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Miti

Il coraggio di Clelia

Tra gli ostaggi di Porsenna vi erano anche ragazze di nobili famiglie romane. Una di queste, Clelia, ebbe l'ardire di scappare, insieme alle sue compagne, attraversando a nuoto il Tevere, mentre i nemici le scagliavano contro una fitta pioggia di dardi. Porsenna in un primo momento chiese la restituzione di Clelia, poi iniziò a provare ammirazione per il coraggio della fanciulla e fece sapere ai Romani che, se avessero consegnato l’ostaggio, lo avrebbe rimandato illeso. In segno di rispetto della parola data i Romani cedettero Clelia a Porsenna, che non solo ne lodò il comportamento, ma le concesse la metà degli ostaggi. Anche i Romani apprezzarono l’impresa di Clelia e premiarono il suo coraggio con un nuovo genere di onore, una statua equestre sulla via Sacra1.

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Devotio e morte del console Decio

L’esito della battaglia tra Romani e Latini era incerto e il console Decio capì che era giunto il momento di interpellare il pontefice massimo; seguendone i suggerimenti, indossò la toga pretesta e, in piedi sopra un giavellotto, pronunciò con il capo velato una lunga preghiera nella quale si consacrava agli dèi Mani e a Tellus, in cambio della vittoria dell’esercito romano. Poi salì a cavallo armato e si gettò in mezzo ai nemici. In questo preciso momento accadeva qualcosa di straordinario: il console appariva più grande di un essere umano; sembrava una vittima espiatoria dell’ira degli dèi, inviata dal cielo per allontanare la rovina dai suoi e riversarla sui nemici. Questi, atterriti e confusi, si allontanarono. I Romani invece, liberati da ogni timore, ripresero la battaglia come se avessero ricevuto il primo segnale di guerra proprio in quell’istante1.

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Integrazione tra Romani e Sabini

Una volta conquistato il Campidoglio, i Sabini devono far fronte al rinnovato impeto delle truppe romane, ansiose di vendetta. Dalla mischia emergono due valorose figure: Mezio Curzio per i Sabini e Osto Ostilio per i Romani. Quest’ultimo però cade sul campo, gettando i compagni nello sconforto; Romolo supplica allora Giove di arrestare la fuga e salvare la città, promettendo in cambio la costruzione di un tempio al dio come “Statore”. I Romani riprendono a combattere e riescono a disarcionare dal cavallo Mezio Curzio; questi precipita quindi in una palude, nell’area che più tardi sarebbe stata occupata dal Foro. A ricordo dell’evento, tale parte del Foro sarà denominata Lacus Curtius. Sostenuto dalle acclamazioni dei Sabini, comunque, Mezio si tira fuori dall’acquitrino e la battaglia riprende nella valle fra Campidoglio e Palatino. Sono le donne sabine che a questo punto imprimono una svolta alle vicende, gettandosi in mezzo alle schiere e supplicando entrambe le parti di porre termine a quella che è divenuta ormai una guerra civile. Gli uomini in lotta, commossi dall’accorato appello, acconsentono alla pace e decidono di fondere le due città. I Sabini si trasferiscono a Roma, dove Tazio diviene re al pari di Romolo. La diarchia così inaugurata prosegue all’insegna della piena concordia, finché un sinistro incidente non spezza la vita del coreggente sabino. Alcuni parenti di Tazio usano violenza contro gli ambasciatori dei Laurentini, e allorché questi domandano giustizia, Tazio non ha la forza di opporsi alle suppliche dei suoi. Perciò, quando il re sabino si reca a Lavinio allo scopo di celebrare un sacrificio, i Laurentini si vendicano uccidendolo12.

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Morte di Tito Tazio: empietà e contaminazione

È infatti a Lavinio che si consuma un altro gesto di empietà e violenza, teso a pareggiare il debito di sangue: Tazio è assassinato mentre officia un sacrificio, in un momento in cui la prassi religiosa esige il massimo della purezza e dello scrupolo. Accade invece che il re sabino muoia «trafitto presso gli altari dai coltelli sacrificali e dagli spiedi utilizzati per trapassare i buoi»1. Il sangue degli animali consacrati, offerto per la città e per gli dèi, è orribilmente mescolato a quello del celebrante, al culmine di una faida fra popoli consanguinei. Al delitto fanno seguito una serie di eventi infausti: un’inattesa pestilenza si abbatte sugli abitanti di Roma e Lavinio, la terra e gli animali domestici divengono sterili e una pioggia di sangue si rovescia sui luoghi. Né i Romani né i Laurentini hanno dubbi sul fatto che l’ira divina sia stata provocata dai due atti di empietà rimasti inespiati: l’omicidio degli ambasciatori e il linciaggio di Tazio. Dopo la morte di quest’ultimo, infatti, Romolo si era rifiutato di punire i colpevoli, asserendo che il primo fatto di sangue era stato cancellato dal secondo. Nessun effetto sortisce comunque la sollecitudine religiosa con cui Romolo dà sepoltura al collega sull’Aventino, istituendo presso la sua tomba un culto funebre che prevede l’offerta annuale di libagioni a spese della comunità, identiche a quelle che si versavano sul Campidoglio per l’ambigua eroina Tarpea. Il re deve dunque rassegnarsi a fare piena giustizia: vengono puniti sia gli aggressori degli ambasciatori laurentini sia gli assassini di Tazio e le due città sono purificate attraverso apposite cerimonie lustrali. Anche questi riti entrarono nell’uso tradizionale ed ebbero come sfondo, nei secoli successivi, una non meglio precisata Porta Ferentina2.

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La vestale Opimia rompe la castità

Mentre i Romani si accingono a intraprendere una guerra contro Veienti e Volsci, una serie di prodigi segnala la collera degli dèi e preannuncia una sciagura imminente. L’origine dei fenomeni viene individuata nel fatto che la Vestale Opimia (Oppia, secondo altre fonti), avendo perduto la verginità, contaminava i rituali. Così, a causa della sua impurità, la sacerdotessa fu condannata a morte1.

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Appio Claudio attenta alla verginità di Virginia

Il decemviro Appio Claudio è preso dal desiderio di violare una vergine plebea di straordinaria bellezza, figlia di Lucio Virginio. Appio tenta dapprima di sedurre la ragazza con l’offerta di un compenso, ma, ostacolato dal pudore di lei, sceglie di ricorrere alla violenza. Incarica un suo cliente di dichiarare che la vergine era figlia di una sua schiava e dunque di sua proprietà. Quello obbedisce, ma dal momento che una gran folla accorre per impedire quell’ingiustizia, il cliente cita la ragazza in giudizio presso il tribunale di Appio, il quale acconsente a che l’uomo la conduca a casa sua. Ma Icilio, cui la giovane era promessa, protesta e ottiene che sia mandato a chiamare il padre di lei, impegnato in una campagna di guerra. Intanto Appio stabilisce che Virginia sia data in schiava a chi la rivendica. Virginio chiede allora un momento perché, in disparte con la figlia, possa interrogare la nutrice sulla sua nascita. Conduce quindi la giovane nei pressi delle Botteghe nuove e, afferrato un coltello, le trafigge il petto. I Romani piansero il delitto di Appio, la funesta bellezza della fanciulla e l’ineluttabile decisione paterna1.

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Le oche del Campidoglio

Sconfitti sull’Allia da un contingente gallico, nell’anno 390 a.C., i Romani si rifugiano in città e meditano di riunirsi tutti sulla rocca capitolina. Constatando che il luogo non li avrebbe potuti contenere tutti, decidono che a presidio del Campidoglio rimangano solamente gli uomini validi insieme alla loro mogli e figli. I sacra publica vengono nascosti in luogo sicuro. Molti plebei si rifugiano sul Gianicolo, mentre gli anziani di rango senatoriale attendono con dignità la morte negli atrii delle loro case patrizie. I Galli notano il passaggio di un messaggero romano e scoprono in questo modo che l’accesso alla rocca è possibile dalla parete di roccia chiamata saxum Carmentis – il lato verso il Tevere su cui invece i Romani contavano di essere protetti (altri dicono che passarono invece per dei cunicoli che li condussero direttamente nell’area del tempio di Giove). In una notte luminosa, aiutandosi l’un l’altro e in perfetto silenzio, scalano la roccia e si affacciano alla sommità del colle. Le sentinelle non li sentono. Nemmeno i cani guardiani rilevano la loro presenza – e qualcuno insinuerà poi che si siano venduti al nemico per un tozzo di pane in cambio del silenzio1. Ad un certo punto, un allarme scuote tutti dal sonno: alcune oche, che avevano percepito l’avvicinarsi di intrusi, iniziano a starnazzare rumorosamente e a produrre un grande trambusto con il loro concitato sbattere d’ali – «svolazzando nei dorati portici l’oca argentea annunciava che i Galli erano alla soglia»2. Nonostante la scarsità di cibo affliggesse tutti gli assediati – umani e animali – i Romani non avevano osato toccare le oche, che erano sacre a Giunone, e venivano ora ripagati del loro rispetto; le oche, dal canto loro, erano insonni e reattive più del solito proprio per la fame che le attanagliava e perciò avevano avvertito la silenziosa presenza dei Galli3. La reazione pronta dei Romani – primo fra tutto Marco Manlio – allo schiamazzo degli animali consente di respingere i Galli e di salvare i sacri luoghi del Campidoglio. Il giorno seguente a Manlio vengono tributati onori, mentre le sentinelle inefficienti vengono messe sotto accusa e una di loro viene condannata a morte e precipitata dalla rupe.

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Integrazione di Esculapio a Roma

Nel 293 a. c. una pestilenza infuriava nel Lazio. Stremati dai lutti i Romani mandarono a consultare l’oracolo di Delfi, che rispose in questo modo: «Ciò che qui cerchi, Romano, avresti dovuto cercarlo in luogo più vicino! E dunque in luogo più vicino cercalo. Per ridurre i tuoi lutti non di Apollo, ma del figlio di Apollo hai bisogno». Il Senato, ottenuto il responso, fece indagare sul luogo in cui viveva il figlio di Apollo, finché inviò i propri messaggeri a Epidauro. In questa città infatti era onorato Esculapio (Asklepios per i Greci, Aesculapius per i Romani), divinità della medicina, il figlio di Apollo e della ninfa Coronide. Giunti a Epidauro gli ambasciatori si presentarono al consiglio e pregarono che fosse loro concesso il dio, affinché con il proprio attivo intervento (praesens) ponesse fine al flagello. La maggioranza era contraria a lasciar partire la divinità, ma durante la notte al Romano apparve Esculapio, in tutto simile alla statua custodita nel tempio. Con la destra tiene un bastone, con la sinistra si liscia la lunga barba: «lascerò il mio simulacro» dice «ma osserva bene il serpente che si attorciglia intorno al mio bastone, così domani potrai riconoscerlo». Ciò detto la visione si dilegua. Il giorno dopo gli anziani di Epidauro, ancora incerti sulla decisione da prendere, si riuniscono nel tempio e chiedono che sia Esculapio stesso a esprimere il proprio volere attraverso un segno divino. Ed ecco che un grande serpente, irto di creste d’oro, si avanza sibilando, suscitando il terrore dei presenti. Ma il sacerdote riconosce la divinità e tutti venerano il numen che ha voluto manifestarsi in questo modo. Il serpente / Esculapio annuisce (adnuit) con le creste e fa vibrare la lingua, confermando in questo modo il proprio “impegno” (rata pignora) a seguire gli ambasciatori: scivolato fuori dal tempio, si imbarca sulla nave romana che lo condurrà fino all’isola Tiberina, là dove sorgerà il suo tempio1. In un’altra versione del racconto è ancora il serpente sacro al dio che, pur senza manifestare proporzioni e attributi visibilmente soprannaturali, sale spontaneamente sulla nave dei Romani2.

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La madre degli dei arriva a Roma

In una delle fasi più drammatiche della seconda guerra punica, infatti, fu richiesto il suo trasferimento a Roma, dove la dea sarebbe stata onorata col nome di Mater magna. In quell’occasione furono consultati gli Oracoli Sibillini, che così recitarono: «La madre manca, o Romani, la madre v’ordino di cercare. Quando verrà con casta mano sia accolta». L’oracolo di Delfi, consultato a sua volta per sciogliere l’ambiguità dell’oracolo, indicò che la “madre” di cui andare in cerca era la Madre degli dèi. Inizialmente Attalo I, il re di Pergamo, si oppose alla richiesta, ma la dea stessa parlò dai penetrali del proprio tempio, invitandolo a lasciarla andare nella città «degna di accogliere qualsiasi divinità». Il nero simulacro della Mater magna venne dunque imbarcato su una nave, costruita per l’occasione, e navigò tranquillo fino alle foci del Tevere, dove trovò ad attenderla cavalieri, senatori e plebe di Roma. A questo punto però la nave si incagliò, e a dispetto di ogni sforzo, non ci fu più modo di farla proseguire. Turbati dal prodigio gli uomini, spossati, abbandonano le funi con cui avevano invano tentato di disincagliare l’imbarcazione. Vi era tra i presenti Claudia Quinta, nobile discendente del vecchio Clauso, donna elegante e onesta, ma sulla cui castità correvano voci maligne. Staccatasi dal gruppo delle matrone, Claudia prima compie un gesto di purificazione, bagnandosi con l’acqua del fiume, dopo di che, inginocchiata e con i capelli sciolti, prega la dea di comprovare davanti a tutti la propria castità. Pronunziate queste parole Claudia tirò senza sforzo la corda e il viaggio della Mater riprese felicemente fino alla destinazione finale1.

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deificazione_romolo

Si dice che, durante una violenta tempesta, una nuvola avesse avvolto il corpo di Romolo e lo avesse nascosto alla vista dei patres. Dissoltasi la nuvola, Romolo non si trovò più da nessuna parte. I Romani allora, dice Livio1, furono presi dalla paura e dallo sconforto, come se avessero perso un padre. Poi qualcuno cominciò a esclamare che Romolo, figlio di un dio, era diventato un dio lui stesso. I patres diffusero la buona notizia, ma la città rimase piuttosto inquieta per la strana scomparsa. Non tutti ci credevano. Ci fu allora un certo Giulio Proculo, il cui parere era stimato, che si presentò al popolo e affermò di essere certo che Romolo fosse salito al cielo. Come prova addusse il fatto che il loro sovrano era apparso quella mattina stessa davanti ai suoi occhi impauriti e pieni di rispetto. Romolo gli aveva ingiunto di riferire agli altri Romani che non si preoccupassero per lui e aveva aggiunto un messaggio per i suoi concittadini: la volontà del cielo era che Roma fosse la capitale del mondo. I Romani dunque si sarebbero dovuti impegnare nell’arte militare e avrebbero dovuto insegnare ai loro figli che nessuna potenza umana può resistere alle armi dei Romani. Dopodiché, dice Proculo, Romolo si alzò in aria e sparì.

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voce_terremoto

Come il fatto narrato da Cicerone, molto noto ai Romani, che «dopo un terremoto una voce proveniente dal tempio di Iuno sul Campidoglio, ammonì che si sacrificasse in segno di espiazione una scrofa gravida»1.

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Anchise assume il comando del viaggio

Al momento della partenza da Troia Anchise ordina di issare le vele, invita a dirigere prima verso Creta, poi in direzione dell’Italia, invoca gli dèi e ne interpreta segnali e indicazioni. Virgilio ne parla ripetutamente come del «padre Anchise», attribuendogli un ruolo di comando e rispettando in questo modo le convenienze, come osservano i commentatori tardo-antichi dell’Eneide, poiché dal punto di vista dei Romani quella funzione direttiva non può che spettare alla figura paterna.

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Anchise appare in sogno ad Enea e profetizza la storia di Roma

Anchise appare in sogno a Enea, che a Cartagine si è legato alla regina Didone, invitandolo con insistenza a partire1; al momento della seconda sosta in Sicilia, la sua immagine suggerisce a Enea di lasciare nell’isola una parte del suo equipaggio e di condurre in Italia solo i «cuori più forti», preannunciando al figlio l’incontro che i due avranno nel regno dei morti e le guerre che attendono Enea una volta raggiunta la sua meta2. Nei Campi Elisi, a colloquio con il figlio, Anchise mostra a Enea i futuri eroi della storia romana, in quel momento ancora anime in attesa di incarnarsi, in una vertiginosa prospettiva che condensa un millennio di storia3, e insieme illustra al figlio i costumi di Roma, i tratti peculiari che ne definiscono l’identità, fino a rivendicare per i Romani il dominio del mondo4.

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Coriolano vive senza padre e senza agnati

Gneo Marcio si è guadagnato il proprio cognome dopo la conquista della città volsca di Corioli; nei conflitti tra patriziato e plebe assume una posizione filo-aristocratica, attirandosi l’ostilità dei tribuni della plebe e una convocazione a giudizio, cui Coriolano rifiuta di presentarsi, subendo per questo la condanna all’esilio. La sua vita si è svolta non solo senza il padre, morto quando Gneo era ancora un bambino, ma senza nessuno di quelli che i Romani chiamano agnati, i parenti in linea paterna: una condanna che egli infliggerà a sua volta ai propri figli, dai quali si congeda affermando di lasciarli orfani e soli e di affidarli alle sole cure delle donne di casa, in una sorta di perversa ripetizione della sorte della quale lui stesso era stato vittima1. La madre Veturia, recatasi presso il suo accampamento, riesce infine a distoglierlo dal porre l’assedio alla città, invocando i diritti di chi aveva portato in grembo e poi allevato il futuro traditore; quanto a Coriolano, sulla sua morte circolano versioni diverse, ma essa viene immaginata in ogni caso come disonorevole e infelice.

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Venere aiuta il figlio Enea

È in particolare l’Eneide virgiliana a concedere a Venere uno spazio di primo piano. Sin dall’inizio del poema è la dea, angosciata per la sorte di Enea, a lamentarsi con Giove per la tempesta che trattiene i Troiani lontani dall’Italia; quando essi fanno naufragio sulla costa africana, Venere si mostra al figlio sotto le vesti di una giovane cacciatrice e gli offre le informazioni essenziali per orientarsi in una situazione potenzialmente rischiosa. Di lì a poco ancora Venere avvolge Enea in una nube che gli consente di muoversi in piena sicurezza nella terra straniera, quindi, per proteggere il figlio dalla doppiezza dei Fenici e dall’ostilità di Giunone, cui Cartagine è consacrata, invia Cupido da Didone perché induca la regina a innamorarsi dell’ospite troiano. Nuovamente tormentata dall’angoscia, prega Nettuno di garantire a Enea, salpato dalla Sicilia, una navigazione propizia; e quando l’eroe avvia la ricerca del ramo d’oro che gli consentirà di accedere al regno dei morti, l’apparizione di due colombe, uccelli sacri a Venere, viene interpretata come un segno dell’incessante vigilanza materna. Assente nelle prime fasi dello sbarco in Italia, Venere torna in scena per chiedere al marito Vulcano di approntare nuove armi per Enea, quindi le consegna personalmente al figlio e gli concede quell’abbraccio cui si era sottratta sulla costa di Cartagine. La dea non si tiene lontana neppure dai campi di battaglia, intervenendo ripetutamente a protezione del figlio fino al duello finale con Turno. Virgilio non rinuncia infine a una vertiginosa apertura sul futuro: tra le scene effigiate sullo scudo di Enea, Venere compare nel quadro dedicato alla battaglia di Azio mentre sostiene Augusto nello scontro con le forze umane e divine dell’Oriente. Sollecita verso Enea, Venere non sarà meno attiva al fianco dei suoi discendenti, che si tratti del futuro principe o dei Romani nel loro complesso.

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Vulca e la quadriga di Giove

A Vulca, sommo coroplasta di Veio, a cui Tarquinio il Superbo aveva commissionato una statua di Ercole e, soprattutto, la quadriga fittile che avrebbe decorato il fastigio del grandioso tempio di Giove sul Campidoglio. Vulca e i suoi aiutanti – raccontano i testi antichi – sarebbero riusciti a terminare l’opera solo dopo la cacciata dell’ultimo re, quando Roma era ormai governata da un’aristocrazia composta da acerrimi nemici dei Tarquini – mentre Veio continuava a mantenere buoni rapporti con il Superbo. È in questo contesto che si colloca un evento prodigioso collegato proprio alla produzione di Vulca. Plutarco1racconta infatti che, all’atto di cuocere la quadriga fittile destinata al tempio di Giove a Roma, gli artigiani etruschi osservarono che la statua, invece di restringersi a causa della normale evaporazione dell’acqua presente nell’impasto di argilla, si dilatò e crebbe così tanto da spaccare la fornace in cui si trovava. Gli indovini etruschi videro in tale segno portentoso un presagio di prosperità e potenza per chi avesse posseduto quella quadriga. Per questa ragione gli artigiani veienti guidati da Vulca decisero di non consegnare l’opera a Roma, con la scusa che essa apparteneva ai Tarquini, visto che era stata pagata da loro. Poco tempo dopo, però, in occasione di gare ippiche che si tenevano a Veio avvenne un secondo fatto prodigioso. I cavalli della quadriga vincitrice apparentemente impazzirono e corsero a gran velocità fino a Roma, trascinando con sé l’auriga, incapace di trattenerli, fino a che non lo sbalzarono via una volta giunti al Campidoglio, ai piedi del tempio di Giove che attendeva la sua quadriga in terracotta. Solo a seguito di tale portento gli artigiani veienti, stupefatti e spaventati dall’accaduto, consegnarono la quadriga fittile ai Romani.

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Giano, la memoria e la moneta

Ovidio, nel primo libro dei Fasti1, sta descrivendo un dialogo tra lui e Giano, dio del primo mese dell’anno, apparsogli in visione. Tra le domande che il poeta pone al dio, una riguarda proprio il significato delle antiche monete da un asse dove anche Giano è ritratto. La risposta che Giano dà a Ovidio in merito alla presenza della sua effigie rimanda – piuttosto sorprendentemente per noi – alla capacità che ha la moneta, tramite i segni che riporta, di richiamare alla memoria dell’utente la cosa che su di essa è rappresentata. Giano sottolinea infatti che la presenza della sua immagine su monete, per il fatto solo di essere su oggetti che passavano per le mani di tutti i Romani, faceva sì che il suo nome avrebbe continuato a essere riconosciuto e ricordato in quella società. Il dio bifronte, poi, si sofferma a lungo sull’immagine della prua di nave che – come ritenevano «i più» menzionati da Plutarco – rimanderebbe proprio all’arrivo di Saturno sulla sua nave, e al suo approdo sul Tevere dopo essere stato scacciato da Giove. I saggi discendenti (bona posteritas) dei più antichi abitanti del sito di Roma avrebbero apposto sulle monete da un asse la prua di nave anche in questo caso per testimoniare (testificata), ricordare, l’arrivo del divino ospite di Giano.

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Giunone Moneta e il patto per la guerra

Secondo il lessico bizantino Suda1la scelta di individuare l’area sacra di Giunone Moneta come quella che avrebbe accolto la produzione di moneta sarebbe da mettere in rapporto con un evento, in cui la divinità è coinvolta, prodottosi ai prodromi della guerra contro Pirro e i Tarantini intorno al 280 a.C. Per affrontare gli agguerriti nemici, infatti, i Romani avevano bisogno di denaro e chiesero aiuto a Giunone Moneta. Essa rispose che avrebbe loro procurato il denaro, ma solo a condizione che i Romani ricordassero di usare le armi con rettitudine.

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Esculapio giunge a Roma

Una peste funesta aveva contaminato l’aria del Lazio e i pallidi corpi giacevano abbandonati allo squallore e alla putredine. Di fronte al fallimento dei tentativi mortali e delle arti mediche, si cercò l’aiuto degli dèi. Così un’ambasceria di Romani si recò a Delfi e il dio disse loro che, per ridurre i lutti, occorreva ricorrere a suo figlio, Esculapio, che si trovava a Epidauro. Così, i Romani lo condussero a Roma, dove pose fine ai lutti1.

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Rituali di fondazione

Romolo scavò una fossa di forma circolare nel luogo in cui sorgerà un giorno il Comizio e qui fece deporre le primizie di tutte le cose che gli uomini ritengono belle sulla base della loro cultura e necessarie per natura. Poi ciascun colono venne a gettarvi una manciata di terra prelevata dal luogo natio e le diverse zolle furono mescolate insieme. I Romani chiamano questa fossa mundus. Poi con alcuni cippi terminali delinearono il perimetro della città. A questo punto il fondatore, dopo aver attaccato all’aratro un vomere di bronzo e avervi aggiogato un toro e una vacca, tracciò un solco profondo intorno alle pietre di confine, mentre quelli che lo seguivano avevano cura di rivoltare all’interno del solco tutta la terra che veniva sollevata via via lungo il percorso. Con questo tracciato delimitano il percorso delle mura, mentre la striscia di terreno che si estende dal muro fino alla linea dei cippi terminali è chiamata “pomerio”, proprio perché sta dietro o dopo il muro. Dove hanno intenzione di costruire una porta, asportano il vomere, sollevano l’aratro e lasciano uno spazio; per questo motivo credono che tutto il muro sia sacro tranne le porte; se infatti avessero considerato sacre anche le porte, non sarebbe stato possibile far entrare alcune cose e farne uscire altre necessarie e tuttavia impure senza timore religioso1.

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Luoghi e oggetti sacri della città

«Abbiamo una città fondata dopo aver preso gli auguri; non c’è luogo in essa che non sia pieno di culti e di dèi; i giorni in cui si tengono i sacrifici annuali sono stabiliti, così come i luoghi in cui questi devono essere celebrati. Credete forse che nel banchetto di Giove il pulvinar [il guanciale sul quale veniva deposta la statua del dio] possa essere allestito in un luogo diverso dal Campidoglio? E che cosa ne sarebbe del sacro fuoco di Vesta e della sua statua che è custodita in quel tempio come pegno dell’impero? Che ne sarà dei vostri ancili, Marte Gradivo e tu, padre Quirino? Si pensa dunque di abbandonare in un luogo profano tutti questi oggetti sacri, antichi quanto la città, e alcuni ancora più antichi della sua stessa fondazione? E che diremo poi dei sacerdoti? Non vi viene in mente quale grande sacrilegio stiamo per compiere? Una sola è la sede delle vestali, dalla quale nessun motivo le ha mai smosse se non l’occupazione nemica della città; al flamine di Giove è proibito rimanere anche una sola notte fuori dall’Urbe. Siete sul punto di fare di questi sacerdoti dei Veienti anziché dei Romani? Le tue vestali, o Vesta, ti abbandoneranno e il flamine, abitando fuori dalla città ogni notte, compirà un così grande sacrilegio contro se stesso e lo Stato?»1.

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L’apoteosi di Romolo

Il giorno in cui Romolo scomparve misteriosamente in Campo Marzio nel corso di una tempesta, tra la plebe serpeggiò il sospetto che egli fosse stato ucciso dai senatori, mentre gli stessi senatori sostenevano che il re era stato portato in cielo dal turbine. Allora un certo Giulio Proculo si presentò all’assemblea e assicurò di aver visto con suoi occhi Romolo scendere dal cielo e dirgli queste parole: «Va’e annuncia ai Romani che gli dèi vogliono che la mia Roma sia la testa del mondo. Che coltivino l’arte militare e sappiano che nessuna potenza umana potrà mai resistere alle armi romane»1.

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Giano bifronte e l’età dell’oro

Giano era stato il primo re del Lazio, un re talmente saggio e previdente che riusciva a vedere sia il passato che il futuro: da questa sua capacità deriverebbe il mito della sua bifrontalità. Secondo alcuni, egli era stato il primo in Italia a innalzare templi agli dèi e che per questa sua devozione aveva a sua volta ricevuto onori divini e il privilegio di essere invocato per primo nei sacrifici. Del resto, fu Giano ad accogliere Saturno quando questi venne spodestato da Zeus o addirittura a dividere il regno con lui. Saturno, dal canto suo, ricambiò l’ospitalità ricevuta rivelando a Giano i segreti dell’agricoltura di cui egli era custode e che permisero agli uomini di migliorare la qualità della loro alimentazione e il loro stile di vita. Quando poi Saturno scomparve, Giano onorò l’amico chiamando Saturnia l’intera regione sulla quale egli regnava e per lui istituì i Saturnali, una delle feste più amate dai Romani1.

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La discesa dell’ancile e la nascita dei Sali

Nell’ottavo anno del regno di Numa, mentre Roma è sconvolta da una terribile pestilenza, cade dal cielo uno scudo di bronzo che i Romani, per via della sua forma, chiamano ancile. Lo stesso Numa racconta di aver appreso da Egeria e dalle Muse che quel dono celeste avrebbe garantito la salvezza della città. Per evitare che esso fosse rubato o cadesse in mano dei nemici, il re decide di farne costruire dai suoi artigiani undici copie perfette, in modo da nascondere l’originale. Nessuno tuttavia riesce nell’impresa – si trattava del resto di riprodurre un acheropite, ossia un oggetto non fabbricato da mano umana – tranne Mamurio Veturio, il quale chiese come ricompensa per la sua arte che il proprio nome comparisse nel canto dei Sali, i sacerdoti che Numa aveva istituito per custodire i dodici ancili1.

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La pestilenza del 363 a.C. e il rito del chiodo

Nel 363 a.C. scoppiò a Roma una terribile pestilenza, che provocò la morte di molti cittadini. Si tentò di combatterla in più modi, prima attraverso la celebrazione di un lectisternium , poi, dal momento che la sua potenza non accennava a diminuire, con l’istituzione di rappresentazioni teatrali, una vera novità per i Romani, abituati fino a quel momento al solo spettacolo del circo. Tuttavia, neppure questo riuscì a placare la collera degli dèi. I più anziani si ricordarono allora di come una volta una pestilenza fosse stata arrestata quando il dittatore aveva conficcato un chiodo. Il Senato decretò allora che si eleggesse un dittatore per la clavifissione: fu scelto Lucio Manlio Imperioso, che a sua volta elesse come maestro della cavalleria Lucio Pinario1.

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La voce del dio nella selva: Fauno o Silvano?

All’epoca della guerra tra Romani ed Etruschi, all’ora del tramonto, i due eserciti si erano ritirati nei rispettivi accampamenti. C’erano state pesanti perdite in entrambi gli schieramenti, e tanta era la sfiducia soprattutto presso i Romani, i quali nella battaglia di quel giorno avevano perso il loro comandante. Molti stavano perciò accarezzando l’idea di abbandonare l’accampamento prima dell’alba. Mentre meditavano su tale ipotesi, all’ora della prima vigilia, dalla selva presso la quale erano accampati si udì una voce rivolta a entrambi gli eserciti, tanto possente da essere sentita da tutti. Era la manifestazione terrificante di Fauno, il dio dal quale provengono le parvenze e le voci soprannaturali che spaventano gli uomini. Esortò i Romani a essere valorosi: avevano vinto, perché i loro nemici contavano un caduto in più. Il console, spronato da questa voce, assaltò l’accampamento degli Etruschi e ne entrò in possesso nel cuore di quella stessa notte1. Altri2 in cui però la voce misteriosa è attribuita al dio Silvano, spesso assimilato a Fauno) raccontano invece che gli Etruschi, pur essendo superiori in battaglia, la abbandonarono all’improvviso: erano stati terrorizzati dalla voce possente del dio che, dalla vicina selva Arsia, annunciava la vittoria romana.

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La voce profetica e l’altare di Aius Locutius

Siamo alla vigilia dell’assedio gallico del 390 a.C. Mentre passeggia in piena notte lungo la via Nuova, nei pressi del bosco di Vesta, il plebeo Marco Cedicio ode all’improvviso una voce: essa lo ammonisce di avvisare i magistrati che i Galli stanno arrivando. Cedicio riferisce l’accaduto, ma i Romani disprezzano quel membro della plebe, e non temono inoltre i Galli, un popolo poco noto e lontano. Così facendo causano la disfatta della loro città, che viene assediata l’anno seguente. Per espiare questa grave mancanza, decidono quindi di consacrare un altare a quella voce misteriosa nel luogo stesso da cui era stata udita e lo dedicano ad Aius Locutius1.

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Il dialogo ambiguo tra Numa e Giove Elicio

Il pio Numa ha appena pacificato i bellicosi Romani, donando loro istituzioni civili e religiose, quando Giove scarica sulla terra una spaventosa sequenza di fulmini violentissimi. Il re ne è terrorizzato, insieme a tutto il popolo, e per scongiurare l’ira di Giove, su consiglio della ninfa Egeria, si impegna a scoprire il segreto per espiare i fulmini. Numa cattura con uno stratagemma Pico e Fauno, che in cambio della libertà gli insegnano come attirare (elicere) Giove giù dal cielo: in questo modo il re potrà chiedere direttamente al dio quale sacrificio espiatorio debba essergli tributato. Il momento culminante del racconto consiste in una serrata sequenza dialogica tra il dio e l’uomo. Nella formulazione di Valerio Anziate, Giove ingiunge: «Espierai con una testa (capite)». «Di cipolla (caepicio)», ridefinisce Numa. «Di uomo (humano)», precisa il dio. «Ma con un capello (capillo)», rilancia il re. «Vivente (animali)», insiste l’interlocutore. «Con un’acciuga (maena)», non si scoraggia il negoziatore. Secondo il tipico schema folclorico della triplicazione, in tre mosse Numa vince la resistenza dell’avversario immortale, che accetta la sua proposta di ridefinire la posta in gioco, convertendo il sacrificio umano in un’offerta sostitutiva meno crudele1.

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Ercole e la sostituzione simbolica nei sacrifici

Giunto nel Lazio, Ercole persuase i Pelasgi ad offrire a Dite non teste umane, bensì “faccine” (oscilla), ovvero maschere riproducenti fattezze umane e a venerare Saturno non immolando un uomo, bensì accendendo delle lampade. La sostituzione qui è motivata da un’analogia puramente fonica (in greco phota significa sia “un uomo”, sia “lampade”), secondo un procedimento che ricorda la soluzione degli enigmi proposta da Numa nel suo dialogo con Giove Elicio. Fatto sta che da allora è invalso il costume per cui alle feste dei Saturnalia i Romani si donavano vicendevolmente candele1.

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