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Miti

Impresa giovanile di Romolo e Remo: origine dei Lupercalia

Il Palatino era in festa: i pastori celebravano i consueti sacrifici in onore di Fauno. Mentre i sacerdoti erano intenti a preparare le viscere di una capretta, d’un tratto si odono le urla di un pastore: «Romolo, Remo, i predoni rubano i nostri animali!». I gemelli si attivano immediatamente e nudi come sono si lanciano all’inseguimento, da una parte Romolo con il gruppo dei Quintili, dall’altra Remo con il gruppo dei Fabi. Remo per primo riesce a recuperare gli animali rapiti e, tornando al banchetto, consuma le viscere; poco dopo torna anche Romolo, che al vedere la tavola vuota e le ossa spolpate si mette a ridere. Per questo ogni anno i Luperci corrono nudi1.

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Prodigi prima delle nozze di Lavinia

Il re Latino ha solo una figlia, Lavinia, ormai in età da marito. Molti pretendenti giungono a chiedere la sua mano, e primo fra tutti il bellissimo Turno, che la moglie di Latino, Amata, spera con tutto il cuore diventi suo genero; in effetti, a lui Latino ha promesso la figlia. Ma gli dèi si oppongono a quelle nozze con terribili prodigi. Prima, il grande lauro intorno al quale il re ha fondato la città viene attaccato da un fitto sciame di api; poi, mentre Lavinia brucia sugli altari pure fiaccole, una fiamma crepitante le avvolge il capo e il diadema senza bruciare: è il presagio di un destino illustre, ma anche di una grande guerra. Latino decide allora di chiedere un responso al padre Fauno, che gli suggerisce di attendere per le nozze l’arrivo di un eroe straniero1.

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Scambio di vesti, e nudità in occasione dei Lupercalia

Innamoratosi di Onfale, e introdottosi nella grotta in cui la regina di Lidia giaceva insieme con Eracle, Fauno credendo di mettere le mani su di lei si era invece trovato ad accarezzare le parti basse di lui, che si era scambiato le vesti con l’amante per un vezzoso gioco erotico. «L’Alcide rise, assieme a tutti quelli che lo videro caduto a terra, e la fanciulla lidia si fece beffe dell’amante. Il dio, che fu canzonato da una veste, adesso non ama le vesti, che ingannano gli occhi, e chiama nudi ai riti»1.

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origine_lupercalia

Questa festa era stata portata nel Lazio dai Greci arrivati con Evandro, che provenivano dall’Arcadia, una regione del Peloponneso in cui era particolarmente onorato il dio Pan. Essi avevano stabilito nel Lazio una festa che ricordava quella del loro paese di origine e che consisteva appunto in un sacrificio in onore di Pan, identificato con il dio italico Fauno. La festa era stata celebrata fino al tempo di Romolo e Remo. Una volta, mentre si svolgeva, fu annunciato che dei ladri di bestiame avevano rubato le mandrie. Romolo e Remo, che allora erano giovani pastori e stavano compiendo esercizi ginnici, non persero tempo a rivestirsi e, nudi com’erano, si dettero all’inseguimento dei briganti, ognuno con un gruppo di amici. Questo episodio costituisce il prototipo mitico della corsa attraverso le strade di Roma che i luperci compiono appunto vestiti solo di una pelle di capra, dopo essersi ripartiti in due gruppi .

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numa_scudo

Preoccupato dall’intensità delle piogge e dall’inconsueta frequenza dei fulmini scagliati sulla terra, Numa riesce a placare la collera di Giove dopo aver catturato, grazie alle indicazioni della ninfa Egeria, le divinità dei boschi Pico e Fauno, i quali fanno in modo di trarre il dio supremo dalle sedi celesti cosicché il re possa conferire con lui, e dopo aver aggirato brillantemente la richiesta di un sacrificio umano da parte del dio, secondo un celebre scambio di battute. Numa chiede al dio di essere edotto circa la modalità di scongiurare i fulmini, e Giove gli richiede di tagliare una testa; il re risponde che lo farà, asserendo che taglierà una cipolla del proprio orto. Il dio specifica allora che il capo da tagliare deve essere di un uomo; il re acconsente, precisando che allora gli avrebbe tagliato la cima dei capelli. Ma Giove chiede una vita; Numa assente, puntualizzando che sarebbe stata la vita di un pesce. Sorridendo, il dio riconosce il re degno del colloquio con gli dèi (O vir colloquio non abigende deum!) e gli promette un dono quale pegno di sovranità. Il giorno dopo il dio mantiene la sua promessa: apertosi il cielo, ne discende uno scudo oscillante che verrà ribattezzato dal re ancile poiché appariva tagliato in tondo da ogni parte, e privo di qualsiasi angolo comunque lo si guardasse. Per evitare che l’oggetto prodigioso potesse essere sottratto, il re ordina di fabbricarne altre undici copie. Il fabbro Mamurio Veturio fu così abile nel portare a termine il suo compito che l’originale non poteva essere distinto dagli scudi appena forgiati. In ricompensa il suo nome era ricordato alla fine del Carmen dei Salii. Tullo Ostilio avrebbe creato una seconda sodalitas, i Salii Collini, con sede sul Quirinale. I dodici ancilia erano custoditi nella Regia, nella parte di essa dedicata a Marte (sacrarium Martis), assieme all’hasta Martis, una lancia particolare che veniva scossa dai generali romani prima di partire per una guerra al grido di Mars vigila1.

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I Latini vengono spinti all'esogamia

Nella città del re Latino si verifica un singolare prodigio: sull’alloro sacro posto al centro della reggia si era infatti installato uno sciame di api. L’indovino di corte spiega che il fenomeno preannuncia l’arrivo di un gruppo di stranieri: sono appunto i Troiani di Enea, i cui primi ambasciatori entrano infatti in scena di lì a poco. L’oracolo di Fauno, dio fatidico e padre dello stesso Latino, conferma l’interpretazione del prodigio e mette in guarda il re dal cedere Lavinia a un partner locale, perché il futuro genero del re verrà da lontano1. È intorno a questo vaticinio che si accende il conflitto con la regina Amata, che ha scelto per la figlia un partner, Turno, che non solo appartiene alla consanguinea popolazione dei Rutuli, ma è legato alla stessa Amata da uno stretto rapporto di parentela, in quanto figlio di sua sorella Venilia.

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Differenze tra Romolo e Remo

In uno degli episodi che li vedono congiuntamente protagonisti, Romolo e Remo stanno celebrando un sacrificio in onore del dio Fauno quando vengono avvertiti che si è verificato un furto di bestiame nelle campagne circostanti e corrono in direzioni diverse. Remo in questo caso è più rapido e rientra prima del fratello nel luogo del sacrificio; lui e i suoi seguaci consumano allora le carni senza attendere l’arrivo di Romolo, al quale vengono lasciate le sole ossa1. In questo racconto (che costituisce il mito di fondazione dei Lupercalia, celebrati ogni anno il 15 febbraio da due gruppi di giovani che percorrono in direzioni opposte il perimetro del Palatino) Remo riesce dunque a risolvere più rapidamente del fratello la situazione di crisi per la quale è stato chiamato in causa; al tempo stesso, però, egli viola il principio della commensalità e dell’equa distribuzione delle carni fra due figure gerarchicamente paritetiche, impegnate nella celebrazione del medesimo rito. In un successivo momento della saga è invece Remo a lasciarsi catturare dai pastori di Alba Longa e Romolo a organizzare le forze in vista della sua liberazione; lo stesso nome Remus viene connesso da una parte della tradizione all’aggettivo remores, con il quale si designavano gli individui caratterizzati da lentezza nel corpo e ottusità nella mente2.

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Incesto tra Fauno e Fauna

Tra i molteplici aspetti della sua identità divina Fauno esprime anche quello di una sessualità onnivora e insofferente verso ogni limite; non stupisce dunque che avesse desiderato unirsi anche alla figlia Fauna. Quest’ultima però era nota per la sua ritrosia, al punto da evitare ogni contatto con gli uomini; persino il suo nome era ignoto a tutti, anzi pronunciarlo era vietato, ragione per cui era conosciuta semplicemente attraverso la perifrasi “Buona Dea”; oppone dunque una tenace resistenza alle pressioni paterne, anche quando il dio la colpisce con un bastone di legno di mirto o la costringe a ubriacarsi perché ceda al suo desiderio; Fauno si trasforma allora in serpente e solo così può unirsi con la figlia1.

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Fauno e Fauna, marito e moglie

Una diversa versione del mito faceva di Fauna non la figlia, ma la moglie del dio Fauno. Questa versione prevede una differente distribuzione dei medesimi elementi: lungi dall’essere una vergine di specchiata castità, Fauna è dedita al consumo clandestino di vino; per punirla il marito la uccide battendola con rami di mirto, salvo pentirsi successivamente della sua reazione e divinizzare la donna1. Per questo durante i riti della Bona Dea non si utilizza il mirto e il vino non viene chiamato con il suo nome.

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Mefiti e l’aria mortifera

Mefiti è la dea dell’odore nauseabondo. Il suo tempio si trova in Irpinia, nella valle d’Ansanto, terra mortifera e pestilenziale. Si racconta che in questo luogo si trovino fenditure del terreno che emanano esalazioni mortifere e soffi letali e che chiunque vi entri muoia all’istante1. Secondo la tradizione, qui si trova anche l’ingresso degli Inferi. Presso il tempio di Mefiti, inoltre, non occorre sgozzare le vittime sacrificali: basta avvicinarle all’acqua perché queste esalino l’ultimo respiro a causa dell’odore nauseabondo. Alcuni, però, ritengono che Mefiti non sia altri che Giunone sotto forma di aria2; secondo Porfirione3, infine, questo è solo il nome di una palude dall’odore esiziale presso la quale si trova l’oracolo di Fauno, un dio infero e pestilente.

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Fauna, il pudore e l’inaccessibilità della parola

Fauna, figlia di Fauno, un giorno desta l’irrefrenabile passione del padre; egli, dopo aver tentato di possederla in tutti i modi, anche facendola ubriacare, sempre respinto la sferza infine con una verga di mirto. In seguito, Fauno si trasforma in serpente e sotto questa forma riesce finalmente a unirsi con la figlia. Inoltre, a differenza del padre, Fauna è talmente pudica che non solo il suo nome non viene mai udito in pubblico, ma neppure vede mai un uomo o è vista da esso1.

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La morte di Fauna e il pentimento di Fauno

Alcuni sostengono che Fauna non era la figlia, bensì la moglie di Fauno. Raccontano che ella, essendosi ubriacata di nascosto, fu colpita a morte dal marito con verghe di mirto. Fauno in seguito si pentì tuttavia di questo atto violento e, non potendo più sopportare il rimpianto per la moglie perduta, stabilì che le fossero conferiti onori divini.

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La voce del dio nella selva: Fauno o Silvano?

All’epoca della guerra tra Romani ed Etruschi, all’ora del tramonto, i due eserciti si erano ritirati nei rispettivi accampamenti. C’erano state pesanti perdite in entrambi gli schieramenti, e tanta era la sfiducia soprattutto presso i Romani, i quali nella battaglia di quel giorno avevano perso il loro comandante. Molti stavano perciò accarezzando l’idea di abbandonare l’accampamento prima dell’alba. Mentre meditavano su tale ipotesi, all’ora della prima vigilia, dalla selva presso la quale erano accampati si udì una voce rivolta a entrambi gli eserciti, tanto possente da essere sentita da tutti. Era la manifestazione terrificante di Fauno, il dio dal quale provengono le parvenze e le voci soprannaturali che spaventano gli uomini. Esortò i Romani a essere valorosi: avevano vinto, perché i loro nemici contavano un caduto in più. Il console, spronato da questa voce, assaltò l’accampamento degli Etruschi e ne entrò in possesso nel cuore di quella stessa notte1. Altri2 in cui però la voce misteriosa è attribuita al dio Silvano, spesso assimilato a Fauno) raccontano invece che gli Etruschi, pur essendo superiori in battaglia, la abbandonarono all’improvviso: erano stati terrorizzati dalla voce possente del dio che, dalla vicina selva Arsia, annunciava la vittoria romana.

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Il responso di Fauno a Latino: un destino straniero

Nell’era lontana dei primordi, il re Latino governava da tempo su città e terre serene. Per volere degli dei, non aveva prole maschile; gli restava solo una figlia, Lavinia, che oscuri prodigi gli impedivano di dare in sposa. Profondamente turbato da ciò, il buon re decise di ricorrere agli oracoli di Fauno, il suo fatidico padre, e si recò dunque a consultare i boschi sacri presso la fonte Albunea. Le genti italiche conoscevano un rituale antico per ottenere i responsi divini, che aveva luogo in un bosco nel cuore della notte: il sacerdote, dopo aver recato doni agli dei ed essersi disteso sulle pelli degli animali sacrificati, era raggiunto nel sonno da visioni che si agitavano in modi sorprendenti davanti ai suoi occhi e udiva le voci più diverse; ammesso a colloquio con gli dei, dialogava così con Acheronte nel profondo Averno. Latino seguì il rito. Sacrificate cento pecore lanute, stava sdraiato supino sulle loro pelli, quando all’improvviso giunse una voce dalle profondità del bosco: non tentasse di unire in matrimonio la figlia con un Latino; generi stranieri sarebbero arrivati, i cui discendenti avrebbero esteso il loro dominio sul mondo intero1.

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Numa, la carestia e il sogno ambiguo di Fauno

All’epoca di Numa, il secondo re di Roma, la città venne minacciata da una grave carestia. L’infertilità si era diffusa rapidamente ed era arrivata a colpire anche gli animali. Numa decise allora di consultare Fauno, il quale dava responsi nel sonno, di notte, nel cuore di un’antica selva. Qui si recò il saggio re, e seguì il rito: sacrificò due pecore, una a Fauno, l’altra al Sonno, e si distese quindi sulle pelli, pregando il dio con parole appropriate. La notte sopraggiunse, portando con sé sogni oscuri. Fauno apparve alla destra del giaciglio del re e pronunciò parole: la Terra era adirata e doveva essere placata con il sacrificio di due vacche; una sola, però, doveva offrire due vite. Numa si destò in preda al terrore e prese a passeggiare per il bosco sacro, pensando e ripensando a quell’ambiguo e oscuro responso – il cui significato sarà poi chiarito dalla ninfa Egeria sua sposa amatissima (gli venivano richieste le viscere di una vacca gravida, la quale, morendo, avrebbe offerto al sacrificio due vite). Il buon re obbedì agli ordini divini e pose così fine alla carestia1.

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Il dialogo ambiguo tra Numa e Giove Elicio

Il pio Numa ha appena pacificato i bellicosi Romani, donando loro istituzioni civili e religiose, quando Giove scarica sulla terra una spaventosa sequenza di fulmini violentissimi. Il re ne è terrorizzato, insieme a tutto il popolo, e per scongiurare l’ira di Giove, su consiglio della ninfa Egeria, si impegna a scoprire il segreto per espiare i fulmini. Numa cattura con uno stratagemma Pico e Fauno, che in cambio della libertà gli insegnano come attirare (elicere) Giove giù dal cielo: in questo modo il re potrà chiedere direttamente al dio quale sacrificio espiatorio debba essergli tributato. Il momento culminante del racconto consiste in una serrata sequenza dialogica tra il dio e l’uomo. Nella formulazione di Valerio Anziate, Giove ingiunge: «Espierai con una testa (capite)». «Di cipolla (caepicio)», ridefinisce Numa. «Di uomo (humano)», precisa il dio. «Ma con un capello (capillo)», rilancia il re. «Vivente (animali)», insiste l’interlocutore. «Con un’acciuga (maena)», non si scoraggia il negoziatore. Secondo il tipico schema folclorico della triplicazione, in tre mosse Numa vince la resistenza dell’avversario immortale, che accetta la sua proposta di ridefinire la posta in gioco, convertendo il sacrificio umano in un’offerta sostitutiva meno crudele1.

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Numa e la soluzione dell’enigma della vacca gravida

Durante una carestia Numa interpella Fauno chiedendogli il modo per placare la Terra. Il dio invocato gli appare in sogno e dà il suo ordine enigmatico: il re dovrà sacrificare due vacche, ma dovrà essere una sola a dare due vite. Con l’aiuto di Egeria, Numa viene a capo dell’indovinello e offre alla Terra una vacca gravida, instaurando una consuetudine che verrà replicata ogni anno in aprile nella festa dei Fordicidia1.

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