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Miti

Morte di Antigone

La figlia di Edipo ha violato la legge che vieta a ogni cittadino, sotto pena di essere lapidato, di prestare gli onori funebri a Polinice, caduto in battaglia dopo aver marciato contro Tebe. Il divieto è imposto dal re tebano, lo zio Creonte. Ma Antigone di nascosto getta simbolicamente sul cadavere del fratello alcune manciate di terra; colta in flagrante, viene catturata ed è trascinata al cospetto di Creonte. Il sovrano ordina che la nipote sia murata viva in una stanza scavata nella roccia, dove morirà o sopravvivrà senza mai più vedere la luce del sole: le mani di Creonte saranno pure nei riguardi della ragazza. Alla fine il re muta consiglio, decidendo di seppellire Polinice e liberare Antigone, ma questa si è ormai impiccata nella cella, appendendosi per il collo a un laccio di lino1. In altre versioni, Antigone riesce a sottrarre il cadavere alle guardie e lo getta sulla pira destinata a Eteocle, l’altro fratello. Creonte, dopo aver scoperto la violazione di Antigone, la dà da uccidere al figlio Emone, sposo promesso della ragazza, ma questi disubbidisce per pietà e l’eroina viene messa in salvo2. Secondo un'altra tradizione Antigone, insieme alla sorella Ismene, viene bruciata viva, nel tempio di Era, da Laodamante figlio di Eteocle3.

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Suicidio di Erigone

Dioniso ha insegnato a Icario la coltivazione della vite. Quando l’uomo viene ucciso da un gruppo di contadini ubriachi, sua figlia Erigone si appende a un albero collocato nel luogo dove è seppellito il padre. Insorge allora un’epidemia di impiccagioni femminili e l’oracolo di Delfi prescrive di punire gli assassini di Icario e di istituire la festa dell’Aiora, durante la quale le giovani Ateniesi si dondolano su altalene appese ai rami degli alberi1.

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Il coraggio di Carite

Fra i pretendenti della bellissima Carite vi è Trasillo, un giovane di nobile famiglia, ma gran frequentatore di osterie e di donnacce. Rifiutato a causa dei suoi costumi riprovevoli, il giovane pensa di vendicarsi e durante una battuta di caccia uccide lo sposo di Carite, dopo aver architettato il delitto affinché sembri un incidente. Un giorno però, avvertita in sogno dall’anima dello sfortunato sposo, Carite decide di punire l’infame assassino: lo invita a presentarsi furtivamente di notte nella sua stanza e gli fa bere un potente sonnifero. Poi, con maschia ferocia si lancia contro l’assassino sepolto dal sonno e trafigge gli occhi di Trasillo con uno spillone. Infine, afferra la spada dello sposo e sul suo sepolcro si squarcia il petto1.

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Il coraggio di Clelia

Tra gli ostaggi di Porsenna vi erano anche ragazze di nobili famiglie romane. Una di queste, Clelia, ebbe l'ardire di scappare, insieme alle sue compagne, attraversando a nuoto il Tevere, mentre i nemici le scagliavano contro una fitta pioggia di dardi. Porsenna in un primo momento chiese la restituzione di Clelia, poi iniziò a provare ammirazione per il coraggio della fanciulla e fece sapere ai Romani che, se avessero consegnato l’ostaggio, lo avrebbe rimandato illeso. In segno di rispetto della parola data i Romani cedettero Clelia a Porsenna, che non solo ne lodò il comportamento, ma le concesse la metà degli ostaggi. Anche i Romani apprezzarono l’impresa di Clelia e premiarono il suo coraggio con un nuovo genere di onore, una statua equestre sulla via Sacra1.

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Vecchiaia al femminile: il sogno di Turno

Mentre Turno dorme, gli appare in sogno la Furia Aletto con l’aspetto di una vecchia: ha i capelli bianchi e la fronte solcata da rughe ripugnanti. Si presenta nelle sembianze di Calibe, l’anziana sacerdotessa di Giunone, per aizzare con l’inganno il giovane alla guerra. Ma Turno respinge il tentativo irridendo la vecchia con parole sprezzanti: «La tua vecchiaia spossata e incapace di proferire il vero, ti illude di profetare sulle guerre dei re»1.

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Anna Perenna sfama la plebe

Quando la plebe si rifugia sul monte Sacro e il cibo inizia a scarseggiare, una vecchia di nome Anna, povera ma di grande alacrità, si mette a preparare con mano tremante delle focacce rustiche che, ogni mattino, distribuisce fumanti al popolo. La plebe è così riconoscente alla sua generosità, che, ritornata la pace, le dedicò una statua in ricordo dell’aiuto che quella aveva portato loro1.

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Anna Perenna e Marte

Grazie alla generosità con cui aveva portato aiuto alla plebe, Anna è trasformata in una dea. Marte, che freme d’amore per Minerva, chiede all’anziana il suo aiuto come ruffiana: di sicuro avrebbe accettato, pensava il dio; era pur sempre una vecchia e alle vecchie si addice tale ruolo. In effetti Anna non rifiuta, ma si burla del dio travestendosi da Minerva: è proprio in ricordo di questa burla che nella festa di Anna Perenna le fanciulle intonano canti osceni1.

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La vecchia mezzana

A un mugnaio era toccata in sorte la peggiore delle mogli, che tradiva il marito e attirava a sé con l’inganno tutti gli uomini. Ogni giorno era con lei una vecchia che faceva la ruffiana delle sue tresche e portava i messaggi agli amanti. Un giorno la vecchia, insoddisfatta del nuovo amante che la donna aveva per le mani, la ammonì: «Te lo avevo detto io che questo amante è pigro e pauroso! Basta che il tuo noioso marito aggrotti le sopracciglia, che lui si mette a tremare. Quanto è meglio Filesitero! Lui sì che è giovane, bello, infaticabile e capace di eludere le inutili precauzioni dei mariti». A questo punto la vecchia si mette a raccontare di come una volta Filesitero era riuscito con una brillante trovata a spegnere del tutto i sospetti di un marito che si credeva astuto e che invece finì per essere tradito e ingannato. Al sentire il racconto la moglie del mugnaio provò invidia per quella donna fortunata che aveva potuto godere di un amante così sicuro del fatto suo e si commiserava: «Io, poveretta, ne ho beccato uno che ha paura persino del rumore della macina!». Ma la vecchia ruffiana la rassicurò: «Tranquilla! Te lo convincerò io questo ragazzo così spigliato e te lo farò venire qui più veloce che per un mandato di comparizione!». E infatti così avvenne1.

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Vecchiaia della Sibilla

Mentre guida Enea attraverso l’Averno, la Sibilla racconta la sua storia. Febo, innamoratosi di lei, le offriva in cambio del suo amore qualunque cosa desiderasse. Allora la Sibilla raccolse un mucchio di polvere e chiese tanti anni quanti erano i granelli in quella manciata. Una dimenticanza, però, le fu fatale: non ricordò di precisare che quegli anni dovevano essere di gioventù. Di certo Febo le avrebbe concesso una perenne giovinezza, se solo la Sibilla avesse accettato l’amore che invece rifiutò. «E ormai – continuò – l’età più felice mi ha voltato le spalle e la gravosa vecchiaia avanza col suo passo tremante. Ho vissuto sette secoli e ancora mi attendono trecento estati e trecento autunni. Verrà il momento in cui il mio corpo si rattrappirà e la vecchiaia consumerà le mie membra riducendole a un mucchietto d’ossa. Allora chiunque dubiterà che io sia piaciuta a un dio»1.

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Sacrificio delle figlie di Eretteo

Eretteo, re di Atene, durante la guerra contro gli Eleusini, riceve il responso oracolare secondo il quale, per ottenere la vittoria, deve sacrificare una delle sue figlie. La madre Prassitea induce alla accettazione volontaria del sacrificio eroico per la patria, in quanto fonte di gloria imperitura. Viene sacrificata la figlia più giovane, ma anche le altre, a seguito di un voto, si tolgono la vita1.

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Sacrificio di Macaria

I discendenti di Eracle, perseguitati da Euristeo, si rifugiano presso il tempio di Zeus. Quando l’esercito argivo è ormai alle porte della città, il re Demofonte di Atene rivela al vecchio Iolao il responso dell’oracolo di sacrificare a Core una vergine di nobile padre; Macaria, una degli Eraclidi, si offre allora spontaneamente al sacrificio, per salvare i suoi familiari e garantire la vittoria sui nemici, dando salvezza alla città1.

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Sacrificio di Ifigenia e Polissena

Nel mito troiano si iscrivono le vicende di Ifigenia e Polissena, il cui sacrificio si colloca rispettivamente in apertura e chiusura della guerra. L’esercito dei Greci è radunato in Aulide. Ma la bonaccia impedisce alla flotta di salpare. L’indovino Calcante rivela che occorre sacrificare ad Artemide la primogenita di Agamennone, il re e capo della spedizione. Ifigenia giunge quindi in Aulide, con la falsa promessa di nozze con Achille, ma il suo matrimonio sarà in realtà con Ade, il dio degli inferi: i proteleia, i riti preliminari alle nozze, altro non sono che la sua messa a morte. Compresa la ineluttabilità del suo destino, Ifigenia si offre spontaneamente al coltello del sacrificatore, ed eroicamente si avvia verso l’altare prefigurando la gloria dalla quale sarà incoronata, per avere dato alla Grecia salvezza e vittoria1. Alla fine della guerra, quando Troia è ormai distrutta dalle fiamme, il vecchio re ucciso e uccisi tutti gli uomini, il fantasma di Achille, il più forte dei Greci, reclama sulla sua tomba il sangue della principessa Polissena, per consentire il ritorno in patria dell’armata greca. La fanciulla lamenta di essere anymphos e anymenaios, privata delle nozze e del canto nuziale, ma in più, come desolata afferma la madre Ecuba, Polissena, con la sua morte, non solo è privata delle nozze, ma anche della sua parthenia. Anch’ella, conosciuta la sua sorte, dichiara di volere morire da libera, senza che nessuno osi toccarla, ma andando volontariamente verso l’altare2.

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Il sacrificio, tra verginità e matrimonio

Al momento fatale in cui il coltello sta per colpire il collo di Ifigenia immolata sull’altare in Aulide, Artemide sostituisce la fanciulla con una cerva, la trasferisce nel selvaggio paese dei Tauri, ne fa la sua sacerdotessa addetta al sacrificio degli stranieri che si accostano a questa terra. Ma da qui Ifigenia riesce a fuggire col fratello Oreste e a lei, ormai in salvo, Atena predice la fondazione del rituale di Brauron in onore della dea Artemide, dove otterrà un heroon con speciali tributi1. In un altro mito eziologico del rituale brauronio, un’orsa, introdottasi nel santuario di Artemide, viene uccisa; ne consegue una pestilenza e, per riparazione, le fanciulle, prima di sposarsi, devono "fare l’orsa"2. Analogamente, nel mito cultuale di Munichia viene uccisa un’orsa nel santuario di Artemide, cosa che provoca una pestilenza; un oracolo ordina di sacrificare una vergine alla dea, e un tal Embaro offre la propria figlia in cambio del sacerdozio perpetuo per la sua famiglia, ma invece nasconde la fanciulla e al suo posto sacrifica una capra camuffata con i suoi abiti; da questo sacrificio, accolto nonostante il carattere ingannevole, deriva un rituale del tipo della arkteia a Brauron (Suda, s.v. Embaros eimi).

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Stupro e metamorfosi di Callisto

Callisto fa parte della schiera di Artemide e come la dea vive godendo delle caccie sui monti e nella natura selvaggia. Ha fatto voto alla dea di preservare la sua verginità. Ma Zeus se ne invaghisce e riesce ad unirsi a lei. Artemide, piena di collera, la trasforma in orsa per punire la colpa di non avere mantenuto la verginità promessa, oppure, secondo un’altra variante, Zeus la trasforma nella costellazione dell’Orsa maggiore1.

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Andromaca come sposa ideale

Come Penelope, anche Andromaca è sposa mitica esemplare. Dopo che Ettore muore sotto la lancia di Achille e Troia è ormai in fiamme, Andromaca, come le altre donne troiane, viene condotta schiava, e allora ricorda struggendosi la sua vita serena di sposa felice, quando viveva il suo ruolo nel modo migliore: restava a casa vicino al focolare, senza suscitare pettegolezzi; parlava con discrezione e mostrava sempre al marito un volto sereno, sapendo bene quando prevalere o lasciare invece lasciare vincere lui.1.

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Suicidio di Evadne sul rogo di Capaneo

Capaneo, uno dei setti eroi andati in armi contro Tebe, nella guerra fratricida tra Eteocle e Polinice, muore fulminato dalla folgore di Zeus. La moglie Evadne sale sulla roccia che sovrasta la casa, in prossimità del rogo funebre del marito, e si slancia ella stessa nel rogo per il desiderio di morire con lui, come dice con foga esaltata: «È morte dolcissima morire assieme a chi amiamo […] unirò il mio corpo allo sposo amato nella fiamma splendente, stringendo la mia carne alla sua. Giungerò al talamo nuziale di Persefone, e non ti tradirò mai»1.

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Le amazzoni e il rifiuto del matrimonio

Tale era il rifiuto delle Amazzoni, una popolazione interamenste dedita alla guerra, le cui donne avevano abitudini tipicamente maschili. Se si univano a degli uomini, allevavano solo le femmine, atrofizzando il loro seno destro perché non fosse d’impedimento nell’uso delle armi e lasciando intatto quello sinistro per l’allattamento1.

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Achille a Sciro

Condotto a Sciro dalla madre Teti che non voleva che il figlio partecipasse alla spedizione contro Troia dove sapeva che avrebbe trovato la morte, Achille travestito con abiti femminili viene affidato al re Licomede. Sbarcato Odisseo sull’isola per cercarlo e associarlo alla spedizione, sospettando che il giovane si nascondesse in mezzo alle altre parthenoi, portò davanti alle fanciulle le armi insieme a dei cesti e altri strumenti per la tessitura. Le fanciulle si gettarono subito sui cesti, mentre Achille, attratto dallo scintillio delle armi, rivelò così la sua vera identità e la sua vocazione e partì quindi alla volta di Troia1.

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Tiresia e la sessualità maschile e femminile

Passeggiando sul monte Cillene, Tiresia scorge due serpenti intenti ad accoppiarsi. Li separa, o li uccide, e, in seguito a questo gesto, viene tramutato in femmina. Sette anni dopo, ritrovandosi di fronte alla medesima situazione, Tiresia interviene e riottiene il sesso primigenio. Divenuto celebre per questa vicenda, viene interpellato da Zeus ed Era, per dirimere una contesa nata fra i coniugi. Essi avevano discusso per sapere chi, tra uomo e donna, provasse il piacere maggiore nell'atto sessuale. Tiresia, unico al mondo ad avere fatto tutte e due le esperienze, afferma che, se immaginiamo il godimento amoroso fatto di dieci parti, alla donna ne spettano di certo nove, all'uomo una sola. Era, incollerita con Tiresia, per avere svelato il segreto del genere femminile, lo punisce con la cecità, mentre Zeus, come risarcimento, gli attribuisce il dono della profezia e la possibilità di vivere a lungo, fino a sette generazioni di uomini1.

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Callisto: perdita della verginità e castigo di Artemide

Al seguito della dea Artemide e, per questo, tenuta alla verginità, Callisto viene sedotta da Zeus che, per avere rapporti sessuali con la giovane, si trasforma nella stessa Artemide, cosa che rivela che soltanto sotto le sembianze della dea il dio sa di potere esaudire il suo desiderio d’amore per la giovane. In seguito Artemide, durante un bagno nei boschi, vede Callisto nuda, che mostra, nel corpo, i segni evidenti di una gravidanza incipiente. La dea punisce la ninfa, per avere disatteso il patto di verginità, tramutandola in un'orsa. In seguito essa troverà la morte colpita dalle frecce di Artemide stessa, ma verrà tramutata da Zeus nella costellazione dell'orsa maggiore1.

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Vesti maschili e vesti femminili

L’avvocato Cretico era solito andare in tribunale con una sottile veste da donna, che lasciava assai poco all’immaginazione; qui, sotto gli occhi allibiti dei presenti, recitava le sue arringhe scagliandosi duramente contro ogni tipo di adultera. Eppure, la sua colpa è persino peggiore di quella delle donne che egli fa condannare, nessuna delle quali avrebbe mai indossato una toga da uomo; per lui sarebbe stato più decoroso presentarsi in tribunale nudo1.

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Enea e il mantello di Didone

Dalla loro prima unione nella spelonca, Enea e Didone non si sono più separati e la regina, presa dall’amore, si dimentica del regno e dei suoi doveri. I due amanti passano l’inverno nelle mollezze, rapiti da una vergognosa passione, finché la fama di quell’unione giunge alle orecchie di Iarba, il pretendente respinto, che sdegnato invoca l’intervento degli dèi. Lo sente Giove e ordina a Mercurio di richiamare Enea al suo destino: reggere l’Italia dopo un’aspra guerra, fondare dal nobile sangue di Teucro una nuova stirpe e sottomettere il mondo intero alle sue leggi. Mercurio scende rapido sulla terra e scorge Enea col mantello di porpora che Didone ha tessuto per lui, intento a fabbricare case per la sua regina, e lo investe con una dura invettiva, trasmettendogli l’ordine di salpare che viene direttamente da Giove. Scosso da quell’apparizione, Enea torna in sé e si decide a partire1.

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Tessitura e ruoli di genere

In origine, prima dell’invenzione dei tessuti, si realizzavano vesti intrecciate. Il tessuto, infatti, seguì all’introduzione del ferro, perché è col ferro che si costruisce il telaio, con le sue spole, i fusi, le navette e i rulli rumorosi. Ma prima della stirpe delle donne la natura spinse gli uomini a lavorare la lana: infatti, la razza maschile è di molto più abile e industriosa in ogni forma di artigianato. Le cose andarono così finché i severi contadini non lo trasformarono in un difetto, per far sì che quelli acconsentissero ad affidare una simile attività alle mani femminili e temprassero le membra e le mani col duro lavoro, accettando di sostenere la fatica della coltivazione dei campi, piuttosto che quella del telaio1.

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Camilla: le donne e la passione per l'oro

Tra gli uomini che, nel Lazio, prendono parte alla guerra contro Enea c’è anche una donna, Camilla, che guida un’ala di cavalieri e truppe rivestite di bronzo. Costei, una vergine, non è avvezza, nonostante le mani femminili, alla navetta e al fuso di Minerva, ma a sopportare le dure battaglie e a superare perfino i venti nella corsa campestre. Fu assai valorosa in guerra, finché non venne fuori la sua natura di donna. Quando in campo aperto, fra tutti i nemici, vide Cloreo brillare nella sua armatura frigia, splendente di fibbie d’oro, aureo il suo arco, aureo anche l’elmo, solo lui voleva catturare, lui solo inseguiva, nella mischia di guerra, desiderosa di indossare l’oro predato al nemico, prezioso bottino di guerra. Così, accecata da quell’oro e incauta, ardeva per una passione femminile. Di quella distrazione approfittò Arrunte: scaglia la lancia mirando alla vergine, e il suo colpo va a segno. Febo gli concede di abbattere la confusa Camilla. Lei si accascia dolente, le armi l’abbandonano e la sua vita fugge via tra le ombre1.

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Morte di Semele e nascita di Bacco

Semele non è certa che il suo focoso amante sia davvero Giove, il padre degli dèi. Teme un inganno. Così, gli chiede di mostrarsi in tutto il suo potere, fulmini e saette comprese. Giove, che ha ormai promesso di esaudirla, non può rifiutare. Così richiama a sé tutta la sua potenza divina e, in quel modo, la incenerisce. Semele, però, era incinta di Bacco; Giove allora, deciso a salvare il bambino, che non era ancora ben formato, se lo ricuce nella coscia e successivamente porta a compimento i tempi materni della gestazione. Così la funzione della madre viene espletata dal corpo del padre1.

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Lo stupro di Lucrezia e lo spazio della casa

Durante l’assedio di Ardea, città dei Rutuli, gli ufficiali più in vista dell’esercito, tra cui Sesto Tarquinio, figlio del re, e il suo congiunto Tarquinio Collatino, prendono a discutere su chi di essi abbia la moglie più casta. La discussione si anima e Collatino invita i commilitoni a verificare in prima persona la superiorità della sua Lucrezia su tutte le altre. In effetti, mentre le nuore del re vengono sorprese nel pieno di un festino e in compagnia di coetanee, Lucrezia è seduta in piena notte al centro dell’atrio, impegnata a filare la lana insieme alle serve. Collatino si aggiudica così la gara delle mogli. È in quel momento che Sesto Tarquinio, eccitato dalla bellezza e dalla provata castità di Lucrezia, viene preso dalla smania di averla a tutti i costi. Così, qualche giorno dopo Sesto torna nella casa di Collatino; di notte, quando capisce che tutti sono sprofondati nel sonno, sguaina la spada e si reca nella stanza di Lucrezia, immobilizzandola con la mano puntata sul petto. Vedendo però che la donna è irremovibile e non cede nemmeno di fronte alla minaccia della morte, aggiunge all’intimidazione il disonore e si dice pronto a sgozzare un servo e a porlo, nudo, accanto a lei dopo averla uccisa, perché si dica che è morta nel corso di un infamante adulterio. Con questa minaccia, la libidine di Tarquinio ha la meglio sull’ostinata castità di Lucrezia. L’indomani, la matrona manda a chiamare il padre e il marito, pregandoli di venire accompagnati da un amico fidato. Arrivano così Spurio Lucrezio con Publio Valerio, Collatino con Lucio Giunio Bruto. Alla vista dei congiunti, Lucrezia racconta la propria vicenda, quindi induce i presenti a giurare che Tarquinio non resterà impunito. Tutti formulano il loro giuramento, poi cercano di consolare la donna; ma Lucrezia, afferrato il coltello che tiene nascosto sotto la veste, se lo pianta nel cuore e crolla a terra esanime1.

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Suppliche a Coriolano

Dopo aver lasciato Roma per un esilio volontario, in rotta con i propri concittadini, Caio Marcio Coriolano è stato accolto dai Volsci, che ne hanno fatto il proprio generale e alla cui testa egli giunge sino al punto di porre l’assedio alla propria città. Le matrone si recarono allora da Veturia e Volumnia, madre e moglie di Coriolano, per chiedere loro un intervento presso l’eroe divenuto capo dei nemici. Esse si recano al campo dei Volsci, nella speranza di ottenere con le preghiere e le lacrime ciò che gli uomini non avevano ottenuto con le armi. Attraverso un discorso efficace, che fa appello in primo luogo al suo ruolo di madre non solo di un figlio, ma anche di un cittadino, Veturia riesce nell’intento e Coriolano rimuove l’assedio dall’Urbe1.

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Comportamento scellerato di Tullia

Tullia agisce in un primo tempo all’interno della casa, dove però tiene un comportamento del tutto inaccettabile (si incontra di nascosto con il marito della sorella, con il quale decide, e poi compie, gli omicidi della sorella e del marito), poi fuori dell’ambiente domestico. In particolare, subito dopo l’assassinio di suo padre Servio Tullio, Tullia si dà a una fitta sequenza di trasgressioni. Prima si reca nel Foro sul carpentum, un tipo di carro chiuso impiegato dalle matrone per non rinunciare alla necessaria riservatezza, ma del quale la donna farà un pessimo uso. Inoltre, una volta nel Foro Tullia si mescola alla folla degli uomini, rivolgendo la parola al marito in una tale sconveniente situazione, al punto che lo stesso Tarquinio si vede costretto ad allontanarla. Ed è durante il tragitto di ritorno che Tullia passa con il suo carro sul corpo del padre, che lì giaceva dopo che suo marito l’aveva fatto uccidere, nella strada che proprio da questo episodio prenderà il nome di Vicus Sceleratus. Tullia porta così fino ai Penati propri e del marito parte del sangue proveniente da quella terribile uccisione, del quale è imbrattata e schizzata lei medesima: e a questa sistematica infrazione dei doveri parentali non potrà che seguire l’ira dei Penati stessi. Tullia quindi non solo non sa limitarsi a stare nello spazio che le compete, ma al contrario fa dello spazio – di ogni spazio – l’uso più trasgressivo possibile1.

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Morte di Virginia

Quanto al mito di Virginia, la ragazza uccisa dal padre per sottrarla alle voglie colpevoli del decemviro Appio Claudio, il quale ha ordito un inganno per impadronirsi della vergine, in uno dei passaggi del racconto la vediamo muoversi nel Foro, ma è significativo che le fonti sentano il bisogno di motivare tale presenza: c’erano lì degli spazi adibiti a scuole. Inoltre, la ragazza è accompagnata dalla nutrice; e un po’più avanti il fidanzato Icilio, quando apostrofa il decemviro, afferma tra l’altro: «La fidanzata di Icilio non rimarrà fuori della casa di suo padre»1. Quando poi, prima del processo2, Virginio porta con sé nel Foro la figlia, questa è accompagnata da un certo numero di matrone e da molti difensori; di lì a poco però quella folla arretra, intimidita dall’atteggiamento violento di Appio Claudio, e la vergine resta in piedi, preda abbandonata all’oltraggio. È a questo punto che il padre, vista svanire ogni speranza di salvezza, chiede di portare un momento con sé la figlia verso il tempio della dea Cloacina e lì la uccide, per garantirne la libertà nell’unico modo in cui era possibile3. In quella situazione non solo le donne che le erano vicine, ma neppure i concittadini potevano assicurarle che la pudicizia di Virginia fosse rispettata, e quindi la ragazza non poteva più aspirare a ricoprire il ruolo che il suo statuto di vergine prescriveva e che aveva il suo preciso posto nella vita della comunità .

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Prometeo e l'origine dell'omosessualità

Al tempo in cui forgiava con l’argilla gli esseri umani, il titano Prometeo decide di lavorare separatamente i genitali, per adattarli in un secondo momento ai rispettivi corpi. A sera però, prima di completare il lavoro, il dio viene invitato a cena da Bacco e qui beve tanto da rientrare nel suo laboratorio con passo vacillante. Così, per un errore dovuto all’ebbrezza, Prometeo applica le parti femminili alla stirpe degli uomini e gli organi sessuali maschili alle femmine: così nascono le donne attratte da altre donne e i maschi effeminati1.

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Metamorfosi di Cenide, da femmina a maschio

Giovane e ambita principessa tessala, Cenide accende con la sua bellezza il desiderio di Nettuno ed è costretta a subirne la violenza. Il dio del mare per ricompensarla le offre di regalarle ciò che più desidera, e la ragazza chiede di non esser più donna per non dover sopportare nuovamente lo stesso destino; Nettuno le concede così il grande dono della metamorfosi in uomo, a cui aggiunge di suo anche quello dell’invulnerabilità. Divenuta Ceneo, Cenide inizia dunque una nuova vita come giovane eroe; dotato di un corpo capace di resistere alle aggressioni e addirittura impenetrabile a qualsiasi tipo di ferita, il giovane ben presto sperimenta i vantaggi della sua nuova identità: nella battaglia contro i Centauri tiene valorosamente testa all’immane violenza dei suoi avversari. Nonostante la loro incredulità, che li spinge a ricordare con disprezzo il suo passato di ragazza e a schernirlo come “mezzo uomo”, l’eroe dà prova di straordinaria virilità. I Centauri riusciranno ad avere la meglio su di lui soltanto attaccandolo in gruppo: il giovane Ceneo finirà allora per scomparire sotto il gigantesco cumulo di tronchi di albero che essi gli scagliano contro1.

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Ifide cresce come maschio, e ottiene la metamorfosi

Ifide, una ragazza di Creta, è destinata a una terribile sorte ancora prima di nascere: il padre infatti, spinto dalla povertà, ha deciso di mettere a morte un’eventuale figlia femmina, che non sarebbe in grado di mantenere. In preda alla disperazione, la madre si rivolge alla dea Iside, che le promette il suo aiuto; alla nascita della piccola, la donna fa dunque credere a tutti di aver partorito un maschio. Con questa falsa identità la piccola Ifide cresce felice, almeno fino a quando non arriva il momento di pensare alle nozze. La scelta del padre, infatti, non potrebbe essere più felice e nello stesso tempo sciagurata: Iante, la ragazza prescelta, è compagna dall’infanzia di Ifide e tra loro da tempo è sbocciato l’amore. Si avvicina dunque il giorno fissato per l’unione; ma mentre Iante ne attende l’arrivo con impazienza, Ifide, che è consapevole dell’inganno, si abbandona alla disperazione; ciò che la tormenta non è tanto la paura della punizione paterna, quanto la certezza che il suo amore non potrà essere appagato; se anche avvenissero le nozze, la ragazza sa bene che le sarebbe impossibile congiungersi con Iante. A risolvere le cose interviene ancora una volta la madre di Ifide, che di nuovo si rivolge a Iside per aiuto; la dea invia allora alle due donne segni che mostrano il suo favore, ed ecco che all’uscita dal tempio si compie il prodigio: il corpo di Ifide comincia gradualmente a mutare aspetto, il passo si fa più deciso, il colorito più scuro, si accentuano i tratti del corpo e del volto, cambia la capigliatura e quella che era una fanciulla si trasforma in ragazzo. All’alba del giorno seguente, dopo aver reso grazie alla dea, Ifide diventata maschio può finalmente celebrare tra la gioia di tutti le sue nozze con Iante1.

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Metamorfosi Ermafrodito

Il bellissimo Ermafrodito, figlio di Afrodite e di Hermes, ha appena oltrepassato la soglia dell’adolescenza e trascorre le sue giornate errando per i boschi alla ricerca di fonti e corsi d’acqua. Un giorno giunge in Caria, alle acque incantevoli della sorgente presso cui abita Salmacide, una ninfa dalla femminilità esasperata, che rifiuta la caccia vivendo nell’ozio, intenta solo a cogliere fiori e a curare il suo aspetto. Non appena lo vede, la ninfa è conquistata dalla bellezza del giovane; perciò gli si avvicina e parlandogli con dolcezza lo invita all’amore. Ma Ermafrodito non vuole saperne e la respinge con forza, minacciando di andarsene; Salmacide allora finge di ritirarsi, ma si nasconde poco lontano e da lì osserva il giovane spogliarsi e tuffarsi nelle acque trasparenti. Lo spettacolo del bellissimo corpo che nuota nudo sotto lo specchio della corrente accende ancora di più il suo desiderio: vedendolo immerso nelle acque della sua fonte, la ninfa non resiste al desiderio, lo raggiunge e stringendosi a lui cerca in tutti modi di sedurlo. La forza del suo abbraccio però non basta a superare la resistenza di Ermafrodito, che accanitamente lotta per liberarsi dalla stretta; Salmacide capisce allora di non poterlo avere, ma prega gli dèi di poter restare per sempre così, avvinghiata a quel corpo da cui non riesce a stare lontana. Subito il suo desiderio è esaudito: le membra della ninfa diventano tutt’uno con quelle di Ermafrodito e il giovane con orrore osserva il suo corpo farsi più morbido e la sua voce sempre più sottile; disperato per essere divenuto un uomo a metà, invoca vendetta e chiede ai genitori divini che la stessa sciagurata sorte possa toccare a tutti i maschi che si immergeranno nelle acque della fonte Salmacide1.

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