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Miti

Nascita di Silvio

Ascanio, figlio di Enea, fondò sulle falde del monte Albano la città di Alba Longa. Il regno toccò poi al figlio Silvio, il cui nome si doveva al fatto di essere nato casualmente nei boschi (silvae). Secondo una variante del mito, dopo la morte di Enea, Lavinia fu presa dal timore che Ascanio volesse estromettere il figlio di Enea, del quale era incinta; cercò allora rifugio presso Tirreno, un guardiano di porci, e questi la nascose in una capanna situata nel mezzo di una fitta boscaglia. Quando il bambino venne alla luce, Tirreno lo allevò e gli diede il nome di Silvio, per il fatto che era nato nella selva1. L’appellativo di "Silvio" fu portato da quel momento da tutti i re di Alba Longa.

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Gli insegnamenti del padre: Enea e Ascanio

Prima di affrontare il decisivo duello con Turno, Enea si congeda dal figlio Ascanio e stringendolo a sé gli dice: «Figliolo, impara da me il coraggio e il vero travaglio, dagli altri la buona sorte. Da me riceverai difesa e grandi compensi. Tu, quando giungerai all’età adulta, fa’in modo di ricordartene e nel ripetere in cuor tuo gli esempi dei tuoi, ti inciti tuo padre e anche tuo zio Ettore»1.

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Enea salva Anchise

Dopo la presa di Troia, Enea rimane a combattere in città, occupando la rocca e organizzando l’ultima resistenza contro gli invasori. Gli Achei, colpiti da tanto coraggio, propongono una tregua ai Troiani, concedendo loro di portar via i propri beni. Mentre tutti sono intenti a mettere in salvo oro, argento e altri oggetti preziosi, Enea si carica sulle spalle l’anziano padre: è questo l’unico bene che il giovane sceglie di salvaguardare. L’eroe si guadagna così l’ammirazione degli Achei, che gli concedono di portar via qualche altro bene dalla sua casa. Ed ecco che il giovane sorprende nuovamente tutti scegliendo gli dèi protettori della patria. Per tale merito gli viene concesso di lasciare la Troade con i superstiti per dirigersi dovunque voglia1.

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Gioventù e vecchiaia in competizione

Durante i giochi funebri organizzati da Enea per il padre, si combatte una singolare gara di pugilato fra il giovane Darete e il vecchio Entello. Mentre il baldanzoso Darete, compiaciuto del fatto che nessuno osasse sfidarlo, afferra già il premio, Aceste incita Entello, un tempo fortissimo, ad accogliere la sfida. Il vecchio pugile rilutta, ma subito dopo prende un paio di pesanti cesti, con i quali era abituato a combattere in gioventù. Iniziato il combattimento, dapprima Entello sembra soccombere al vigore del giovane avversario, ma poi la consapevolezza del proprio valore ne infiamma le forze. E così l’anziano pugile schiaccia l’avversario che a stento i compagni salvano dalla morte1.

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Vecchiaia della Sibilla

Mentre guida Enea attraverso l’Averno, la Sibilla racconta la sua storia. Febo, innamoratosi di lei, le offriva in cambio del suo amore qualunque cosa desiderasse. Allora la Sibilla raccolse un mucchio di polvere e chiese tanti anni quanti erano i granelli in quella manciata. Una dimenticanza, però, le fu fatale: non ricordò di precisare che quegli anni dovevano essere di gioventù. Di certo Febo le avrebbe concesso una perenne giovinezza, se solo la Sibilla avesse accettato l’amore che invece rifiutò. «E ormai – continuò – l’età più felice mi ha voltato le spalle e la gravosa vecchiaia avanza col suo passo tremante. Ho vissuto sette secoli e ancora mi attendono trecento estati e trecento autunni. Verrà il momento in cui il mio corpo si rattrappirà e la vecchiaia consumerà le mie membra riducendole a un mucchietto d’ossa. Allora chiunque dubiterà che io sia piaciuta a un dio»1.

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Morte di Palinuro

Era una notte serena e il mare era calmo. Per la flotta di Enea giunta quasi a metà del tragitto si presentava il momento opportuno per riposare. Solo il timoniere Palinuro restava vigile e saldo sul timone, quand’ecco il dio Sonno scendere dal cielo per recare mesti sogni all’innocente nocchiero. Si presenta a lui sotto le false spoglie di Forbante e lo invita a darsi al riposo come gli altri, approfittando della calma della notte. Ma Palinuro non cede, restando con le mani fisse al timone e gli occhi al cielo stellato. Allora il dio scrolla sulle sue tempie un ramo intriso di rugiada del Lete, infondendogli un pesante sopore. Quell’inaspettato riposo rende languido il suo corpo al punto da farlo precipitare in mare1.

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Morte di Miseno

Prima di accedere al regno dei morti, Enea riceve dalla Sibilla un’importante prescrizione: avrebbe dovuto dare sepoltura al cadavere di un amico che contaminava la flotta; solo allora sarebbe potuto entrare nei domini inaccessibili ai vivi. Si tratta di Miseno, colpito da una morte non degna di lui: egli era figlio del dio Eolo ed esperto nel suono della tromba, con il quale era solito infiammare il valore dei guerrieri. Dopo la morte del suo compagno Ettore, si era unito a Enea. Un giorno, però, mentre con una sola conchiglia faceva risuonare la distesa marina sfidando, folle, le divinità, venne afferrato da Tritone che indispettito lo sommerse tra gli scogli1.

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Morte di Lauso

Già le Parche tessevano gli ultimi fili per il giovane Lauso, mentre Enea affondava la sua valente spada in pieno petto al ragazzo: in un istante la sua tunica si riempì di sangue e la vita fuggì triste all’aldilà. Ma appena Enea vede quel giovane volto assumere il pallore della morte, lo compiange profondamente: «Cosa potrò concederti che sia degno di un’indole così valente? Terrai le armi di cui andasti tanto fiero e ti restituirò ai tuoi. Ma una cosa sola consolerà la tua infelice morte: cadi per mano del grande Enea»1.

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Divinizzazione di Anna Perenna

Fuggita da Cartagine, in mano ormai al nemico Iarba, Anna si ritrova dopo un lungo peregrinare nel Lazio, dove Enea ha ereditato il regno di Latino. Commosso nel vederla, l’eroe accoglie Anna con grande affabilità, tanto da suscitare la gelosia della moglie Lavinia, che inizia a tramare insidie contro di lei. Avvertita in sogno da Didone, Anna balza dal letto e fugge atterrita dalla reggia. La sua corsa, però, si arresta presso la riva del fiume Numicio: si crede, infatti, che il fiume stesso l’abbia afferrata celandola nelle sue onde. Il giorno dopo Enea va alla ricerca di Anna, seguendone le tracce fino al fiume, e qui ode una voce: «Sono una ninfa del fiume Numicio: celata nell’onda perenne, mi chiamo Anna Perenna»1.

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Enea e il mantello di Didone

Dalla loro prima unione nella spelonca, Enea e Didone non si sono più separati e la regina, presa dall’amore, si dimentica del regno e dei suoi doveri. I due amanti passano l’inverno nelle mollezze, rapiti da una vergognosa passione, finché la fama di quell’unione giunge alle orecchie di Iarba, il pretendente respinto, che sdegnato invoca l’intervento degli dèi. Lo sente Giove e ordina a Mercurio di richiamare Enea al suo destino: reggere l’Italia dopo un’aspra guerra, fondare dal nobile sangue di Teucro una nuova stirpe e sottomettere il mondo intero alle sue leggi. Mercurio scende rapido sulla terra e scorge Enea col mantello di porpora che Didone ha tessuto per lui, intento a fabbricare case per la sua regina, e lo investe con una dura invettiva, trasmettendogli l’ordine di salpare che viene direttamente da Giove. Scosso da quell’apparizione, Enea torna in sé e si decide a partire1.

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Camilla: le donne e la passione per l'oro

Tra gli uomini che, nel Lazio, prendono parte alla guerra contro Enea c’è anche una donna, Camilla, che guida un’ala di cavalieri e truppe rivestite di bronzo. Costei, una vergine, non è avvezza, nonostante le mani femminili, alla navetta e al fuso di Minerva, ma a sopportare le dure battaglie e a superare perfino i venti nella corsa campestre. Fu assai valorosa in guerra, finché non venne fuori la sua natura di donna. Quando in campo aperto, fra tutti i nemici, vide Cloreo brillare nella sua armatura frigia, splendente di fibbie d’oro, aureo il suo arco, aureo anche l’elmo, solo lui voleva catturare, lui solo inseguiva, nella mischia di guerra, desiderosa di indossare l’oro predato al nemico, prezioso bottino di guerra. Così, accecata da quell’oro e incauta, ardeva per una passione femminile. Di quella distrazione approfittò Arrunte: scaglia la lancia mirando alla vergine, e il suo colpo va a segno. Febo gli concede di abbattere la confusa Camilla. Lei si accascia dolente, le armi l’abbandonano e la sua vita fugge via tra le ombre1.

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Primo incontro tra Enea e Didone

Dopo il naufragio della flotta troiana sulla costa del Nord Africa, Enea avanza col fido Acate per la città di Cartagine, protetto dalla densa nube con cui Venere lo ha celato a sguardi indiscreti. All’improvviso i due si imbattono nella regina di Cartagine, la bellissima Didone, mentre il troiano Ilioneo e altri dei suoi che Enea credeva perduti stanno impetrando l’ospitalità della sovrana. In quel momento la nube divina si squarcia ed Enea si mostra a Didone con il volto e le spalle simili a un dio: Venere aveva infuso al figlio una scintilla di gioventù e aveva fatto sì che dai suoi occhi sprigionassero letizia e valore, lasciando la regina senza parole1.

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Mostri infernali nell'Eneide: le personificazioni

Assieme alla Sibilla, Enea è sceso da poco, attraverso una fenditura della roccia, nell’oltretomba. Ogni cosa è ammantata da una densa oscurità. Sul vestibolo dell’Orco, creature orrende si presentano agli occhi dell’eroe: Pianto, Affanni, Morbi, Vecchiaia, Paura, Fame, Miseria, Morte, Dolore, Sonno, Piaceri malvagi, Guerra, le Eumenidi e infine la folle Discordia che ha serpenti al posto dei capelli cinti da una benda intrisa di sangue1.

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Mostri infernali nell'Eneide

Dopo avere superato i mostri personificati, Enea, portando lo sguardo al centro del vestibolo, intravede un olmo immenso e scuro, dove si dice che abitino, a torme, i Sogni fallaci che danno suggerimenti ingannevoli ai mortali. Subito dietro l’olmo, c’è una ridda di creature orribili che presidiano minacciosamente le porte della reggia: i Centauri, le Scille biformi, Briareo dalle cento braccia, l’idra di Lerna, la Chimera, le Gorgoni e le Arpie e infine un mostro tricorpore cui non si assegna nome, ma che tutti sanno essere Gerione. Preso dal terrore, l’eroe sguaina la spada per difendersi dai mostri, ma la Sibilla lo informa che è inutile: si tratta solo di fantasmi incorporei che il ferro non potrebbe neanche colpire1.

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Enea e la Sibilla placano Cerbero

Una volta traghettato al di là dell’Acheronte, Enea e la sua guida si imbattono in Cerbero, il cane a tre teste con i colli orlati di serpi, che con il suo latrato rintrona i regni infernali. Il cane ha dimensioni enormi e, accucciato, occupa l’intera ampiezza di un enorme antro sito nei pressi della riva. Non appena scorge l’eroe e la Sibilla, comincia ad abbaiare e i suoi colli serpigni si arruffano. A questo punto la profetessa getta nelle sue fauci un’offa di miele e farina. Il cane la afferra al volo e, subito dopo averla ingollata, si addormenta1.

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Enea e Giove sul Campidoglio

Enea fa visita a Evandro, il re Arcade che ha edificato la città di Pallantium sul luogo in cui un giorno sorgerà Roma. L’ospite mostra all’eroe troiano alcuni luoghi destinati ad assumere grande rilevanza nella futura topografia della Città: il bosco che ospiterà l’asylum, la grotta del Lupercale, l’Argileto, e così via. Quando i due giungono di fronte a Campidoglio, che all’epoca è ancora e soltanto un colle coperto di selve, viene spiegato che quel luogo è avvolto da una dira religio (un inquietante timore religioso) e che i contadini ne sono spaventati: sul colle abita un dio, dice Evandro, non si sa chi sia, ma gli Arcadi credono di aver visto lassù Giove (Iuppiter) mentre agita la nera egida e scuote le nubi con la destra1.

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enea_latino

Quando Enea arriva nel Lazio si rivolge proprio a lui per stipulare un’alleanza. L’incontro permette a Enea di accedere al palazzo regale di Latino in cui vede che le statue lignee rappresentanti gli antenati divini e umani condividono lo stesso spazio, sono disposte cioè le une dopo le altre senza soluzione di continuità1.

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deificazione_enea

Uno è quello di Enea che, dopo essere sbarcato da Troia nel Lazio, aver combattuto diverse battaglie con i popoli locali, aver sposato Lavinia e aver fondato Lavinio, era scomparso in un fiume. Ma gli scrittori antichi sapevano che non era morto annegato, bensì scomparso alla vista degli umani per trasformarsi in un dio protettore della sua stirpe. Il racconto delle Metamorfosi di Ovidio è molto preciso a questo proposito. Dopo che il valore di Enea era stato riconosciuto da tutti e che aveva affidato il suo potere a suo figlio, era ormai arrivato il momento che diventasse un dio. Sua madre Venere allora domanda a Giove di renderlo immortale e lo fa chiedendo di accordargli un «potere divino» anche se piccolo1. Giove acconsente e Venere, contenta di aver raggiunto il suo scopo, chiede al fiume Numicius, dove Enea era scomparso, di purificare tutto ciò che di lui era mortale, lasciando solo la sua parte migliore. Poi sua madre stessa cosparge il corpo del figlio con un profumo divino e gli tocca la bocca con ambrosia e nettare, rendendolo dio (fecitque deum). Grazie a questo processo, dunque, Enea può passare questa frontiera e schierarsi dalla parte degli dèi.

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deificazione_anna

Dopo la partenza di Enea da Cartagine e il suicidio di Didone, anche la sorella Anna è costretta a fuggire perché il regno è invaso dai Numidi. Al termine di lunghe peregrinazioni, Anna giunge infine nel Lazio, dove incontra per caso Enea, quando ormai questi è sposato con Lavinia. Enea la ospita nel proprio palazzo e la tratta con tutti gli onori, cosa che rende gelosa sua moglie, che ordisce una vendetta. Ma Anna ha una visione notturna. Le appare Didone che la mette in guardia del pericolo imminente, cosicché Anna può fuggire a tempo. Nella sua corsa disperata arriva al fiume Numico, che la solleva e la nasconde nelle sue acque. A Enea e ai suoi compagni che la cercano disperatamente, la voce di Anna annuncia che è ormai diventata una ninfa del fiume e che, nascosta dall’onda perenne, si chiama Anna Perenna .

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Enea salva Anchise e le divinità tutelari

Dopo la conquista di Troia, gli Achei vincitori concedono ai superstiti la possibilità di portare con sé un oggetto o un bene che abbiano a cuore; ma mentre tutti gli altri prendono oro e argento, il solo Enea carica sulle proprie spalle il padre Anchise. Ottenuto per questo il diritto a una seconda scelta, Enea mette in salvo le divinità tutelari di Troia; a quel punto gli Achei, ammirati, gli concedono di scegliere qualsiasi compagno e di portare con sé tutti i beni che voglia1.

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Anchise appare in sogno ad Enea e profetizza la storia di Roma

Anchise appare in sogno a Enea, che a Cartagine si è legato alla regina Didone, invitandolo con insistenza a partire1; al momento della seconda sosta in Sicilia, la sua immagine suggerisce a Enea di lasciare nell’isola una parte del suo equipaggio e di condurre in Italia solo i «cuori più forti», preannunciando al figlio l’incontro che i due avranno nel regno dei morti e le guerre che attendono Enea una volta raggiunta la sua meta2. Nei Campi Elisi, a colloquio con il figlio, Anchise mostra a Enea i futuri eroi della storia romana, in quel momento ancora anime in attesa di incarnarsi, in una vertiginosa prospettiva che condensa un millennio di storia3, e insieme illustra al figlio i costumi di Roma, i tratti peculiari che ne definiscono l’identità, fino a rivendicare per i Romani il dominio del mondo4.

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Venere aiuta il figlio Enea

È in particolare l’Eneide virgiliana a concedere a Venere uno spazio di primo piano. Sin dall’inizio del poema è la dea, angosciata per la sorte di Enea, a lamentarsi con Giove per la tempesta che trattiene i Troiani lontani dall’Italia; quando essi fanno naufragio sulla costa africana, Venere si mostra al figlio sotto le vesti di una giovane cacciatrice e gli offre le informazioni essenziali per orientarsi in una situazione potenzialmente rischiosa. Di lì a poco ancora Venere avvolge Enea in una nube che gli consente di muoversi in piena sicurezza nella terra straniera, quindi, per proteggere il figlio dalla doppiezza dei Fenici e dall’ostilità di Giunone, cui Cartagine è consacrata, invia Cupido da Didone perché induca la regina a innamorarsi dell’ospite troiano. Nuovamente tormentata dall’angoscia, prega Nettuno di garantire a Enea, salpato dalla Sicilia, una navigazione propizia; e quando l’eroe avvia la ricerca del ramo d’oro che gli consentirà di accedere al regno dei morti, l’apparizione di due colombe, uccelli sacri a Venere, viene interpretata come un segno dell’incessante vigilanza materna. Assente nelle prime fasi dello sbarco in Italia, Venere torna in scena per chiedere al marito Vulcano di approntare nuove armi per Enea, quindi le consegna personalmente al figlio e gli concede quell’abbraccio cui si era sottratta sulla costa di Cartagine. La dea non si tiene lontana neppure dai campi di battaglia, intervenendo ripetutamente a protezione del figlio fino al duello finale con Turno. Virgilio non rinuncia infine a una vertiginosa apertura sul futuro: tra le scene effigiate sullo scudo di Enea, Venere compare nel quadro dedicato alla battaglia di Azio mentre sostiene Augusto nello scontro con le forze umane e divine dell’Oriente. Sollecita verso Enea, Venere non sarà meno attiva al fianco dei suoi discendenti, che si tratti del futuro principe o dei Romani nel loro complesso.

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Venere e l'amore tra Enea e Didone

L’azione di Venere nell’Eneide si conforma a questo modello; tanto più fa spicco l’unica eccezione significativa, la scelta di innescare in Didone una divorante passione per l’ospite troiano, allo scopo di garantire la sicurezza di Enea durante il suo soggiorno in terra libica. L’iniziativa viene presentata espressamente come un’autonoma decisione della dea ed è proprio in seguito ad essa che Enea rischierà di smarrire la propria identità eroica e dimenticare le gloriose prospettive che lo attendono in Italia. Si tratta di un momento nel quale Venere occupa un vuoto – Anchise è morto prima del naufragio troiano sulle coste dell’Africa –, destinato tuttavia a essere colmato dall’intervento diretto di Giove: il re degli dèi richiama bruscamente l’eroe troiano al compito che gli è stato affidato, ponendo così rimedio a una sollecitudine materna che ha rischiato di dirottare il corso degli eventi verso una deriva certo rassicurante, ma insieme sterile e povera di futuro.

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I Latini vengono spinti all'esogamia

Nella città del re Latino si verifica un singolare prodigio: sull’alloro sacro posto al centro della reggia si era infatti installato uno sciame di api. L’indovino di corte spiega che il fenomeno preannuncia l’arrivo di un gruppo di stranieri: sono appunto i Troiani di Enea, i cui primi ambasciatori entrano infatti in scena di lì a poco. L’oracolo di Fauno, dio fatidico e padre dello stesso Latino, conferma l’interpretazione del prodigio e mette in guarda il re dal cedere Lavinia a un partner locale, perché il futuro genero del re verrà da lontano1. È intorno a questo vaticinio che si accende il conflitto con la regina Amata, che ha scelto per la figlia un partner, Turno, che non solo appartiene alla consanguinea popolazione dei Rutuli, ma è legato alla stessa Amata da uno stretto rapporto di parentela, in quanto figlio di sua sorella Venilia.

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Relazione tra Anna e Didone

Nel mito, una simile declinazione della relazione fraterna non è assente, in particolare quando a entrare in gioco sono due sorelle: Anna costituisce una sorta di doppio minore della sorella Didone, regina di Cartagine, che a lei sola osa confessare i propri sentimenti nei confronti di Enea e in omaggio alle sue esortazioni accetta di mettere da parte la promessa di fedeltà a suo tempo fatta al cenere di Sicheo per abbandonarsi alla piena della passione. È poi ancora Anna a tentare un’impossibile riconciliazione quando la flotta troiana è ormai in procinto di salpare; ed è ancora lei a piangere sul corpo della regina suicida e a raccoglierne l’ultimo respiro, lamentando che quest’ultima non l’abbia voluta confidente dei suoi estremi propositi1. Le due sorelle sono anzi a tal punto fungibili che alcune versioni del mito attribuivano ad Anna il ruolo di amante di Enea e la scelta di gettarsi sul rogo dopo la partenza di quest’ultimo2.

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Giuturno e Turno

Giuturna svolge il ruolo di adiuvante di Turno nel suo scontro con Enea: è lei a suggerire al fratello di affrontare il giovane Pallante, alleato dei Troiani, per ritardare il duello fatale con Enea1; ed è ancora lei a sobillare i Rutuli perché rompano il patto con i Troiani e ad assumere le vesti dell’auriga di Turno conducendo il fratello lontano dalle zone del campo di battaglia nelle quali infuria Enea. Quando a Giuturna è chiaro che Giunone ha ormai abbandonato Turno alla propria sorte, la ninfa lamenta la propria immortalità, che le impedisce di essere compagna di un fratello senza il quale la vita non può avere per lei alcuna dolcezza2.

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Glauco, Enea e l’orgoglio del sangue

Glauco, eroe licio alleato dei Troiani, interrogato da Diomede sulla sua discendenza, racconta in dettaglio la sua genealogia e conclude: «Questa è la stirpe e il sangue di cui mi vanto di essere». Anche il troiano Enea ricorda ad Achille la propria gloriosa discendenza da Dardano figlio di Zeus, quindi conclude con le stesse parole di Glauco1.

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Enea lascia Creta per l’Italia

I Troiani, credendo di seguire il responso di Apollo, approdano a Creta, dove Enea inizia a fondare la nuova Ilio. Ma all’improvviso, in seguito a una corruzione dell'aria, giunge una pestilenza logorante per le membra e una mortifera annata per gli alberi e le piantagioni. I campi diventano sterili, l’erba inaridisce e la messe infetta nega il nutrimento. I Troiani si ammalano e muoiono. Per fortuna una notte appaiono in sogno a Enea i Penati, che gli spiegano come la terra nella quale si è insediato non sia quella a lui assegnata dal fato e occorra dunque allontanarsene in direzione dell’Italia1.

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La guarigione miracolosa di Enea

Nel bel mezzo della battaglia, una freccia trafigge Enea. L’eroe perde sangue e avanza a fatica sorreggendosi sulla lancia. Iapige si adopera invano con la sua mano curativa e le potenti erbe di Febo e invano cerca di rimuovere con la pinza la punta del dardo. Venere allora, scossa per l’immeritata sofferenza del figlio, coglie sull’Ida cretese il dittamo, uno stelo folto di foglie che in cima ha una chioma di fiori purpurei, lo infonde nelle acque di un fiume e, impartendo su di esso in segreto un potere teurgico, vi spruzza un succo di salubre ambrosia e profumata panacea, un’erba usata come rimedio contro ogni male. Iapige, ignaro, cura la ferita con l’acqua di quella fonte e subito ogni dolore fugge dal corpo di Enea e l’emorragia si arresta. La freccia viene via senza sforzo, quasi seguendo la mano, ed Enea recupera le energie. Lo stesso medico avverte come dietro le sue mani agisca l’opera di un dio1.

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La visita di Enea ai luoghi futuri di Roma

Alla vigilia della guerra contro i Rutuli, Enea, da poco giunto nel Lazio, si reca dal re Evandro per stringere un’alleanza militare. Costui vive con la sua comunità di Arcadi sul Palatino, proprio là dove, qualche secolo dopo, Romolo fonderà la sua città. Il re si mostra subito molto ospitale con Enea e lo conduce a visitare alcuni dei luoghi in cui si svolgerà un giorno la storia di Roma: il bosco che Romolo trasformerà in asilo, la grotta del Lupercale, la rupe che sarà chiamata Tarpea e la cima del Campidoglio, da cui, dice Evandro, promana un sacro terrore che atterrisce gli abitanti, convinti che un dio vi abiti, anche se non sanno dire chi sia. Infine, Evandro mostra al suo ospite le mura diroccate di due insediamenti più antichi del suo, l’uno fondato da Giano e chiamato Gianicolo, l’altro da Saturno e chiamato Saturnia1.

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Il sogno di Enea e la promessa del Tevere

A Enea, addormentato lungo la riva del Tevere, il dio del fiume predice in sogno gli eventi che da lì a poco si verificheranno: l’epifania di una scrofa bianca circondata da trenta lattonzoli, come segno del luogo predestinato per la nascita della città, la fondazione di Alba da parte di Ascanio, la fine della guerra contro gli Italici. Al risveglio, Enea promette eterna devozione al dio, che interviene fermando il moto delle onde e consentendo all’eroe di risalire facilmente il fiume1.

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L’eredità di Enea e la missione di Roma

Enea, accompagnato dalla Sibilla, è sceso agli Inferi, dove ha incontrato il padre Anchise, che lo conduce su un’altura per mostrargli la sua discendenza. Da qui egli osserva un lungo corteo di anime in attesa di venire al mondo, che sfila ordinatamente di fronte ai suoi occhi. Ad aprire la colonna è Silvio, figlio di Enea e Lavinia, cui seguono gli altri re albani, Romolo, il fondatore di Roma, e i suoi successori Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio, i Tarquini; poi i grandi eroi della storia repubblicana, Bruto che cacciò il tiranno e fu il primo console, i Deci, i Drusi, Torquato che fece giustiziare il figlio, Camillo che riprese Roma ai Galli; e molti altri ancora, Catone, i Gracchi, i due Scipioni, Cesare e Pompeo, lo stesso Augusto, sotto il cui regno tornerà l’età dell’oro, e infine il giovane Marcello, nipote di Augusto, scomparso a soli 19 anni1.

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Le tre vite di Anna Perenna

Secondo alcuni, Anna Perenna era in origine la sorella di Didone. Fuggita da Cartagine in seguito alla conquista della città da parte dei Numidi, dopo un lungo pellegrinaggio la donna approda finalmente sulle coste del Lazio e qui incontra Enea, divenuto nel frattempo re dei Latini. L’eroe l’accoglie nella sua casa e chiede alla moglie Lavinia di trattarla come una sorella. Ella però è subito colta da una gelosia irrefrenabile, che la spinge a progettare la morte dell’ospite straniera. Quella stessa notte Anna, avvertita in sogno da Didone, fugge dalla casa reale nei campi vicini. Si crede che allora il Numico, lo stesso fiume dove più tardi sarebbe scomparso Enea, l’abbia afferrata con i suoi flutti e celata tra i suoi gorghi. Lei stessa poi avrebbe rivelato con la sua voce a quanti la cercavano: «Sono una Ninfa del placido Numico; nascosta nel fiume perenne (amne perenne), mi chiamo Anna Perenna»1. Nel secondo racconto, Anna è invece una vecchia di Boville divenuta famosa per aver prestato il suo aiuto ai plebei rifugiatisi sul monte Sacro al tempo della secessione: ogni mattina ella distribuiva tra il popolo rustiche focacce da lei stessa preparate, permettendo così ai ribelli di sostenersi dal punto di vista alimentare e sopportare gli stenti della rivolta2. Infine, nel terzo racconto Anna, già divenuta dea, recita la parte della mezzana in un episodio di carattere satiresco che la vede protagonista accanto a Marte: quest’ultimo infatti, dopo aver inserito la festa di Anna Perenna nel suo stesso mese, le chiede di convincere Minerva, di cui è innamorato, a cedere alle sue lusinghe. Anna riferisce di essere riuscita a persuadere la dea, ma è lei stessa, coperta di veli in modo da non farsi riconoscere, che si presenta all’appuntamento d’amore. Solo all’ultimo, quando tenta di baciarla, Marte si accorge di essere stato beffato dalla vecchia da cui sperava di ottenere aiuto3.

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