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Miti

Morte di Niobe

Niobe, madre di dodici figli, sei maschi e sei femmine, osa mettersi a paragone con Latona, che ha generato soltanto Apollo e Artemide. È un oltraggio molto grave contro la poco prolifica dea e il castigo non tarda ad arrivare: le due divinità assalgono l’eroina armate entrambe del terribile arco; Apollo uccide i figli maschi di Niobe, Artemide le femmine1.

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Suicidio di Erigone

Dioniso ha insegnato a Icario la coltivazione della vite. Quando l’uomo viene ucciso da un gruppo di contadini ubriachi, sua figlia Erigone si appende a un albero collocato nel luogo dove è seppellito il padre. Insorge allora un’epidemia di impiccagioni femminili e l’oracolo di Delfi prescrive di punire gli assassini di Icario e di istituire la festa dell’Aiora, durante la quale le giovani Ateniesi si dondolano su altalene appese ai rami degli alberi1.

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Decapitazioni

Il troiano Dolone, sorpreso da Odisseo e Diomede durante una sortita notturna nel campo acheo, supplica di essere risparmiato, ma il Tidide con la spada gli tronca la testa, che rotola nella polvere1. Eveno, figlio di Ares, sfida in una corsa col carro gli aspiranti alla mano della figlia Marpessa; quando vince nella gara, uccide gli sconfitti che hanno osato gareggiare con lui ed espone le loro teste sul muro della sua casa, per terrorizzare i futuri pretendenti2. Un analogo costume è attribuito a Enomao, re di Pisa nell'Elide, che intende costruire un tempio con le teste dei pretendenti della figlia3.

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Mutilazione proci

A Itaca, nella sala del palazzo, Odisseo stermina i pretendenti che per lungo tempo si sono insediati nella sua casa. Si deve decidere la sorte da riservare al capraio Melanzio, il quale ha appena sottratto dalle stanze scudi, lance ed elmi per armare i proci. Eumeo e Filezio, istruiti da Odisseo, trascinano l’uomo nel magazzino e qui lo torturano dopo averlo appeso con una fune a una trave del tetto. I due quindi conducono fuori il corpo senza vita del traditore e col bronzo spietato gli tagliano via naso e orecchie, strappano i genitali – gettati in pasto ai cani –, infine recidono mani e piedi1.

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Mutilazione Agamennone

Quando Agamennone torna da Troia, sua moglie Clitennestra, che è diventata l’amante di Egisto, lo accoglie a casa, ma già medita in cuore un piano funesto: mentre l’ignaro consorte è privo di difese, la donna lo colpisce mortalmente e lo disonora come un nemico, sottoponendolo all’orrida pratica del "mascalismo"1.

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Mutilazione Apsirto

Dalla Colchide invece ritorna Giasone, il capo degli Argonauti, con Medea al seguito, che lo ha aiutato nella conquista del famoso vello. Eeta, il padre della maga, manda all’inseguimento un contingente di Colchi guidati dal figlio Apsirto. A un certo punto i Colchi occupano tutte le isole illiriche, mentre i Greci si stabiliscono in una delle due Brigie, sacre ad Artemide. Medea, fingendo di essere stata costretta alla fuga e di voler tornare a casa, nella notte attira il fratello presso il tempio artemideo, dove Giasone gli tende un’imboscata: l’argonauta uccide Apsirto, mozza le estremità del cadavere, poi lecca per tre volte il sangue e lo sputa, infine nasconde sotto terra il morto1.

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Il coraggio di Carite

Fra i pretendenti della bellissima Carite vi è Trasillo, un giovane di nobile famiglia, ma gran frequentatore di osterie e di donnacce. Rifiutato a causa dei suoi costumi riprovevoli, il giovane pensa di vendicarsi e durante una battuta di caccia uccide lo sposo di Carite, dopo aver architettato il delitto affinché sembri un incidente. Un giorno però, avvertita in sogno dall’anima dello sfortunato sposo, Carite decide di punire l’infame assassino: lo invita a presentarsi furtivamente di notte nella sua stanza e gli fa bere un potente sonnifero. Poi, con maschia ferocia si lancia contro l’assassino sepolto dal sonno e trafigge gli occhi di Trasillo con uno spillone. Infine, afferra la spada dello sposo e sul suo sepolcro si squarcia il petto1.

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I gemelli: Castore e Polluce (Dioscuri)

Castore e Polluce avevano razziato i buoi dei loro cugini Ida e Linceo, ma furono avvistati da Linceo stesso, che aveva una vista acutissima. Ida trafisse Castore con una lancia, perciò Polluce accorse immediatamente in preda all’ira. Ida e Linceo cercarono di invano di uccidere Polluce scagliando contro di lui una grossa pietra; ma questi ebbe la meglio su Linceo, mentre Zeus lanciò il suo fulmine contro Ida. A quel punto Polluce si diresse verso il fratello, che era a terra in punto di morte, e pregò il padre Zeus di farlo morire con lui, perché non vi poteva più essere gloria (tima) per un mortale privato dei suoi cari (philon). Ma Zeus gli rispose che ciò non era possibile, perché Polluce era in realtà figlio suo, e la sua sorte sarebbe stata quella di vivere con gli dèi nell’Olimpo; Castore era invece stato concepito dopo, da un seme mortale (sperma thnaton), ed era quindi destinato a morire. L’unica possibilità era che Polluce dividesse la sua sorte con lui, passando metà della vita sotto terra, e l’altra metà in cielo, cosa che l’eroe non esitò a fare. Zeus riaprì allora gli occhi di Castore.1.

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Orazi e Curiazi

Tullo Ostilio e il re di Alba Longa, Mezio Fufezio, decidono di risolvere il conflitto fra le loro città facendo scontrare un numero circoscritto di uomini. Come per un segno del fato, a Roma e ad Alba sono presenti due coppie di trigemini e Fufezio propone di scegliere tali giovani quali campioni dei rispettivi eserciti. I gemelli sono fra loro cugini, in quanto figli di due sorelle, le Sicinie, a loro volta gemelle fra loro e sposate dal loro padre l’una al romano Orazio, l’altra all’albano Curiazio. Inoltre, i sei ragazzi sono cresciuti a stretto contatto, al punto da chiamarsi tra loro “fratelli”, e la sorella degli Orazi è promessa sposa a un Curiazio. Nonostante ciò, i campioni delle due città sono disponibili ad affrontare il duello. Il combattimento ha luogo alla presenza dei rispettivi eserciti; dopo che due degli Orazi sono già caduti, il fratello superstite riesce a uccidere tutti i nemici, affrontandoli uno alla volta, e torna a Roma carico delle spoglie sottratte ai Curiazi. In mezzo alla folla che gli corre incontro c’è anche la sorella, che riconosce fra le spoglie il mantello da lei tessuto per il promesso sposo; Orazia scoppia allora in lacrime, rimproverando al fratello di aver ucciso degli stretti congiunti, ai quali si rivolgeva con l’appellativo di “fratelli”. Per tutta risposta, Orazio trafigge con la spada la ragazza, colpevole di piangere un nemico e di avergli rifiutato il "bacio" rituale che deve a suo fratello. Ha luogo allora un processo, nel corso del quale il giovane Orazio si appella al popolo e viene assolto, nonostante la gravità del suo crimine, in nome dell’eroismo mostrato in guerra. Tuttavia, per placare l’ira degli dèi, custodi dei legami parentali, vengono consacrati due altari, uno dedicato a Giunone Sororia, protettrice delle sorelle, e uno a Giano Curiazio. Il giovane Orazio, poi, viene fatto passare in segno di espiazione sotto un giogo, il Tigillum sororium o “Trave della sorella”, ancora visibile nel tardo I secolo a.C.; nella stessa area sorgeva anche la colonna eretta per conservare le spoglie dei Curiazi, la cosiddetta pila Horatia12.

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Romolo e Remo

Alla morte di Proca, i suoi due figli si contendono il trono di Alba Longa e Numitore, erede designato, viene spodestato dall’ambizioso fratello Amulio. Questi, temendo che la nascita di eredi maschi del fratello metta in pericolo il suo regno, fa consacrare Rea Silvia, figlia di Numitore, come vergine Vestale. La donna tuttavia mette alla luce due gemelli, attribuendone la paternità a Marte; in preda all’ira, Amulio fa allora imprigionare Rea Silvia e abbandona i due neonati nelle acque del Tevere. Provvidenzialmente, la cesta che contiene i gemelli viene deposta dalle acque ai piedi di un fico, sul terreno asciutto, e qui una lupa si avvicina ai bambini porgendo loro le sue mammelle gonfie di latte. Il pastore Faustolo, che assiste alla scena, decide di raccogliere i gemelli e di allevarli insieme alla moglie Larenzia. I fratelli crescono forti e gagliardi nelle campagne del Lazio finché un giorno uno di loro, Remo, viene catturato e consegnato al re Amulio, con l’accusa di aver condotto razzie nel territorio di Alba. Numitore riconosce allora il nipote e gli rivela la sua origine; altrettanto fa il pastore Faustolo con Romolo. I due gemelli, insieme ad alcuni compagni, attaccano la reggia, uccidono il tiranno e restituiscono il trono al nonno Numitore. A questo punto, i gemelli scelgono di andare a fondare una nuova città nei luoghi della loro infanzia. I contrasti, però, cominciano già con la scelta del nome da assegnare alla città, e la brama di potere prende facilmente il sopravvento. Dopo aver deciso di dirimere la controversia rimettendo agli dèi la scelta del fondatore, Romolo e Remo si posizionano rispettivamente sul Palatino e sull’Aventino per osservare i segni celesti. A Remo appaiono subito sei avvoltoi, ma proprio mentre tale annuncio viene portato a Romolo, questi scorge un numero doppio di uccelli. Ciascun gruppo di sostenitori acclama il proprio re, appellandosi al primato temporale o alla superiorità numerica; nella contesa che segue, Remo cade in battaglia. Secondo una diversa versione, è Romolo stesso a trucidare il fratello, reo di aver scavalcato le nuove mura in segno di scherno. In ogni caso, la città fu fondata e il gemello vincitore le diede il proprio nome1.

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Tarpea

Lo sdegno dovuto al ratto delle loro donne induce gli abitanti di tre città della Sabina (Cenina, Crustumerio e Antemne) a imbracciare le armi contro Roma. Dopo che le loro spedizioni si rivelano fallimentari, un più vasto conflitto è scatenato da Tito Tazio, re della città di Curi e figura egemone presso tutti i Sabini. A differenza dei suoi predecessori, Tazio ricorre a un piano lucido, spinto fino all’inganno. La guerra ha inizio con un curioso colpo di mano: Tarpea, la giovane figlia del custode del Campidoglio, Spurio Tarpeo, si reca a prendere dell’acqua per una cerimonia sacra e in questa occasione si lascia corrompere dall’oro del nemico. La donna consente ai Sabini di impossessarsi della rocca, ma una volta ottenuto l’ambito accesso, questi la uccidono brutalmente, lanciandole addosso i loro pesanti scudi fino a soffocarla: prima di spalancare proditoriamente le porte della rocca, Tarpea aveva infatti chiesto come contraccambio ciò che i Sabini portavano al braccio sinistro. La giovane avrebbe inteso riferirsi in questo modo ai bracciali d’oro e agli anelli preziosi che i Sabini usavano indossare; ma poiché anche gli scudi venivano tradizionalmente sostenuti col braccio sinistro, la richiesta di Tarpea poté agevolmente prestarsi a un macabro e deliberato malinteso. Non mancano peraltro versioni del racconto secondo cui, lungi dall’essere una traditrice, Tarpea avrebbe tentato di far cadere in trappola i nemici in forza del suo ambiguo riferimento alla mano sinistra: ella avrebbe realmente mirato alla consegna degli scudi dopo l’ingresso in Campidoglio, fidando nell’imminente arrivo delle truppe romane sui Sabini disarmati, ma Tazio e i suoi avrebbero colto l’intenzione fraudolenta e optato per un sanguinario “contro-dono”12.

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Integrazione tra Romani e Sabini

Una volta conquistato il Campidoglio, i Sabini devono far fronte al rinnovato impeto delle truppe romane, ansiose di vendetta. Dalla mischia emergono due valorose figure: Mezio Curzio per i Sabini e Osto Ostilio per i Romani. Quest’ultimo però cade sul campo, gettando i compagni nello sconforto; Romolo supplica allora Giove di arrestare la fuga e salvare la città, promettendo in cambio la costruzione di un tempio al dio come “Statore”. I Romani riprendono a combattere e riescono a disarcionare dal cavallo Mezio Curzio; questi precipita quindi in una palude, nell’area che più tardi sarebbe stata occupata dal Foro. A ricordo dell’evento, tale parte del Foro sarà denominata Lacus Curtius. Sostenuto dalle acclamazioni dei Sabini, comunque, Mezio si tira fuori dall’acquitrino e la battaglia riprende nella valle fra Campidoglio e Palatino. Sono le donne sabine che a questo punto imprimono una svolta alle vicende, gettandosi in mezzo alle schiere e supplicando entrambe le parti di porre termine a quella che è divenuta ormai una guerra civile. Gli uomini in lotta, commossi dall’accorato appello, acconsentono alla pace e decidono di fondere le due città. I Sabini si trasferiscono a Roma, dove Tazio diviene re al pari di Romolo. La diarchia così inaugurata prosegue all’insegna della piena concordia, finché un sinistro incidente non spezza la vita del coreggente sabino. Alcuni parenti di Tazio usano violenza contro gli ambasciatori dei Laurentini, e allorché questi domandano giustizia, Tazio non ha la forza di opporsi alle suppliche dei suoi. Perciò, quando il re sabino si reca a Lavinio allo scopo di celebrare un sacrificio, i Laurentini si vendicano uccidendolo12.

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Morte di Tito Tazio: empietà e contaminazione

È infatti a Lavinio che si consuma un altro gesto di empietà e violenza, teso a pareggiare il debito di sangue: Tazio è assassinato mentre officia un sacrificio, in un momento in cui la prassi religiosa esige il massimo della purezza e dello scrupolo. Accade invece che il re sabino muoia «trafitto presso gli altari dai coltelli sacrificali e dagli spiedi utilizzati per trapassare i buoi»1. Il sangue degli animali consacrati, offerto per la città e per gli dèi, è orribilmente mescolato a quello del celebrante, al culmine di una faida fra popoli consanguinei. Al delitto fanno seguito una serie di eventi infausti: un’inattesa pestilenza si abbatte sugli abitanti di Roma e Lavinio, la terra e gli animali domestici divengono sterili e una pioggia di sangue si rovescia sui luoghi. Né i Romani né i Laurentini hanno dubbi sul fatto che l’ira divina sia stata provocata dai due atti di empietà rimasti inespiati: l’omicidio degli ambasciatori e il linciaggio di Tazio. Dopo la morte di quest’ultimo, infatti, Romolo si era rifiutato di punire i colpevoli, asserendo che il primo fatto di sangue era stato cancellato dal secondo. Nessun effetto sortisce comunque la sollecitudine religiosa con cui Romolo dà sepoltura al collega sull’Aventino, istituendo presso la sua tomba un culto funebre che prevede l’offerta annuale di libagioni a spese della comunità, identiche a quelle che si versavano sul Campidoglio per l’ambigua eroina Tarpea. Il re deve dunque rassegnarsi a fare piena giustizia: vengono puniti sia gli aggressori degli ambasciatori laurentini sia gli assassini di Tazio e le due città sono purificate attraverso apposite cerimonie lustrali. Anche questi riti entrarono nell’uso tradizionale ed ebbero come sfondo, nei secoli successivi, una non meglio precisata Porta Ferentina2.

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Altalene rituali: miti eziologici di impiccagione e feste femminili

Erigone è la fanciulla figlia dell’ateniese Icario, ucciso da pastori ubriachi. Alla vista del padre morto Erigone si impicca ai rami del pino sotto il quale era stato sepolto il cadavere, e prega che altrettanto facciano le fanciulle Ateniesi fino a che il padre non sia vendicato. E infatti molte fanciulle di Atene vengono trovate impiccate ai rami di pino. Gli Ateniesi allora puniscono i pastori assassini e istituiscono in onore di Erigone, trasformata nella costellazione della Vergine, una festa in cui si appendono manichini ai rami degli alberi1. Carila è una fanciulla di Delfi, che durante una carestia si reca dal re a chiedere un po’di grano. Ma il re la respinge. Carila, umiliata, si impicca e, da quel momento, la carestia aumenta. L’oracolo allora impone l’istituzione di una festa, da tenere ogni nove anni, in cui viene distribuito del grano, e viene sospeso ad un albero un manichino di nome Carila, con un laccio al collo, poi seppellito nel luogo del suicidio della fanciulla2.

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Vendetta di Clitemestra su Agamennone

Clitennestra, sorella di Elena, sposa l’Atride Agamennone, duce della spedizione di Troia. Il primo marito e il figlio avuto da lui erano stati uccisi proprio da Agamennone, che ad Aulide aveva sacrificato la propria figlia Ifigenia per consentire la navigazione per Troia1. Negli anni di lontananza del marito, dopo avere dapprima fatto resistenza, si lascia sedurre da Egisto, figlio di Tieste fratello di Atreo. Una vicenda torbida segna la vita di Egisto, nato dal legame incestuoso di Tieste con la figlia Pelopia, perché si vendicasse di Atreo che aveva imbandito al fratello Tieste le carni dei suoi figli. A quest’uomo Clitennestra cede, consentendogli per di più di insediarsi nel palazzo di Micene e regnare con lei, finché, tornato Agamennone dalla guerra, gli tende una trappola di morte e lo uccide. Ma implacabile arriva la vendetta del figlio Oreste, che per ordine di Apollo uccide la madre. (Eschilo, Agam.; Cho.) .

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Le Danaidi e il rifiuto del matrimonio

Le Danaidi sono le cinquanta figlie del re di Libia Danao. Fuggono dalla loro terra assieme al padre per sfuggire alle nozze con i loro cinquanta cugini, figli del fratello del padre, Egitto. Si rifugiano quindi ad Argo dove ottengono l’ospitalità e la protezione del re Pelasgo. Il matrimonio si configura infatti per loro come un incesto, trattandosi di cugini consanguinei, per di più al di fuori della norma sociale che richiede il consenso del padre. Ma l’aspetto più marcato nelle fonti è che le nozze sono vissute da loro come un insopportabile atto di violenza e di predazione, che esse, come colombe ghermite da sparvieri, rischiano di subire dai maschi assalitori. Alla fine il padre sembra acconsentire alle nozze, che dunque vengono celebrate, ma egli stesso arma la mano delle figlie dando loro la spada per assassinare i mariti. La prima notte di nozze si trasforma quindi in una strage, in quanto le fanciulle uccidono ciascuna il loro marito, tranne una, Ipermestra, che risparmia Linceo, del quale si era innamorata perché aveva rispettato la sua verginità; il suo è l’unico letto nuziale che non si macchia di sangue, né del sangue della deflorazione, né di quello dello sgozzamento. Per punizione del loro crimine, nell’Ade le fanciulle sono condannate a riempire in eterno di acqua un vaso bucato1.

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Meleagro e la caccia al cinghiale calidonio

Fenice nella tenda di Achille narra della guerra tra i Cureti e gli Etoli, scoppiata a seguito dell’uccisione del cinghiale calidonio che Artemide, offesa dal re Eneo – perché sola fra gli dèi non aveva avuto parte all’ecatombe offerta dal sovrano – aveva inviato a devastare i campi della regione. Meleagro riuscì ad avere la meglio sull’animale. Artemide però suscitò una nuova disputa tra Etoli e Cureti per le spoglie dell’animale. Nel corso del combattimento Meleagro uccise per errore uno dei fratelli della madre, fu maledetto da quest’ultima e votato alla morte. Temendo la maledizione l’eroe si rinchiuse in casa, abbandonando gli Etoli alla furia dei Cureti, rifiutando di tornare a combattere. Gli Etoli, assediati, inviarono gli anziani a convincere Meleagro a riprendere i combattimenti, ma il giovane resistette ostinatamente anche alle suppliche dei genitori e delle sorelle. Riuscì a convincerlo solo la moglie, ma troppo tardi, perché la città era ormai in fiamme ed è egli non trasse nessuna gloria dalle sue gesta.1.

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Le Danaidi e gli Egizi: il rischio dell'incesto

Giunte ad Argo, per evitare l’unione molesta e l’incesto con i cugini figli d’Egitto, si rifugiano, come supplici, presso gli altari della città, dichiarando al sovrano Pelasgo (o Gelanore) di essere pronte a usare le loro cinture per impiccarsi. Il re di Argo si trova drammaticamente messo di fronte alla scelta di dovere decidere tra una guerra sicura contro i figli d’Egitto e il rischio di contaminazione (miasma) che il suicidio delle Danaidi sugli altari comporterebbe. Costrette poi all’unione con i cugini, le fanciulle finiscono tutte per fare strage dei loro mariti nel sonno. Solo la primogenita, Ipermestra, risparmiò il suo compagno che aveva rispettato la sua verginità.1.

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Comportamento scellerato di Tullia

Tullia agisce in un primo tempo all’interno della casa, dove però tiene un comportamento del tutto inaccettabile (si incontra di nascosto con il marito della sorella, con il quale decide, e poi compie, gli omicidi della sorella e del marito), poi fuori dell’ambiente domestico. In particolare, subito dopo l’assassinio di suo padre Servio Tullio, Tullia si dà a una fitta sequenza di trasgressioni. Prima si reca nel Foro sul carpentum, un tipo di carro chiuso impiegato dalle matrone per non rinunciare alla necessaria riservatezza, ma del quale la donna farà un pessimo uso. Inoltre, una volta nel Foro Tullia si mescola alla folla degli uomini, rivolgendo la parola al marito in una tale sconveniente situazione, al punto che lo stesso Tarquinio si vede costretto ad allontanarla. Ed è durante il tragitto di ritorno che Tullia passa con il suo carro sul corpo del padre, che lì giaceva dopo che suo marito l’aveva fatto uccidere, nella strada che proprio da questo episodio prenderà il nome di Vicus Sceleratus. Tullia porta così fino ai Penati propri e del marito parte del sangue proveniente da quella terribile uccisione, del quale è imbrattata e schizzata lei medesima: e a questa sistematica infrazione dei doveri parentali non potrà che seguire l’ira dei Penati stessi. Tullia quindi non solo non sa limitarsi a stare nello spazio che le compete, ma al contrario fa dello spazio – di ogni spazio – l’uso più trasgressivo possibile1.

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Morte di Virginia

Quanto al mito di Virginia, la ragazza uccisa dal padre per sottrarla alle voglie colpevoli del decemviro Appio Claudio, il quale ha ordito un inganno per impadronirsi della vergine, in uno dei passaggi del racconto la vediamo muoversi nel Foro, ma è significativo che le fonti sentano il bisogno di motivare tale presenza: c’erano lì degli spazi adibiti a scuole. Inoltre, la ragazza è accompagnata dalla nutrice; e un po’più avanti il fidanzato Icilio, quando apostrofa il decemviro, afferma tra l’altro: «La fidanzata di Icilio non rimarrà fuori della casa di suo padre»1. Quando poi, prima del processo2, Virginio porta con sé nel Foro la figlia, questa è accompagnata da un certo numero di matrone e da molti difensori; di lì a poco però quella folla arretra, intimidita dall’atteggiamento violento di Appio Claudio, e la vergine resta in piedi, preda abbandonata all’oltraggio. È a questo punto che il padre, vista svanire ogni speranza di salvezza, chiede di portare un momento con sé la figlia verso il tempio della dea Cloacina e lì la uccide, per garantirne la libertà nell’unico modo in cui era possibile3. In quella situazione non solo le donne che le erano vicine, ma neppure i concittadini potevano assicurarle che la pudicizia di Virginia fosse rispettata, e quindi la ragazza non poteva più aspirare a ricoprire il ruolo che il suo statuto di vergine prescriveva e che aveva il suo preciso posto nella vita della comunità .

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Sospetto di adulterio

Un tale che amava molto sua moglie e stava predisponendo per il figlio la toga virile fu preso in disparte da un liberto, che sperava di subentrare come suo erede più prossimo. Questi, dopo avergli mentito sul conto del figlio e su quello della moglie, aggiunse una calunnia che sarebbe stata motivo di profondo dolore per un uomo innamorato, e cioè che il buon nome della sua casa era contaminato da un adulterio. L’uomo escogitò allora un modo per verificare le parole del liberto: dopo qualche giorno, finse di andare fuori città ma al calar della notte tornò indietro e si introdusse nella camera coniugale. Al buio, toccò una testa d’uomo dai capelli corti e senza attendere oltre trafisse quello che credeva l’amante di sua moglie. Non si trattava, però, di un adultero, ma del suo stesso figlio, che dormiva accanto alla madre. La donna, infatti, gli aveva ordinato di passare la notte con lei per sorvegliare con più attenzione l’età adulta che il ragazzo aveva appena raggiunto. Scoperto il tragico errore, il padre non regge al cordoglio e quella stessa spada che aveva impugnato per l’inganno del servo la rivolge contro sé stesso1.

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Appio Claudio attenta alla verginità di Virginia

Il decemviro Appio Claudio è preso dal desiderio di violare una vergine plebea di straordinaria bellezza, figlia di Lucio Virginio. Appio tenta dapprima di sedurre la ragazza con l’offerta di un compenso, ma, ostacolato dal pudore di lei, sceglie di ricorrere alla violenza. Incarica un suo cliente di dichiarare che la vergine era figlia di una sua schiava e dunque di sua proprietà. Quello obbedisce, ma dal momento che una gran folla accorre per impedire quell’ingiustizia, il cliente cita la ragazza in giudizio presso il tribunale di Appio, il quale acconsente a che l’uomo la conduca a casa sua. Ma Icilio, cui la giovane era promessa, protesta e ottiene che sia mandato a chiamare il padre di lei, impegnato in una campagna di guerra. Intanto Appio stabilisce che Virginia sia data in schiava a chi la rivendica. Virginio chiede allora un momento perché, in disparte con la figlia, possa interrogare la nutrice sulla sua nascita. Conduce quindi la giovane nei pressi delle Botteghe nuove e, afferrato un coltello, le trafigge il petto. I Romani piansero il delitto di Appio, la funesta bellezza della fanciulla e l’ineluttabile decisione paterna1.

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Tarpea si fa corrompere dai nemici

Al tempo in cui il Campidoglio era sorvegliato da Spurio Tarpeio, i Sabini guidati da Tito Tazio entrarono a Roma. Fu la figlia del guardiano, Tarpea, a rendere possibile l’accesso ai nemici. La giovane vergine era uscita dalle mura per prendere l’acqua quando fu sorpresa da Tito Tazio. Tarpea guidò il nemico alla rocca, secondo alcune fonti con la promessa di ricevere in cambio i suoi gioielli d’oro1, secondo altre perché innamoratasi subitaneamente del re sabino2. In tutti i casi, la fanciulla morì, colpita dagli scudi dei nemici.

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Eracle e la veste avvelenata

Il giorno in cui Eracle salvò la sposa Deianira dalle insidie erotiche di Nesso, ferendolo a morte, innescò senza saperlo il principio della propria fine. Il Centauro diede alla donna i grumi del proprio sangue, facendoli passare per una pozione d’amore. Quando Eracle prese Iole come concubina, la sposa gelosa inviò al marito una veste intrisa del sangue velenoso. L’araldo Lica consegnò il dono nefasto ad Eracle ma la veste, una volta indossata, prese fuoco fino a corrodere il corpo dell’eroe. Eracle, prima di morire, afferrò Lica e lo scagliò verso il mare. Alcuni raccontano semplicemente che l’araldo morì schiantandosi contro un masso1; altri dicono che nel punto in cui cadde e sparì in mare nacque uno scoglio che fu chiamato Lica, altri ancora che a questo evento devono essere ricondotte le tre isole dette Licadi, antistanti le coste dell’Eubea2.

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Eracle contro Caco

In preda all’ira, Ercole strappa il masso che impediva l’accesso alla spelonca. Vistosi scoperto, e non avendo dove fuggire, Caco, sconvolto e atterrito, comincia a eruttare dalla sua bocca una fumata nera che avvolge tutto l’antro per cercare di sottrarsi allo sguardo dell’eroe. Ercole, preso dallo sdegno e in preda ad un furore omicida, attraversa la coltre di fumo e fiamme e acciuffa Caco per la gola, strangolandolo1.

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Meleagro e il tizzone

In occasione della nascita di Meleagro, la madre di questo, Altea, riceve la visita delle Moire, che le rivelano un segreto da cui dipenderà la vita dell’eroe, destinato a morire nel momento esatto in cui si consumerà completamente il tizzone che le dee le consegnano. La donna custodisce con cura il tizzone fatale, ma quando Meleagro uccide i fratelli di sua madre, Altea allora in un accesso di collera lo fa bruciare del tutto, mettendo fine in tal modo alla vita del figlio1.

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Purificazione dopo la strage dei Proci

Svelata l’identità e impugnato l’arco, Odisseo fece strage dei pretendenti in casa sua. Dopo che l’opera era stata compiuta, la prima richiesta del re reduce da Troia fu di avere zolfo e fuoco, perché purificasse la sala dove era avvenuta la mattanza. La nutrice Euriclea provvide; Odisseo con fuoco e zolfo purificò per bene la sala, il soffitto e il cortile1.

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Purificazione di Giasone e Medea

Quando erano oramai in vista i monti Cerauni, gli Argonauti fuggiti dalla Colchide incontrarono terribili tempeste suscitate da Era. Un miracoloso legno parlante della nave Argo chiarì loro che mai sarebbero sfuggiti alle pene del mare e alle tempeste terribili, se non si fossero recati da Circe, sorella di Eeta, che li avrebbe purificati dall’assassinio del nipote Apsirto, perpetrato dalla sorella Medea poco prima di fuggire con Giasone. Giunti all’isola Eea, gli Argonauti trovarono Circe che si purificava lavando i capelli e le vesti nel mare, dopo aver avuto un terribile sogno in cui spegneva un violento incendio scoppiato in casa sua versando sulle fiamme il sangue che grondava abbondante dalle pareti. Dopo essersi purificata dal sogno notturno, Circe invitò Giasone e Medea nella sua dimora, dove attuò un processo purificatorio: sgozzò un porcellino dopo averlo elevato sul capo dei due supplici seduti sul focolare sotto la tutela di Zeus. Giasone e Medea furono liberi di riprendere il viaggio «purificati», ma Circe rinnovò la condanna per il sangue "famigliare" che era stato versato, predicendo a sua nipote un triste destino1.

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Epimenide cretese purifica Atene

La città di Atene era vittima di una grave pestilenza. Per purificare la città e guarire dal morbo, fu chiamato da Creta Epimenide. La pestilenza ebbe fine dopo che il purificatore cretese ebbe lasciate libere dall’Areopago, dove le aveva radunate, pecore bianche e nere: ai suoi assistenti disse di sacrificarle al dio del luogo dove si fossero fermate. Secondo un’altra tradizione, Epimenide, individuata la causa della pestilenza nell’eccidio perpetrato qualche decennio prima dalla famiglia degli Alcmeonidi a danno dei seguaci dell’aspirante tiranno Cilone, avrebbe compiuto il sacrificio umano di due giovani, Cratino e Ctesibio, e la sciagura sarebbe passata. Superata la crisi, Epimenide ritornò a Creta senza accettare il denaro che gli offriva la città per la sua prestazione1.

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L'esempio di Oreste nell'Odissea

La dea Atena addita espressamente a Telemaco, figlio di Odisseo, la cui casa è invasa dai Proci, l’esempio di Oreste: «Non senti quale gloria ha guadagnato Oreste divino fra tutti gli uomini, perché ha ucciso l’assassino del padre, l’ingannatore Egisto1.

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Purificazione di Oreste

Il doppio assassinio, della madre e del suo amante, fu ispirato da Apollo, ma comunque Oreste dovette purificarsi. Anche la sua purificazione ha a che fare con Apollo: sull’ara domestica del dio è il sacrificio di un verro lattante per mondare l’impurità di Oreste1. In altre tradizioni il figlio di Agamennone arrivò in Italia e nell’area di Reggio, nelle acque del fiume Metauro (odierno Petrace), fece un bagno purificatore, appese a un albero l’arma dell’omicidio, una spada, eresse un tempio in onore di Apollo in un bosco dal quale i Reggini raccoglievano un ramo di lauro ogni volta che inviavano una delegazione a Delfi2.

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Arte divinatoria di Teoclimeno

Mentre Telemaco è sul punto di imbarcarsi per lasciare Pilo e far ritorno a Itaca, gli si fa incontro il mantis Teoclimeno, discendente di Melampo e figlio di «Polifede magnanimo, che Apollo fece indovino». Teoclimeno è un esule, fuggito da Argo per aver ucciso un uomo della sua stessa tribù. Incalzato dai parenti del morto, che intendono vendicare con le proprie mani il congiunto, Teoclimeno non ha altra via di scampo che supplicare Telemaco di accoglierlo sulla sua nave e di portarlo con sé in salvo. Il saggio figlio di Odisseo acconsente alla richiesta di aiuto. Appena giunti a Itaca, Teoclimeno dà subito prova, al cospetto di Telemaco, delle sue competenze divinatorie: un falco, che ghermisce tra gli artigli una colomba, vola incontro al giovane eroe, da destra; il mantis riconosce nel rapace «un messaggero di Apollo», destinato ad annunciare la restaurazione dell’autorità regale di Odisseo. Udita con piacere e speranza la parola mantica dell’indovino, Telemaco lo affida alle cure di un amico e si reca alla capanna di Eumeo, uno dei pochi uomini rimasti fedeli al padre. Telemaco e Teoclimeno si incontrano di nuovo poco dopo nel corso di un solenne banchetto alla reggia di Itaca. Qui, dopo che Telemaco ha appena finito di rispondere a una delle tante richieste di matrimonio con la madre Penelope, la dea Atena, la protettrice più premurosa della famiglia regale itacese, suscita tra i pretendenti un inestinguibile riso: ormai votati a morte certa per l’imminente ritorno di Odisseo, i principi di Itaca «ridono con mascelle altrui», quasi fossero già scheletri che digrignano i denti, mangiano carni cosperse di sangue e hanno gli occhi pieni di lacrime. Naturalmente, tale spettacolo, che è ancora di là a venire per quanto i proci siano già condannati, non è visibile al momento a nessuno dei presenti, eccetto Teoclimeno. Il mantis percepisce (noeo) la rovina che si sta per abbattere sui pretendenti, riuscendo sia ad ascoltare gemiti e singhiozzi dei principi massacrati sia a scorgere i muri imbrattati di sangue e le ombre dei defunti che scendono all’Erebo avvolte da una tetra oscurità. L’agghiacciante visione è riservata unicamente al mantis, tant’è che, udita la sua profezia, i proci prendono a ridere di lui e invitano i giovani ad accompagnarlo in piazza «se qui gli par notte!». Ma Teoclimeno, ormai consapevole di quello che sta per succedere, esce dal palazzo da sé, prima che la strage abbia inizio1.

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uccisione_romolo

Della morte di Romolo esistono due versioni. Quella meno diffusa1mette in risalto l’aspetto tirannico del fondatore di Roma. Si racconta infatti che Romolo aveva accentrato nelle sue mani sempre più potere e questo lo aveva reso inviso agli altri patres, cioè agli altri senatori romani con i quali si consultava durante il suo regno. Questi, volendo mettere fine al suo potere spropositato, lo avevano ucciso durante un’assemblea e, per nascondere il delitto, avevano spezzato il suo corpo, di cui ogni senatore aveva portato via un pezzo nascosto sotto la sua toga.

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ercole_caco

A quel tempo, gli abitanti che vi risiedevano erano afflitti da un grande male: un altro mostro a tre teste, Caco, faceva razzie e uccideva gli abitanti dei dintorni. Questo mostro aveva una forza soprannaturale che gli uomini non potevano vincere. Ma Ercole, essere divino, ci riuscì. E questo accadde non solo perché Ercole avesse voglia di fare del bene agli abitanti del Lazio, ma anche perché il mostro aveva osato recargli danno. Mentre il nostro infatti si concedeva un pisolino, Caco rubò alcune delle preziose vacche tirandole per la coda e facendole camminare all’indietro fino a una grotta. Svegliatosi Ercole, cercò invano le vacche scomparse. Le orme degli animali indicavano infatti la direzione opposta e Ercole non riuscì a trovarle. Quando, nonostante la perdita, decise di rimettersi in cammino, le vacche, che gli erano rimaste, muggirono, e le altre, che si trovavano dentro la grotta, risposero rivelando così il loro nascondiglio. Allora Ercole si lanciò verso la grotta e, dopo aver rimosso la pesante pietra che serviva da porta, affrontò Caco tra vapori e fuliggine. Lottarono a lungo, alla fine Ercole ebbe la meglio e, ucciso il mostro, ne portò il cadavere all’aperto. Gli abitanti del Lazio, visto «il volto e il petto villoso di setole della mezza belva» giacere inerti, ringraziarono il benefattore e costruirono un grande altare in suo onore (l’Ara Maxima, che oggi si trova inglobata nella cripta della chiesa romana di Santa Maria in Cosmedin), presso il quale ogni anno si celebravano un grande sacrificio e un banchetto1.

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ino_roma

La storia inizia nella città greca di Tebe, dove si trova la giovane donna Ino, sposa del re Adamante. Inoè anche sorella di Semele, dalla cui relazione amorosa con Zeus nasce Dioniso. A causa dell’ira di Giunone, però, Semele è stata fulminata. Dalle ceneri del suo corpo viene estratto il feto di Dioniso, che viene cucito nella coscia di Zeus per completarne la gestazione. Una volta nato (o rinato dalla coscia del padre), Dioniso viene affidato a Ino, che se ne occupa in qualità di zia materna. A questo punto la collera di Giunone per il tradimento di Zeus si rivolge contro di lei e la sua famiglia. Giunone fa in modo che Inovenga a sapere che Adamante, il marito, aveva una concubina. Resa folle dalla gelosia, Inobrucia i semi con cui si sarebbe dovuto ottenere il futuro raccolto. Quest’atto sconsiderato, che può provocare una grave carestia, suscita a sua volta l’ira furiosa di Adamante che uccide uno dei figli avuti con Ino. La giovane madre scappa con l’altro figlio, Melicerta, nel tentativo di salvargli la vita. Fuggono fino al mare in cui si gettano saltando da una rupe. Le divinità marine hanno pietà di loro e, nel mito greco, le divinizzano: lei prende il nome di Leucotea, la dea bianca, in ricordo della bianca schiuma del mare, e il figlio quello di Palemone. Nel mito romano, invece, la loro storia non termina qui. Dopo un viaggio per mare e, in seguito, nel Tevere, i due approdano nel centro di quella che sarà un giorno Roma, vicino al futuro Foro Boario, dove si trovano anche l’Ara Maxima di Ercole e il Tempio di Carmentis. Al loro arrivo, madre e figlio sono attaccati da un gruppo di Menadi, che vogliono impossessarsi del bambino. Inochiede aiuto ed è proprio Ercole che, udite le grida, viene in suo soccorso. Liberati dalle donne infuriate, madre e bambino vengono accompagnati da Carmentis, dea della profezia proveniente anche lei dalla Grecia. Questa provvede a rifocillarli offrendo loro quei biscotti che diventeranno in seguito un’offerta rituale e a tranquillizzarli, rivelando loro di essere al termine delle sofferenze: madre e bambino diventeranno delle divinità del Lazio e saranno conosciuti come Mater Matuta, cioè la divinità dell’aurora e dell’infanzia dei bambini, e Portunus, nome che indica il suo stretto rapporto con le acque navigabili1.

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Edipo e Laio: l'esposizione, l'oracolo, il parricidio

Quando Giocasta partorisce, Laio fa prontamente esporre il bambino da un pastore, dopo avergli mutilato i piedi con punte di ferro1. L’uomo decide però di salvarlo affidandolo a un pastore di Corinto, che lo dona a sua volta alla coppia regale della città, Merope e Polibo, che non ha figli propri. Qui Edipo viene allevato fino al giorno in cui, nel corso di un banchetto, un compagno lo apostrofa ingiuriosamente come bastardo. Turbato da questa insinuazione, Edipo decide di cercare la verità recandosi a Delfi, dove riceve un responso ancora più sconvolgente: egli è destinato a divenire assassino del padre e sposo della madre. Edipo fugge allora il più lontano possibile da Corinto, ma finisce per incontrare il suo fato proprio quando si sente ormai al sicuro, sotto le spoglie di un vecchio re su un carro che gli nega il passo al crocicchio sulla strada tra Delfi e Tebe. Il vecchio infatti non è altri che Laio. Ostile e aggressivo verso il giovane sconosciuto, rifiuta di cedergli il passo e lo colpisce violentemente sulla testa con la sferza per i cavalli. Edipo allora è costretto a difendersi e uccide il vecchio con il suo bastone di viandante2.

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Odisseo e Telemaco progettano la strage dei proci

Odisseo prepara con Telemaco la strage dei Proci, gli domanda quanti e quali siano per poterli assalire insieme, loro due soltanto, con l’aiuto di Atena. Nell’ordire il piano Odisseo pretende dal figlio assoluta segretezza e chiede a Telemaco di precederlo a palazzo, dove egli arriverà come mendicante e dove il figlio dovrà sopportare che il padre venga umiliato senza reagire. A un cenno del suo capo toglierà le armi dalla sala dei banchetti, lasciando solo quelle per loro due1. Con l’aiuto di Atena il piano concertato tra padre e figlio andrà a segno2.

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Medea uccide i figli per vendetta

Nella sua nativa Colchide, Medea ha aiutato l’eroe Giasone giunto dalla Grecia alla conquista del vello d’oro. Follemente innamorata, Medea si è unita a lui, ha generato due figli e si è stabilita a Corinto. Dopo alcuni anni, però, l’idillio si interrompe bruscamente perché Giasone decide di sposare Glauce, figlia del re di Corinto Creonte, per assicurarsi il potere regale. Creonte intende esiliare Medea, di cui teme le arti magiche; la donna è fuori di sé e pazza di dolore reclama i diritti del letto e dell’eros e invoca vendetta. Il tradimento di Giasone annienta in Medea ogni amore per i figli: odia i bambini, li maledice e augura la rovina loro, del padre e di tutta la casa, desiderando essa stessa di morire e dissolversi. Dopo aver ucciso la nuova sposa di Giasone con doni avvelenati, Medea ha ancora un’ultima esitazione, quindi si risolve all’estrema vendetta e si fa assassina dei propri figli1.

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Omicidio delle Danaidi e sorte di Ipermestra

Danao finge di cedere e assegna a ogni Egizio una figlia, non prima però di aver loro dato un pugnale per uccidere i cugini nella prima notte di nozze. Tutte le Danaidi compiranno l’assassinio dei neosposi, con l’eccezione della sola Ipermestra1. A lei il suo sposo piace, e molto. Mossa dal desiderio di unirsi a lui, decide di lasciarlo vivere. Il padre allora la sottopone a giudizio e la stessa dea Afrodite scende per difenderla, proclamando il primato del desiderio amoroso che la Terra ha posto come legge cosmica quando si è unita al Cielo ed è stata da lui fecondata in forma di pioggia, generando così animali e piante2. Ipermestra e lo sposo Lirceo (o Linceo) diverranno così capostipiti di una stirpe di eroi, quali Perseo ed Eracle.

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Castore e Polluce contro Ida e Linceo

Il destino dei Dioscuri si intreccia con quello di Ida e Linceo, figli di Afareo cugino di Tindaro. Venuti a contesa per il bestiame, i Dioscuri riescono a rapire la mandria dei cugini e fuggono. Linceo però, dotato di vista acutissima, scorge Castore acquattato nel cavo di un albero di quercia; ne rivela quindi la posizione a Ida, che lo trafigge mortalmente con una lancia. Polideuce si slancia a inseguirli fino a Terapne, dove i due si erano rifugiati presso la tomba di Afareo. Lì Polideuce uccide Linceo e, quando Ida cerca di colpirlo con la pesante pietra tombale del padre, è lo stesso Zeus a difendere il figlio e a incenerire Ida con la folgore. Polideuce torna di corsa da Castore, ma lo trova in fin di vita; scongiura allora il padre Zeus di farlo morire con il fratello gemello, poiché se non può essere vissuta insieme a Castore la vita gli appare solo come sofferenza. Zeus allora lo pone davanti a una scelta: o vivere senza Castore da immortale nell’Olimpo o condividere lo stesso destino del gemello, un giorno in cielo e un giorno negli inferi. Polideuce senza esitazione sceglie il destino di condivisione con il fratello. Da allora i Dioscuri trascorrono un giorno presso Zeus, nell’Olimpo, e un giorno nell’oscurità, sotto terra1. Si narra ancora che dopo morti i due divennero stelle luminose, la costellazione dei Gemelli2. Dal cielo essi vengono in soccorso ai naviganti che, colpiti da una tempesta, li invocano promettendo loro un sacrificio di bianchi agnelli3.

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Euristeo, Atreo e il potere su Micene

Dopo la morte di Eracle i suoi figli organizzano una spedizione contro Euristeo, che non solo aveva sottoposto il padre alla schiavitù delle dodici fatiche, ma regnava anche su Micene usurpando una sovranità che sarebbe spettata a Eracle. Euristeo è figlio di Stenelo e di Nicippe, figlia di Pelope e Ippodamia. Prima di partire per la spedizione contro gli Eraclidi, egli affida il regno di Micene allo zio materno Atreo, fratello della madre Nicippe, che era stato bandito dal padre Pelope come punizione per l’uccisione del figlio Crisippo. Dopo l’uccisione di Euristeo da parte di Illo, Atreo e la sua stirpe restano a regnare su Micene1.

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Bruto partecipa alla fondazione della repubblica

Bruto è figlio di una sorella di Tarquinio il Superbo; questi gli uccide il padre e il fratello, ma Bruto riesce a sfuggire alla follia omicida del sovrano fingendosi sciocco ed entra persino in intimità con i figli del re, che lo considerano il proprio zimbello. Più tardi, Bruto vendica lo stupro commesso da Sesto Tarquinio, figlio del Superbo, sulla castissima Lucrezia guidando la rivolta che conduce all’abbattimento della monarchia, per diventare infine membro della prima coppia consolare che guida la neonata repubblica. Quando viene a sapere che una vasta trama, mirante a riportare Tarquinio sul trono di Roma, ha coinvolto anche i suoi figli Tito e Tiberio, Bruto ne dispone l’immediata messa a morte e assiste personalmente all’esecuzione dei due giovani; e mentre tutti i presenti cedono alla commozione, il solo console mantiene un’espressione imperturbabile1.

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Ostilità tra Numitore e Amulio

I due principi Numitore e Amulio sono entrambi figli del re Proca. Secondo la variante più diffusa del racconto, Numitore eredita il regno del padre e ne viene successivamente privato con la violenza da Amulio; questi consolida poi il suo potere provvedendo a eliminare o emarginare la discendenza sia maschile che femminile del fratello1.

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Le due Tullie, spose dei due Tarquini

Le due Tullie, figlie di Servio Tullio e di una Tarquinia, hanno sposato i due fratelli Lucio e Arrunte, che la tradizione romana considera a loro volta figli di Tarquinio Prisco, e dunque zii materni delle due Tullie, oppure nipoti del defunto sovrano, e dunque cugini delle Tullie stesse. I due matrimoni uniscono però partner dal temperamento opposto: la Tullia più ambiziosa e spregiudicata ha sposato il Tarquinio più mite e arrendevole, la Tullia più devota al padre e aliena dal delitto, al contrario, il Tarquinio deciso a rivendicare il trono appartenuto un tempo alla sua famiglia. Ben presto i due cognati più animosi, Lucio Tarquinio e Tullia Minore, diventano amanti e si sbarazzano con un duplice delitto dei rispettivi partner, quindi si sposano a loro volta e organizzano la liquidazione di Servio Tullio. Mentre Lucio si presenta in Senato ed espelle violentemente dalla curia l’anziano re, precipitandolo dalle scale e abbandonandolo sul selciato, dove invia poi dei sicari a finirlo, Tullia si imbatte nel cadavere del padre, che impedisce al suo cocchio di procedere, e non esita a calpestarlo con le ruote del carro. Del crimine resta traccia nella stessa toponomastica della città, giacché la via che Tullia stava percorrendo al momento di imbattersi nel corpo del padre venne ribattezzata Vicus Sceleratus1.

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Rea Silvia e lo zio Amulio

Dopo essersi impadronito del regno, Amulio impone alla figlia del fratello il sacerdozio di Vesta, che comportava l’obbligo della verginità, e uccide durante una battuta di caccia il figlio di Numitore. Il ruolo di patruus ricoperto da Amulio diventa rilevante allorché la Vestale subisce violenza dal dio Marte e rimane incinta dei futuri fondatori di Roma: mentre infatti Numitore cerca in ogni modo di prendere tempo, suggerendo di attendere il parto per verificare che nascano effettivamente due gemelli, come il dio aveva profetizzato, Amulio è mosso invece da un’ira incontenibile e impone che Ilia venga battuta a morte con le verghe, poiché ha macchiato il suo corpo di sacerdotessa1. Non mancano tuttavia versioni della storia nelle quali proprio ad Amulio era addebitata la violenza contro la donna, che il re avrebbe aggredito assumendo l’aspetto del dio Marte; i due gemelli sarebbero dunque frutto di una relazione incestuosa. Questa variante rientra nella caratterizzazione di Amulio come tiranno, dato che l’ethos del despota trova proprio nell’infrazione delle norme relative alla sessualità il suo campo privilegiato di espressione; d’altro canto, essa rappresenta il totale rovesciamento del ruolo di custode dell’integrità sessuale dei figli del fratello tradizionalmente attribuito allo zio paterno .

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