degli Atridi. Clitennestra accoglie Agamennone al ritorno da Troia. Disperata per l’uccisione della figlia Ifigenia, la regina ha segretamente preparato l’omicidio del marito e della sua concubina Cassandra, figlia di Priamo e sacerdotessa di Apollo, che Agamennone ha portato come bottino da Troia. Clitennestra dissimula i suoi propositi e dispone per l’eroe un’accoglienza fastosa. Agamennone prega la moglie di voler accogliere Cassandra in casa, perciò Clitennestra le si rivolge invitandola a scendere dal carro e a sopportare la sua condizione di schiavitù. Ma Cassandra resta ferma sul carro, in silenzio. Clitennestra e con lei il coro degli anziani di Argo credono che la donna non reagisca perché non capisce il greco: la regina allora rientra in casa, irritata dall’atteggiamento apparentemente superbo della profetessa; il coro invece esprime pietà per la prigioniera. A un certo punto Cassandra si alza e si muove verso la reggia, intonando un lungo grido inarticolato e invocando Apollo. Con parole oscure e nel mezzo dello stupore generale profetizza tutto quanto sta per succedere, ovvero la sua morte e quella di Agamennone per mano di Clitennestra, ma anche le successive disgrazie che colpiranno la discendenza degli Atridi1.

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Stupro di Cassandra

Cassandra, la vergine figlia di Ecuba e Priamo, è amata da Apollo che le fa dono della virtù profetica in cambio della rinuncia alla sua verginità, accettando di unirsi a lui. Ma dopo avere ricevuto il dono della profezia, rifiuta di concedersi al dio che, irato, la punisce togliendole la capacità di persuadere gli altri della veridicità delle sue previsioni sul futuro. Un altro episodio di violenza aggressiva contrassegna la vicenda di Cassandra, in quanto Aiace Oileo, con un atto sacrilego, viola la sua verginità quando, durante il sacco di Troia, si era rifugiata presso il tempio di Atena, aggrappata alla statua della dea. Ma Aiace la strappa via facendo vacillare il simulacro divino, provocando così la collera di Atena1.

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Alcesti: il sacrificio di sé come forma di amore coniugale

Admeto è re di Fere e presso di lui ha servito per un anno come mandriano il dio Apollo, per punizione di Zeus. Grazie al legame speciale che Admeto ha con Apollo non solo ottiene in sposa la bellissima Alcesti, ma anche gli viene concesso dalle Moire, le dee che filano il destino, di sottrarsi alla morte quando fosse giunto per lui il tempo, purché un altro fosse morto al posto suo. Il momento della morte arriva presto e Admeto sgomento chiede ai genitori di morire per lui, ma essi, pur vecchi, dichiarano che la vita può ancora riservare loro delle gioie inaspettate. Soltanto la moglie Alcesti è disposta a sacrificare la propria vita, perché il marito Admeto continui a vivere. Dà dunque addio al letto nuziale, luogo simbolico della propria vita di sposa, bagnandolo con le sue lacrime. Scende dunque all’Ade Alcesti, ma Eracle la va a riprendere dagli Inferi o, secondo altri, Persefone rifiuta la morte dell’eroina e la rimanda in vita1.

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Vendetta di Clitemestra su Agamennone

Clitennestra, sorella di Elena, sposa l’Atride Agamennone, duce della spedizione di Troia. Il primo marito e il figlio avuto da lui erano stati uccisi proprio da Agamennone, che ad Aulide aveva sacrificato la propria figlia Ifigenia per consentire la navigazione per Troia1. Negli anni di lontananza del marito, dopo avere dapprima fatto resistenza, si lascia sedurre da Egisto, figlio di Tieste fratello di Atreo. Una vicenda torbida segna la vita di Egisto, nato dal legame incestuoso di Tieste con la figlia Pelopia, perché si vendicasse di Atreo che aveva imbandito al fratello Tieste le carni dei suoi figli. A quest’uomo Clitennestra cede, consentendogli per di più di insediarsi nel palazzo di Micene e regnare con lei, finché, tornato Agamennone dalla guerra, gli tende una trappola di morte e lo uccide. Ma implacabile arriva la vendetta del figlio Oreste, che per ordine di Apollo uccide la madre. (Eschilo, Agam.; Cho.) .

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Giacinto e l'omosessualità

Giacinto, giovane di bellissimo aspetto, fu amato per la sua straordinaria bellezza da Tamiri, aedo altrettanto bello, che si dice sia stato il primo uomo che amò un altro uomo. Giacinto fa innamorare follemente di sé anche il dio Apollo. Mentre i due giocano al lancio del disco, un colpo del vento Zefiro, anch’egli innamorato di Giacinto, fa deviare il disco, che colpisce e uccide il giovinetto. Apollo, per rendere immortale l’amico, trasforma il suo sangue in un fiore dal suo stesso nome1.

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Castigo di Cassandra

La troiana Cassandra, giovane figlia di Priamo e di Ecuba, rifiutò di unirsi al dio Apollo che le aveva insegnato l’arte della mantica. Come ritorsione, il dio tolse credibilità ai suoi vaticini. Nel corso dell’assedio a Troia, fu inseguita e violentata dal locrese Aiace sotto la statua di Atena che, incapace di sostenere la vista della scena, volse indietro gli occhi. Nelle Troiane di Euripide, all’interno di un drammatico confronto tra Atena e Poseidone, la dea spiega il suo sdegno nei confronti degli Achei che fino ad allora aveva sostenuto, perché non punirono mai l’eroe per l’atto di hybris commesso nei suoi confronti e all’interno del suo santuario1.

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Primo incontro tra Amore e Psiche

C’erano una volta un re e una regina, che avevano tre figlie di notevole bellezza. La più piccola in particolare, Psiche, era così bella che la gente veniva da ogni parte per contemplarla. La credevano Venere in persona, tanto che iniziarono a tributare a Psiche gli onori dovuti alla dea. Venere allora si volle vendicare: mostrata la vergine al figlio Cupido, gli chiese di far sì che fosse preda di una bruciante passione per il più spregevole degli uomini. Nel frattempo, Psiche è lontana dal dirsi felice: è venerata da tutti, ma nessuno la chiede in sposa. Il padre prega allora Apollo perché conceda un marito alla figlia. Il dio di Delo dà il responso: Psiche va lasciata sulla cima di un monte, dove verrà a prenderla lo sposo predestinato, non uno di stirpe mortale, ma un mostro crudele, feroce e velenoso. Nessuno immagina che il mostro misterioso è in realtà il divino Amore, infatuatosi a prima vista della bellissima fanciulla e intenzionato a prenderla in moglie1.

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Morte dei figli di Niobe e metamorfosi in pietra

La figlia di Tantalo si vantava di aver generato molti più figli della dea Leto. La punizione fu tremenda. I gemelli arcieri figli della dea, Apollo e Artemide, uccisero con le proprie frecce i figli di Niobe. Per molti giorni i corpi rimasero privi dei riti funebri, poi furono seppelliti dagli dèi. Quanto a Niobe, sopraffatta da un dolore incommensurabile, fu tramutata in pietra, e sotto questa nuova forma continuò a covare le sue kedea «luttuose pene»1.

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nascita_apollo

Incinta di Apollo, Leto viaggia attraverso la Grecia alla ricerca di un luogo che accetti di ospitare il parto ormai prossimo del figlio che la dea ha generato con Zeus. I diversi siti visitati si rifiutano tuttavia di accoglierla per timore del dio possente che sta per nascere (nelle fonti posteriori, questo rifiuto sarà collegato alla collera di Era, la sposa di Zeus). Solo l’isola di Delo accetta di ospitare lo straordinario evento, abilitandosi così a divenire uno dei centri principali del culto di Apollo. Quando Ilizia, divinità preposta al parto, lasciato l’Olimpo dove era trattenuta da Era, raggiunge infine Delo, il travaglio prolungato di Leto ha termine e Apollo viene di slancio alla luce. Accolto da un corteo di nobili dee che lo purificano e gli danno nutrimento da immortale, il dio appena nato assurge all’istante alla pienezza delle sue forze e dei suoi poteri, e infatti dichiara: «Siano miei privilegi la cetra e l’arco ricurvo; inoltre io rivelerò agli uomini l’immutabile volere di Zeus»1.

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Teogonia esiodea

All’inizio ci sono Chaos, l’abisso originario dell’informe e dell’indefinito, poi Gaia, la Terra, potenza primordiale che costituisce l’assise dell’universo a venire, quindi Eros, che senza avere discendenza propria è tuttavia la potenza indispensabile per mettere in moto la dinamica delle filiazioni divine, avviando così il processo teogonico. Chaos mette al mondo Notte ed Erebo, e dall’unione di questi nascono Etere e Giorno: l’oscurità e la luce, nello spazio e nel tempo, vengono a costituire le coordinate essenziali in cui l’universo può prendere forma. Gaia mette al mondo per partenogenesi i Monti, che articolano la sua superficie, Ponto, il salso Mare che si agita negli abissi terrestri, e Urano, il Cielo che la sovrasta definendone il limite superiore. Unendosi a Ponto, la Terra primordiale genera una serie di potenze legate al mondo acquatico, talvolta benevole talvolta mostruose. Dalla sua unione con Urano sono generate la maggior parte delle entità divine che strutturano l’universo, tra cui: Oceano, il fiume divino che circonda la terra, delimitandola, ed è, con Teti, all’origine delle acque dolci; Iperione, "Colui che si muove in alto" e Theia, "Divina", che unendosi danno vita a Sole, Luna e Aurora, specializzando così nella discendenza le prerogative evocate dai rispettivi teonimi. Gaia e Urano non solo costituiscono la coppia primordiale Cielo-Terra, ma sono anche i capostipiti della dinastia divina regnante. Oltre a generare Ciclopi e Centimani, terribili divinità che rappresentano la potenza delle armi e della forza bruta, essi mettono al mondo i Titani, il più giovane dei quali, Crono, evira Urano su istigazione della stessa Gaia, adirata con il figlio e sposo che respingeva nelle viscere della terra la loro prole. La dinamica cosmogonica e poi teogonica si articola infatti, nel poema di Esiodo, con il mito di successione che vede Crono impadronirsi del potere e diventare sovrano degli dèi, per poi essere detronizzato da suo figlio Zeus. Per conservare il proprio potere, Crono ingoiava i figli generati dall’unione con la sposa e sorella Rea, ma questa, grazie all’aiuto di Urano e Gaia, riesce a salvare il loro ultimo nato, Zeus, destinato a diventare il re degli dèi. I fratelli e le sorelle di Zeus (Ade, Poseidone, Era, Demetra ed Estia) formano la prima generazione degli Olimpi, e una volta liberati dalle viscere di Crono entrano in azione al fianco dell’erede designato. Grazie a una attenta politica di alleanze, e all’aiuto di Ciclopi e Centimani, Zeus riesce a sconfiggere Crono e i Titani, e a rinchiuderli per sempre nella prigione infera, il Tartaro. Gaia genera però proprio con Tartaro un nuovo dio, Tifone, quintessenza di tutte le forze caotiche e distruttive, che Zeus sconfigge in singolar tenzone, dimostrando così di possedere la forza necessaria per salvaguardare il cosmo anche dalla più terribile minaccia. Gli dèi tutti gli conferiscono allora, su consiglio della stessa Gaia, la dignità sovrana, e il re degli dèi procede quindi come promesso a ripartire gli onori tra le varie divinità in funzione delle prerogative di ciascuna. Zeus non solo stabilizza il mondo divino, ma anche ne espande e ne precisa le articolazioni attraverso un’accorta strategia matrimoniale, che è all’origine della seconda generazione degli Olimpi: sotto il regno di Zeus, vengono alla luce gruppi divini quali le Moire, le Cariti, le Muse, ma anche Apollo e Artemide (nati dall’unione con Leto), Persefone (la figlia generata con Demetra e poi concessa in sposa al fratello Ade), Atena (partorita da Zeus dopo che questi si era incorporato la dea Metis: vedi sopra), e altri dèi ancora. Zeus prende Era quale “ultimissima” sposa, e con lei dà alla luce, oltre a Ilizia, Ares, il guerriero divino, ed Ebe, la giovinezza fatta dea. La regina non genera tuttavia un erede al suo re: quello che per una coppia sovrana "normale" rappresenterebbe un punto di debolezza, diventa sull’Olimpo un punto di forza, posto a garanzia dell’eternità del regno di Zeus. La famiglia degli Olimpi continua comunque ad allargarsi con l’introduzione degli ultimi figli di Zeus: Hermes, il dio nato dall’unione con Maia, Dioniso nato immortale dall’unione con una donna mortale, Semele, e infine Eracle, nato mortale, ma destinato eccezionalmente a diventare dio.

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Melampo guarisce le figlie di Preto

Il vate tessalo Melampo, figlio di Amitaone e di Idomene, fu convocato dal re di Tirinto Preto perché guarisse le sue figlie che erravano impazzite per aver offeso Era o, secondo un’altra tradizione, Dioniso. Melampo le inseguì per tutto il Peloponneso, guarendole dopo un rituale di purificazione1. A Sicione si raccontava che la purificazione-guarigione era avvenuta nell’area dell’agora, dove Preto avrebbe eretto un tempio di Apollo2.

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Apollo uccide la dragonessa di Delfi

Quando fondò il tempio di Delfi e creò un culto che si sarebbe distinto per l’enorme affluenza di pellegrini e la ricchezza di offerte sacrificali, Apollo dovette fare i conti con un mostro serpentiforme, la dragonessa (drakaina), alle cui cure Era aveva affidato il mostruoso Tifone. La dragonessa uccideva spietatamente quanti incontrava ed era un potenziale pericolo per le folle di pellegrini che sarebbero confluite nel tempio. Apollo la uccise con una freccia e la lasciò imputridire al suolo. Il luogo in cui la dragonessa morì venne chiamato Pito dal verbo pytho ("imputridisco") e tutti da quel momento chiamarono Apollo "Pizio"1.

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Purificazione di Apollo dopo l'uccisione di Pitone

Dopo aver ucciso il serpente Pitone, custode di un oracolo preesistente, quello di Themis/ Apollo dovette scappare e andare supplice in Tessaglia, dove si purificò nelle acque del fiume Peneo. Cintosi di un ramoscello di lauro nella valle di Tempe, il dio tornò a Delfi a prendere pieno possesso del tempio. Secondo un’altra tradizione, dopo aver ucciso Pitone, Apollo, in compagnia di Artemide, arrivò a Egialea, antico nome di Sicione, per essere purificato; spaventati in una località che da quel momento si chiamò Phobos («paura»), deviarono per andare a Creta, da Carmanore, un purificatore1.

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Purificazione di Oreste

Il doppio assassinio, della madre e del suo amante, fu ispirato da Apollo, ma comunque Oreste dovette purificarsi. Anche la sua purificazione ha a che fare con Apollo: sull’ara domestica del dio è il sacrificio di un verro lattante per mondare l’impurità di Oreste1. In altre tradizioni il figlio di Agamennone arrivò in Italia e nell’area di Reggio, nelle acque del fiume Metauro (odierno Petrace), fece un bagno purificatore, appese a un albero l’arma dell’omicidio, una spada, eresse un tempio in onore di Apollo in un bosco dal quale i Reggini raccoglievano un ramo di lauro ogni volta che inviavano una delegazione a Delfi2.

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Hermes: furto di bestiame e il sacrificio

Appena nato dall’unione segreta di Zeus e dell’Atlantide Maia, Hermes abbandona la dimora materna, collocata in una grotta del monte Cillene (in Arcadia), per mettersi alla ricerca delle vacche del fratello Apollo. Giunto di notte presso i prati della Pieria, dove pascolano le mandrie degli immortali, il dio di Cillene, approfittando dell’oscurità, sottrae cinquanta capi di bestiame dall’armento di Apollo e li conduce presso una stalla lungo il corso dell’Alfeo. Qui, Hermes uccide due vacche e ne divide la carne in dodici porzioni, assegnate a sorte a ciascuno dei dodici dèi, il gruppo di divinità rappresentativo in molte città greche dell’intero insieme del pantheon. Benché attratto dall’aroma della carne in fase di cottura, Hermes resiste al desiderio di cibo. Il dio, infatti, lascia le carni nella stalla come “segno del suo recente furto” e fa quindi ritorno, con le prime luci dell’alba, all’antro materno1.

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Arte divinatoria di Teoclimeno

Mentre Telemaco è sul punto di imbarcarsi per lasciare Pilo e far ritorno a Itaca, gli si fa incontro il mantis Teoclimeno, discendente di Melampo e figlio di «Polifede magnanimo, che Apollo fece indovino». Teoclimeno è un esule, fuggito da Argo per aver ucciso un uomo della sua stessa tribù. Incalzato dai parenti del morto, che intendono vendicare con le proprie mani il congiunto, Teoclimeno non ha altra via di scampo che supplicare Telemaco di accoglierlo sulla sua nave e di portarlo con sé in salvo. Il saggio figlio di Odisseo acconsente alla richiesta di aiuto. Appena giunti a Itaca, Teoclimeno dà subito prova, al cospetto di Telemaco, delle sue competenze divinatorie: un falco, che ghermisce tra gli artigli una colomba, vola incontro al giovane eroe, da destra; il mantis riconosce nel rapace «un messaggero di Apollo», destinato ad annunciare la restaurazione dell’autorità regale di Odisseo. Udita con piacere e speranza la parola mantica dell’indovino, Telemaco lo affida alle cure di un amico e si reca alla capanna di Eumeo, uno dei pochi uomini rimasti fedeli al padre. Telemaco e Teoclimeno si incontrano di nuovo poco dopo nel corso di un solenne banchetto alla reggia di Itaca. Qui, dopo che Telemaco ha appena finito di rispondere a una delle tante richieste di matrimonio con la madre Penelope, la dea Atena, la protettrice più premurosa della famiglia regale itacese, suscita tra i pretendenti un inestinguibile riso: ormai votati a morte certa per l’imminente ritorno di Odisseo, i principi di Itaca «ridono con mascelle altrui», quasi fossero già scheletri che digrignano i denti, mangiano carni cosperse di sangue e hanno gli occhi pieni di lacrime. Naturalmente, tale spettacolo, che è ancora di là a venire per quanto i proci siano già condannati, non è visibile al momento a nessuno dei presenti, eccetto Teoclimeno. Il mantis percepisce (noeo) la rovina che si sta per abbattere sui pretendenti, riuscendo sia ad ascoltare gemiti e singhiozzi dei principi massacrati sia a scorgere i muri imbrattati di sangue e le ombre dei defunti che scendono all’Erebo avvolte da una tetra oscurità. L’agghiacciante visione è riservata unicamente al mantis, tant’è che, udita la sua profezia, i proci prendono a ridere di lui e invitano i giovani ad accompagnarlo in piazza «se qui gli par notte!». Ma Teoclimeno, ormai consapevole di quello che sta per succedere, esce dal palazzo da sé, prima che la strage abbia inizio1.

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Creso non riesce a interpretare la profezia di Delfi

Indeciso se attaccare o meno il regno di Persia, Creso, ricchissimo e potentissimo re di Lidia, invia messi a Delfi a interrogare Apollo pitico: «Creso, re dei Lidi e di altre genti, […] chiede se debba marciare contro i Persiani». Per bocca della Pizia, il dio risponde che, intraprendendo la guerra, Creso avrebbe distrutto un grande impero. Certo che l’impero destinato alla distruzione sia quello persiano, Creso ricopre d’oro i Delfi e, per togliersi gli ultimi dubbi sulla spedizione, si rivolge di nuovo all’oracolo, chiedendo «se il suo regno sarebbe stato di lunga durata». Apollo risponde: «Quando un mulo diventerà re dei Medi, allora, o Lido dai piedi delicati, lungo l’Ermo ghiaioso fuggi e non fermarti e non vergognarti di essere vile». La risposta è accolta da Creso con gioia ed entusiasmo: un mulo – pensa – non potrà mai divenire re dei Medi. E questo significa che il suo regno non avrà certo fine con la guerra contro i Persiani. Fiducioso, il re lidio dà inizio alle ostilità, ma l’esito della guerra è disastroso: duramente sconfitto e per di più fatto prigioniero dai nemici, Creso è condannato al rogo e solo l’intervento di Apollo, che invia dal cielo una pioggia improvvisa, riesce a salvarlo dalle fiamme ordinate da Ciro. Conquistatasi la simpatia del re persiano per essere uomo caro agli dèi, Creso ottiene il permesso di inviare messi a Delfi per recare come offerta le sue catene di prigioniero e chiedere se gli dèi greci siano generalmente così ingrati verso i loro benefattori più generosi. La risposta della Pizia non si lascia attendere. Innanzitutto, la sconfitta di Creso era già stata predetta tempo prima da un oracolo delfico, che aveva preannunciato che la dinastia mermnade si sarebbe estinta al quarto discendente di Gige, ossia Creso. Inoltre, i vaticini resi da Apollo al re lidio si sono entrambi realizzati. Muovendo guerra contro i Persiani, Creso ha effettivamente distrutto un grande impero: il suo. In quel momento, un mulo era realmente re dei Medi: si trattava di Ciro, figlio di una principessa persiana (la cavalla) e di un uomo di rango inferiore (l’asino). Apollo ha detto a Creso la verità; è stato Creso a non comprenderla, dimostrandosi interprete per nulla saggio e accorto1.

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Temistocle interpreta l'oracolo di Delfi

Sotto la minaccia incombente dell’invasore persiano, gli Ateniesi inviano messi a Delfi a interrogare Apollo sul da farsi. Ma la Pizia fornisce loro un oracolo terribile, che presagisce rovina e distruzione, senza lasciare scampo alcuno alla popolazione attica: «O sventurati, perché ve ne state qui seduti? Lascia le tue case e le alte cime della tua città dalla rotonda cinta e fuggi agli estremi limiti del mondo». All’udir queste parole, gli inviati Ateniesi restano profondamente turbati, ma uno dei cittadini di Delfi consiglia loro di afferrare dei rami d’ulivo e, presentandosi in veste di supplici, di chiedere alla Pizia un secondo responso. Il nuovo vaticinio è anch’esso più che preoccupante, ma, a differenza del primo, lascia agli Ateniesi una speranza di salvezza: «Quando sarà preso tutto quello che è racchiuso fra il colle di Cecrope [l’acropoli] e l’antro del divino Citerone [ai confini fra Attica e Beozia], l’onniveggente Zeus concede alla Tritogenia [Atena, la dea protettrice di Atene] che solo un muro di legno sia inespugnabile; questo salverà te e i tuoi figli». Soddisfatti del nuovo responso, gli inviati fanno ritorno ad Atene e lo riferiscono all’assemblea, dove questo è discusso tra tutti i cittadini. L’interpretazione delle parole di Apollo suscita un vivo dibattito: anziani (presbyteroi) e cresmologi (“interpreti di oracoli”) ritengono che il “muro di legno”, in cui l’oracolo ha additato l’unica fonte possibile di salvezza, corrisponda alle antiche palizzate di legno che un tempo circondavano l’acropoli, e che pertanto è necessario rifugiarsi sulla parte più alta della città e resistere lì all’attacco persiano; altri, tra cui Temistocle, sostengono che il “muro di legno” della profezia delfica sia la flotta, e che dunque è necessario abbandonare la città e affrontare i Persiani sul mare, nei pressi dell’isola di Salamina. Così come era già accaduto in precedenza, quando aveva convinto i concittadini a utilizzare i proventi delle miniere d’argento scoperte nella regione del Laurio per l’allestimento di nuove navi da guerra, Temistocle riesce a persuadere il popolo ad accogliere la sua interpretazione dell’oracolo. I fatti gli danno ragione: la flotta ateniese sconfigge quella persiana, mentre tutti coloro che si sono rifugiati sull’acropoli finiscono preda dei nemici1.

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Odisseo e le pene infernali

Nell’XI libro dell’Odissea1, Odisseo non solo evoca le ombre dei morti, ma ha anche una visione dell’Hades. Egli vede infatti anche il gigante Tizio, colpevole di aver violentato Leto, madre di Apollo e Artemide: egli giace disteso mentre due avvoltoi gli rodono il fegato. Il vecchio Tantalo, invece, soffre la fame e la sete pur essendo immerso in un lago sul quale si protendono alberi carichi di frutti, poiché ogni volta che tenta di bere o di mangiare l’acqua si ritira e i rami si allontanano. Di Tantalo Omero non racconta la colpa, tramandata invece da Pindaro2: secondo la versione più diffusa egli avrebbe imbandito la carne del figlio Pelope agli dèi. Il terzo eroe condannato a una pena senza fine è Sisifo, obbligato a spingere un enorme masso sul pendio di una collina dalla quale ricade ogni volta che ha raggiunto la sommità. Anche in questo caso Omero tace la colpa di Sisifo, che ci è invece svelata dallo storico Ferecide3, secondo il quale egli, unico tra i mortali, sarebbe sfuggito temporaneamente al mondo dei morti, e in seguito sarebbe riuscito a imprigionare addirittura Thanatos (il dio “morte”) .

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Integrazione di Esculapio a Roma

Nel 293 a. c. una pestilenza infuriava nel Lazio. Stremati dai lutti i Romani mandarono a consultare l’oracolo di Delfi, che rispose in questo modo: «Ciò che qui cerchi, Romano, avresti dovuto cercarlo in luogo più vicino! E dunque in luogo più vicino cercalo. Per ridurre i tuoi lutti non di Apollo, ma del figlio di Apollo hai bisogno». Il Senato, ottenuto il responso, fece indagare sul luogo in cui viveva il figlio di Apollo, finché inviò i propri messaggeri a Epidauro. In questa città infatti era onorato Esculapio (Asklepios per i Greci, Aesculapius per i Romani), divinità della medicina, il figlio di Apollo e della ninfa Coronide. Giunti a Epidauro gli ambasciatori si presentarono al consiglio e pregarono che fosse loro concesso il dio, affinché con il proprio attivo intervento (praesens) ponesse fine al flagello. La maggioranza era contraria a lasciar partire la divinità, ma durante la notte al Romano apparve Esculapio, in tutto simile alla statua custodita nel tempio. Con la destra tiene un bastone, con la sinistra si liscia la lunga barba: «lascerò il mio simulacro» dice «ma osserva bene il serpente che si attorciglia intorno al mio bastone, così domani potrai riconoscerlo». Ciò detto la visione si dilegua. Il giorno dopo gli anziani di Epidauro, ancora incerti sulla decisione da prendere, si riuniscono nel tempio e chiedono che sia Esculapio stesso a esprimere il proprio volere attraverso un segno divino. Ed ecco che un grande serpente, irto di creste d’oro, si avanza sibilando, suscitando il terrore dei presenti. Ma il sacerdote riconosce la divinità e tutti venerano il numen che ha voluto manifestarsi in questo modo. Il serpente / Esculapio annuisce (adnuit) con le creste e fa vibrare la lingua, confermando in questo modo il proprio “impegno” (rata pignora) a seguire gli ambasciatori: scivolato fuori dal tempio, si imbarca sulla nave romana che lo condurrà fino all’isola Tiberina, là dove sorgerà il suo tempio1. In un’altra versione del racconto è ancora il serpente sacro al dio che, pur senza manifestare proporzioni e attributi visibilmente soprannaturali, sale spontaneamente sulla nave dei Romani2.

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primo_lectisternium

«I duumviri dei sacri riti, fatto allora per la prima volta nella città di Roma un lectisternium, per otto giorni cercarono di placare Apollo, Latona, e Diana, Ercole, Mercurio e Nettuno, stesi su tre letti addobbati con la massima sontuosità che quei tempi consentivano. Tale sacrificio fu celebrato anche privatamente. Aperte in città tutte le porte delle case e posta ogni cosa all’aperto, a disposizione di chiunque volesse servirsene, si ospitarono i forestieri, a quanto si racconta, senza alcuna distinzione, noti e ignoti, e si conversò in modo affabile e bonario anche con i nemici; ci si astenne dalle dispute e dai litigi; si tolsero anche, in quei giorni, le catene ai carcerati, e ci si fece poi scrupolo di incatenare nuovamente coloro ai quali gli dei erano così venuti in aiuto».

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Colpa di Laio, e divieto di diventare padre

Labdaco, re di Tebe, muore quando il figlio Laio ha appena un anno. Il trono della città è quindi occupato da Lico e poi dai gemelli Anfione e Zeto, che scacciano Laio; questi si rifugia allora a Pisa, nel Peloponneso, come ospite di Pelope, il quale gli affida il figlio Crisippo. Mentre Laio insegna al bambino a condurre il carro, viene preso da desiderio e gli fa violenza, inducendolo a uccidersi1. Pelope maledice Laio, augurandogli di non avere discendenti o, se dovesse generarne, di essere ucciso dal figlio2. Laio sposa Giocasta, ma nonostante l’oracolo di Apollo gli ripeta di astenersi dall’unirsi a lei per evitare la morte e salvare la città di Tebe, Laio trasgredisce l’ordine: vinto dai suoi impulsi e dalla mancanza di volontà, finisce per generare un figlio, Edipo3.

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Oreste vendica il padre

Mentre il marito combatte a Troia, la regina Clitennestra invia il piccolo Oreste presso Strofio, parente del padre, che lo alleva insieme al figlio Pilade1. Anni dopo, Oreste apprende dell’assassinio di Agamennone tornato da Troia ad opera di Clitennestra e del suo amante Egisto. Sconvolto dalla rabbia e dal dolore, si reca a consultare l’oracolo di Apollo, da cui riceve l’ordine di vendicare il padre2; torna allora ad Argo insieme a Pilade, si ricongiunge con la sorella Elettra e infine si reca alla reggia, dove la madre regna con Egisto. Colti di sorpresa, cadono sotto i colpi vendicatori di Oreste prima Egisto e poi la stessa Clitennestra3.

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figli_niobe

Anfione sposa Niobe, figlia di Tantalo, che genera sei figlie femmine e sei maschi e per questo si vanta superiore a Latona, perché la dea ne aveva messi al mondo solo due. Per punire l’insulto, Artemide uccide le figlie e Apollo i figli con le loro frecce infallibili. Niobe si trasforma allora in roccia, piangendo per sempre il proprio lutto1. Secondo una diversa versione, fu lo stesso Anfione a schernire Latona per l’esiguo numero dei figli e per questo venne punito nell’Ade2. Zeto sposò Aedone, figlia di Pandareo, che generò Itilo. Aedone, forse in un accesso di follia, uccise con la spada il figlio e da allora si trasformò in usignolo, continuando a piangere il bambino3, mentre Zeto morì di crepacuore4. Furono sepolti insieme e a Tebe condivisero la tomba.

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Apollo assume le sembianze dello zio di Ettore

Mentre Patroclo impazza invincibile tra le schiere dei Troiani, inseguendoli fin sotto le mura della città, Ettore è fermo alle porte Scee incerto se battersi o richiamare l’esercito. Apollo allora gli si avvicina sotto le sembianze di Asio, zio materno di Ettore, quindi lo esorta a tornare nella mischia e a lanciarsi contro Patroclo1. Accolto il consiglio, Ettore torna a combattere e uccide Patroclo in duello.

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Hermes e il furto delle vacche

Nel giorno stesso della sua nascita, il piccolo Hermes, figlio di Zeus e della ninfa Maia, compì una serie di imprese degne di nota. Per prima cosa, inventò un nuovo strumento musicale, la cetra, ottenuta legando sette budelli di pecora al guscio di una tartaruga; poi, approfittando dell’oscurità tanto cara ai ladri, rubò cinquanta vacche che appartenevano al fratellastro Apollo, che era nato dall’unione di Zeus con la bella Latona. Per non farsi scoprire, le spinse via facendole camminare all’indietro, in modo che le impronte delle zampe indicassero la direzione opposta. Dopo averne cotte e mangiate due, Hermes fece ritorno a casa nascondendosi nella culla. Ma Apollo, grazie alla testimonianza di un vecchio che aveva assistito al furto, andò da Hermes per costringerlo a rivelargli il nascondiglio della sua mandria; non essendoci riuscito, lo portò sull’Olimpo, dove, alla presenza di Zeus, Hermes dovette ammettere il furto e guidare Apollo nel luogo dove aveva nascosto le vacche.

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Apollo diventa pastore

Asclepio, figlio di Apollo, era un medico talmente bravo che non solo guariva i malati, ma aveva addirittura trovato il modo per resuscitare i morti. Per evitare che anche gli uomini diventassero immortali come gli dei, Zeus l’aveva ucciso colpendolo col fulmine; ma Apollo, in preda all’ira, per vendicarsi, aveva ucciso i Ciclopi, colpevoli di avere forgiato il fulmine che aveva provocato la morte di Asclepio. Sdegnato per questo atto di aperta insubordinazione compiuto da suo figlio, Zeus avrebbe voluto scaraventare Apollo nel Tartaro; ma, supplicato da Latona, decise di condannarlo a una pena molto più blanda, costringendolo ad andare a servizio di un mortale, il re Admeto, per pascolare le sue bestie, vivendo insieme ai servi del sovrano tessalo. Il dio svolse il suo compito molto bene, facendo in modo che tutte le vacche partorissero due vitelli per volta.

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Zeus si trasforma in pioggia d'oro per fecondare Danae

Zeus aveva saputo che, nascosta dentro un’alta torre, veniva tenuta prigioniera una donna bellissima. Si chiamava Danae ed era figlia di Acrisio, il re di Argo. Siccome, come molti sovrani del mondo antico, anche Acrisio desiderava fortemente un figlio maschio al quale lasciare in eredità il suo regno, aveva chiesto all’oracolo di Delfi se sua moglie gli avrebbe dato un erede. Ma, come fanno spesso gli oracoli, non solo Apollo non aveva risposto alla sua domanda, ma aveva detto ad Acrisio che sarebbe stato ucciso da suo nipote. Per evitare quindi che la sua unica figlia si sposasse e partorisse un figlio che lo avrebbe ucciso, Acrisio la fece rinchiudere. Ma questa precauzione non fu sufficiente, perché Zeus, trasformatosi in pioggia d’oro, penetrò attraverso le inferriate nella stanza nella quale era stata rinchiusa Danae. Dalla loro unione, nacque Perseo, il mitico eroe che, una volta divenuto grande, uccise davvero Acrisio – anche se lo fece involontariamente, colpendolo con un disco durante una gara d’atletica1.

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Il tripode dei sette sapienti

Alcuni pescatori di Mileto avevano venduto in anticipo la loro pesca a un gruppo di giovani. Poiché tra i pesci che erano stati presi nella rete c’era anche un tripode d’oro, non sapendo cosa fare, i giovani si erano rivolti all’oracolo di Delfi. L’oracolo di Apollo aveva risposto che il tripode sarebbe dovuto spettare all’uomo più saggio. E così il tripode era stato consegnato a Talete, uno dei Sette sapienti. Talete, tuttavia, non ritenendo di essere lui il più saggio, lo diede a Biante, che riteneva più saggio di lui. Poiché nemmeno Biante era convinto di essere il più saggio, lo diede a un altro sapiente, il quale a sua volta lo diede a un altro, finché il tripode non ritornò nelle mani di Talete. A questo punto Talete, rimanendo saldo nella sua convinzione di non essere lui l’uomo più saggio, lo fece portare a Delfi, dedicandolo al dio.

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Mercurio e la preghiera dei mercanti

Tuttavia, Ovidio riporta nei Fasti1una preghiera molto interessante che i mercanti romani recitavano nel dies festus di Mercurio (15 maggio) – dio romano dei commerci ma anche, nella tradizione greca, dio dei ladri, celebre per aver rubato le vacche di Apollo2– presso una fonte dedicata al dio vicino a Porta Capena, non lontano dal Circo Massimo. L’aspetto forse più significativo di tale preghiera consiste nel fatto che essa è quasi interamente concentrata sulla richiesta dei mercanti di essere lavati, purificati, dal dio per i falsi giuramenti e gli inganni perpetrati in passato ai danni dei compratori, spesso chiamando proprio Mercurio a garante della bontà della merce messa in vendita. Subito dopo, tuttavia, i mercanti pregano il dio affinché sia loro lecito continuare a spergiurare al fine di ottenere nuovi guadagni) raggirando astutamente i clienti, mentre il dio, dall’alto, ride al ricordo del furto di bovini che egli stesso realizzò ai danni di Apollo.

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Niobe, Eos e le lacrime

Niobe, figlia di Tantalo, mette al mondo con il marito Anfione sette figli e sette figlie. Orgogliosa della sua fecondità, commette l’errore di vantare la propria superiorità su Latona, madre dei soli Apollo e Artemide. La dea chiede allora vendetta ai propri figli, i quali sterminano l’intera prole dell’eroina. Niobe, addolorata, fugge a Sipilo e qui viene tramutata in roccia. Da quel giorno non ha mai smesso di piangere, e dalle sue lacrime nasce una sorgente che sgorga dalla roccia1. Anche il mito di Eos, l’Aurora, è all’origine di un simile fenomeno naturale. Dal matrimonio con Titono, fratello di Priamo, essa dà alla luce Memnone, che durante la guerra di Troia uccide Antiloco, figlio di Nestore, giunto a combattere in aiuto del padre. Achille allora affronta Memnone in un’accesa lotta e le madri dei due eroi, Aurora e Teti, in ansia per la sorte dei figli, si recano da Zeus per un consulto. Il re degli dèi, dopo avere pesato la sorte dei due uomini, stabilisce che Memnone dovrà soccombere, ma Eos ottiene per lui il dono dell’immortalità. Le lacrime versate dalla madre per la morte del figlio, però, danno origine alla rugiada che compare quotidianamente sui campi alle prime luci dell’alba2.

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I denti del drago e la nascita degli Sparti

Cadmo riceve dall’oracolo di Apollo il responso di prendere come guida una vacca e di fondare una città là dove l’animale si fosse fermato. Giunto in Beozia, invia i suoi uomini ad attingere acqua per compiere il sacrificio della vacca ad Atena, ma la fonte, sacra ad Ares, è custodita da un drago, che uccide gli uomini mandati da lui, finché lo stesso Cadmo riesce a uccidere il serpente e, su consiglio di Atena, ne semina i denti nel terreno. Da questi nascono uomini armati, gli Sparti, che iniziano a combattersi tra loro e si uccidono reciprocamente. Cadmo espia quindi la loro morte con un lungo periodo di servitù presso Ares, finché Atena assicura all’eroe fondatore il regno della città e Zeus gli dà in moglie Armonia, figlia di Ares e Afrodite1.

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Il cuore di Dioniso e la rinascita

I Titani, col volto coperto di gesso, riescono ad attrarre il piccolo Dioniso con una trottola, dei dadi e uno specchio. Mentre il giovane dio si specchia i Titani lo colpiscono, lo fanno a pezzi, bollono le carni in un paiolo e poi le infilzano negli spedi per arrostirle. Quindi mangiano le carni tranne il cuore, nascosto e preservato da Atena; Zeus lancia la sua folgore contro i Titani, distruggendoli, mentre affida le membra di Dioniso ad Apollo. Proprio il cuore preservato consente al dio di rinascere nonostante il suo corpo sia stato fatto a pezzi e mangiato1.

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Apollo e la peste nell'Iliade

L’inizio dell’Iliade vede proprio una pestilenza che sta decimando il campo acheo e che si abbatte indiscriminatamente su uomini e animali. L’indovino Calcante rivela che si tratta di un castigo inviato da Apollo, adirato per il trattamento che Agamennone ha riservato a Crise, suo sacerdote, che si era recato nel campo acheo per riscattare la figlia Criseide. La condizione posta dal dio per la fine della peste è la restituzione della fanciulla al padre1. Ma già prima della guerra Troia è stata colpita dalla peste inviata da Apollo, allorché l’arrogante re Laomedonte si era rifiutato di dare la mercede pattuita allo stesso Apollo e a Poseidone, che avevano costruito le mura della città2.

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Edipo e la peste di Tebe

Per scongiurare il terribile flagello, il cognato Creonte viene inviato da Edipo, re della città, a consultare l’oracolo di Apollo. Il responso rivela che l’epidemia è una punizione per l’uccisione del precedente re tebano Laio, il cui assassino è ancora impunito nella città. Per far cessare la peste occorre allora individuare il colpevole, liberando così la città dalla contaminazione. Edipo lancia una maledizione sull’empio, che altri non è se non lui stesso, come gli rivela l’indovino Tiresia e come scoprirà al termine di un’indagine accurata (Sofocle, Oed. rex).

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Lebbra e follia come punizione divina

Teutra, re dei Misi, uccide un enorme cinghiale sacro ad Artemide e viene punito dalla dea con una lebbra bianca, accompagnata da follia. Per il ribrezzo che suscita, Teutra si isola in un monte. I sacrifici offerti alla dea dalla madre Lisippe riescono a restituirgli la salute1. Il corpo delle Pretidi è coperto da chiazze bianche in seguito a una punizione inviata da Era, cui avevano mancato di rispetto. Anche in questo caso la malattia della pelle si accompagna a follia, per cui le giovani errano qua e là come menadi, finché Melampo riesce a guarirle con erbe medicinali2. Oreste, il cui padre Agamennone è stato assassinato dalla madre, viene minacciato da Apollo che una tempesta di sciagure si abbatterà su di lui se non vendicherà il sangue versato: morbi orrendi che si attaccano alle carni con morsi selvaggi, piaghe che divorano la forza vitale, ulcere biancastre3.

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Frecce avvelenate, ferite e guarigione

Il Centauro Chirone viene ferito accidentalmente da una freccia avvelenata di Eracle; la ferita gli provoca una terribile piaga, destinata a non terminare mai, a causa dell’immortalità del Centauro. Alla fine, sarà Prometeo a offrirgli la propria mortalità, concedendogli il riposo dai suoi mali1. Telefo, figlio di Eracle, viene ferito in Misia durante uno scontro con Achille. Trascorsi otto anni, gli Achei ancora non riescono a trovare il modo di raggiungere la Troade. Telefo, dal canto suo, ben conosceva il giusto percorso. Informato dall’oracolo di Apollo che la sua guarigione sarebbe avvenuta per mano di colui che lo aveva ferito, egli si offre come guida per la Troade in cambio di cure. Achille, messo al corrente del responso oracolare, acconsente alla guarigione di Telefo applicando sulla ferita la ruggine della sua lancia, ed egli mantiene poi la sua promessa, conducendo i Greci nella Troade2.

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Apollo, dio della peste e della guarigione

Ad Apollo in persona si attribuisce la scienza della guarigione, inscindibilmente collegata alla sua capacità mantica. Alcuni dei suoi epiteti, come “Guaritore”, si riferiscono al suo ruolo di protettore della medicina o alla sua capacità di liberare gli uomini dalle terribili pestilenze che egli stesso è in grado di infliggere, scagliando una freccia dal suo arco. “Peana”, soccorritore, è un altro suo epiteto, uguale al nome dell’inno corale intonato in suo onore1.

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Il doppio volto di Apollo: veleno e rimedio

Apollo, temibile arciere, capace di provocare la morte fulminea o di affliggere l’umanità con terribili pestilenze, è anche colui che guarisce, colui che è in grado di allontanare il male dagli uomini. Così come un farmaco, che nell’accezione greca ha la doppia valenza di veleno o rimedio benefico, anche il dio riveste lo stesso duplice significato. Nella sua figura viene trasposta l’esperienza umana dell’aleatorietà della malattia, che colpisce in modi non intellegibili.

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Asclepio e la medicina che sfida la morte

La nascita di Asclepio è legata al fuoco. Apollo, per vendicarsi del tradimento di Coronide, che già incinta di lui si unisce a un mortale, colpisce mortalmente l'eroina con il suo arco; ma mentre Coronide giace cadavere sulla pira funebre, il dio sottrae al fuoco il bambino ancora in vita e lo affida a Chirone, perché impari l’arte della medicina. Ben presto Asclepio si distingue per le sue doti di guaritore e diviene talmente abile da resuscitare i morti, grazie al sangue di Medusa ottenuto in dono da Atena. Così facendo, però, Asclepio sconvolge il naturale ordine del mondo, tanto che Zeus lo uccide con un fulmine1.

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Enea lascia Creta per l’Italia

I Troiani, credendo di seguire il responso di Apollo, approdano a Creta, dove Enea inizia a fondare la nuova Ilio. Ma all’improvviso, in seguito a una corruzione dell'aria, giunge una pestilenza logorante per le membra e una mortifera annata per gli alberi e le piantagioni. I campi diventano sterili, l’erba inaridisce e la messe infetta nega il nutrimento. I Troiani si ammalano e muoiono. Per fortuna una notte appaiono in sogno a Enea i Penati, che gli spiegano come la terra nella quale si è insediato non sia quella a lui assegnata dal fato e occorra dunque allontanarsene in direzione dell’Italia1.

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Iapige, medico per amore

Iapige, figlio di Iaso, fra tutti era il preferito di Febo. Il dio, preso da intenso amore, gli offrì in dono le sue arti: la divinazione, la cetra e le rapide frecce. Ma Iapige, per prolungare il tempo che rimaneva a suo padre, ormai in fin di vita, preferì conoscere le proprietà terapeutiche delle erbe e apprendere la pratica curativa. Apollo acconsentì e Iapige divenne un abile guaritore, in grado di curare ogni patologia grazie all’arte magistrale a lui donata dal dio1.

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Apollo e l’amore incurabile

Apollo si invaghisce della Ninfa Dafne, che lo respinge fuggendo via. Il dio, allora, le corre dietro e prova in ogni modo a conquistarla, ricordandole i suoi nobili natali e le sue virtù divine. Ma quando capisce che quella non si sarebbe lasciata piegare facilmente all’amore, sospira: «Io ho inventato la medicina, nel mondo sono chiamato il soccorritore e ho in me la virtù terapeutica che risiede nelle erbe. Ma poiché l’amore non si può guarire con nessuna erba, le arti che giovano a tutti, non giovano al loro signore»1.

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Lo spazio della liminarità: Oto ed Efialte minacciano l’Olimpo

Odisseo, sceso nell’Ade per ottenere consigli dall’indovino Tiresia, vede tra le anime che vagano nel mondo dei morti anche Ifimedea, che generò a Poseidone i due figli Oto ed Efialte, destinati a vita breve. A nove anni, i due erano già alti nove braccia e larghi nove cubiti; più tardi, minacciarono gli dèi di portar loro guerra anche sul monte Olimpo e a questo scopo tentarono di porre il monte Ossa sull’Olimpo e poi il Pelio sull’Ossa. Ci sarebbero certo riusciti, se non li avesse fermati Apollo, uccidendoli prima che divenissero adulti1.

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Achille travolto dalle acque del fiume

All’intervento del fiume segue la risposta di Achille: l’eroe afferma che farà quanto richiesto dallo Scamandro, ma soltanto quando sarà riuscito a chiudere i nemici in città e a sfidare a duello Ettore. Dopo un breve rimprovero dello Scamandro ad Apollo, accusato di non difendere i Troiani come era stato richiesto da Zeus, Achille continua la sua strage, entrando nel fiume. Esso si gonfia, esce dal suo letto, riuscendo a spingere i cadaveri fuori dalla corrente e nel contempo a proteggere i Troiani ancora vivi tra i suoi gorghi. Achille si trova in difficoltà e tenta di fuggire per la pianura; grazie alla sua velocità può allontanarsi per un tratto, ma, appena si ferma, il fiume lo incalza. L’eroe si rivolge allora a Zeus, rimproverandogli il mancato aiuto divino e soprattutto la falsa profezia ricevuta dalla madre: non solo non morirà presso le mura di Troia, ucciso dalle frecce di Apollo, ma neppure per mano di Ettore; la sua morte non sarà degna di un eroe, perché verrà travolto da un fiume come può accadere a un bambino a guardia del bestiame, che lo attraversi incautamente durante un temporale.

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Scamandro invoca Simoenta contro Achille

Dopo l’intervento rassicurante di Apollo e Atena, Achille riesce ad allontanarsi dall’immediato pericolo. Ma lo Scamandro non desiste dall’ira e chiede aiuto al fratello Simoenta, invitandolo a riempire il suo corso d’acqua dalle sorgenti e ad alzare un’immensa ondata trascinando e sollevando piante e sassi. Lo Scamandro si propone di causare la morte di Achille: le sue armi rimarranno sepolte nel fango del fondale, l’eroe verrà fatto rotolare nella sabbia e gli sarà versata addosso tanta ghiaia che gli Achei non potranno più ritrovarne le ossa; non sarà loro necessario creare un tumulo di terra per la sua tomba, perché a questo provvederà il fiume stesso.

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I supplizi eterni nell’Ade

Odisseo, sceso nell’Ade, vide i supplizi di Tizio, Tantalo e Sisifo. L’enorme Tizio, uno dei figli di Gea, era immobilizzato al suolo mentre due avvoltoi gli dilaniavano il fegato, che sempre si rigenerava; così Tizio scontava la pena per aver cercato di fare violenza a Leto, madre di Apollo e Artemide. Tantalo, invece, era punito per aver abusato del privilegio di condividere la tavola degli dèi: immerso nell’acqua, non poteva berne, perché a ogni suo tentativo l’acqua si ritraeva, né poteva gustare i frutti che pendevano dai rami sospesi sopra di lui, perché a ogni sua mossa soffiava un vento che allontanava le fronde; secondo altre versioni, invece, un enorme masso gli stava sospeso sul capo, sempre in procinto di cadere1. Sisifo, infine, era costretto a spingere una grande roccia facendola rotolare verso la cima di un colle: in prossimità della cima, però, una forza incontrollabile faceva sì che la roccia rotolasse di nuovo ai piedi del colle, costringendo Sisifo a ripetere l’azione; in questo modo Sisifo scontava gli oltraggi che aveva perpetrato in vita contro uomini e dèi, giungendo persino a ingannare la Morte2. Un’altra pena eterna era quella di Issione, legato a una ruota (infuocata, secondo alcune fonti) in perenne rotazione, in cielo o nell’Ade: Issione scontava così il tentato oltraggio a Era3. Le figlie di Danao, invece, erano state punite per l’assassinio dei loro cugini, i figli di Egitto, a cui erano dovute andare forzatamente spose: nell’Ade si trovavano a riempire dei vasi forati con acqua che sempre si versava fuori. Una azione perennemente frustrata che forse simboleggiava l’incompiutezza dei matrimoni delle Danaidi, non consumati a causa del violento gesto di ribellione perpetrato dalle novelle spose nella prima notte di nozze4.

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Creso e il mulo: interpretare l’oracolo di Apollo

La Pizia gli diede questo responso: «Quando un mulo diventerà re dei Medi, allora, o uomo della Lidia dai piedi delicati, sarà meglio per te fuggire lungo il fiume Ermo pieno di ciottoli, senza fermarti, senza vergognarti d’essere un vigliacco». Anziché insospettirsi davanti a una simile risposta, tanto chiara all’apparenza quanto palesemente assurda, il re scelse la strada più semplice: preferì interpretarla alla lettera, per mettersi l’animo in pace. Così facendo, però, Creso non comprese che Apollo aveva parlato in senso metaforico: il termine "mulo" non andava inteso in senso letterale, vale a dire come un animale nato dall’unione di un asino con una cavalla, ma come l’equivalente di "uomo nato da due genitori molto diversi" (nel caso specifico, da un padre umile e da una madre nobile). Come spiega più avanti lo stesso Erodoto, il "mulo" in questione era Ciro, il futuro re dei Persiani: sua madre era una donna meda di stirpe nobile (figlia di Astiage, re dei Medi), mentre suo padre era un semplice cittadino persiano (e, in quel momento, i Persiani erano sottomessi ai Medi) .

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Egeo e Teseo: l’oracolo oscuro di Delfi

Egeo, re di Atene, aveva sposato due donne, ma nessuna delle due era riuscito a dargli un figlio. Recatosi a Delfi, chiese ad Apollo se sarebbe mai divenuto padre. E la Pizia gli rispose così: «O tu che sei il più forte degli uomini, non sciogliere il piede che sporge dall’otre prima di essere ritornato sulla rocca di Atene». Egeo ritornò a casa senza aver capito il significato dell’oracolo. Ma ci fu qualcuno che lo capì immediatamente: sulla via del ritorno, il sovrano ateniese si fermò a Trezene, a casa del re Pitteo. Quando seppe del misterioso vaticinio, questi comprese subito che cosa aveva voluto dire il dio Apollo: fece ubriacare il suo ospite e disse alla figlia Etra di unirsi a lui. Il frutto di quella notte d’amore fu Teseo, l’eroe ateniese per eccellenza – che, molti anni dopo, provocò la morte del padre: quando, dopo aver ucciso il Minotauro, Teseo salpò dall’isola di Creta per tornare ad Atene, si dimenticò di ammainare le vele nere della sua nave e di sostituirle con le vele bianche (come aveva promesso di fare se l’impresa avesse avuto successo); quando il padre, che aspettava con ansia il ritorno di suo figlio, vide in lontananza le vele nere, si gettò per la disperazione nel mare che, in suo onore, sarebbe stato chiamato Egeo.

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Bruto sostituisce il sacrificio umano con teste simboliche

Quando Tarquinio il Superbo ristabilisce le feste in onore dei Lari e di Mania, poiché l’oracolo di Apollo prescrive di sacrificare teste in cambio di teste, si avvia l’usanza di immolare dei bambini a Mania, madre dei Lari, per la salvezza dei familiari. Dopo la cacciata di Tarquinio, il console Giunio Bruto muta la tradizione e ordina che il sacrificio si compia mediante teste d’aglio e di papavero: così la richiesta di Apollo può essere soddisfatta sul piano nominale, evitando di fatto l’empietà di un sacrificio umano. Per scongiurare i pericoli, le famiglie appendono alle porte immagini consacrate a Mania durante le feste dei Compitalia1.

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Bruto interpreta l’oracolo del bacio alla madre

Tarquinio, angosciato da prodigi funesti, decide di consultare l’oracolo di Apollo a Delfi, inviandogli i propri figli Tito e Arrunte, cui si affianca anche Bruto, più come zimbello che come compagno. Questi porta in dono ad Apollo un bastone di legno, suscitando lo scherno dei cugini, ignari della sua astuzia: nel cavo del bastone infatti Bruto ha nascosto una verga d’oro. Al quesito dei giovani, il dio risponde che a Roma il potere supremo sarà detenuto da quello che per primo avrà baciato la madre. Mentre Tito e Arrunte si avviano alla volta di Roma, per contendersi al più presto il bacio della madre, Bruto finge di inciampare e cadendo goffamente bacia la terra, madre di tutti gli uomini, adempiendo così l’oracolo senza che i cugini se ne accorgano1.

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